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Il brigantaggio nello Stato Pontificio

Posted by on Nov 1, 2018

Il brigantaggio nello Stato Pontificio

Nell’Ottocento diverse regioni d’Italia hanno conosciuto violente manifestazioni di brigantaggio. L’area più travagliata fu certamente quella dell’Appennino meridionale, con una fascia che andava dall’Abruzzo sino alla Calabria, ma anche nello Stato Pontificio il fenomeno conobbe una vasta diffusione.

Alla frontiera con il Regno delle Due Sicilie

Il Lazio meridionale fu per molti secoli un’area ad alta presenza di briganti, sia per il suo carattere di frontiera, che facilitava gli spostamenti dei briganti da una parte all’altra del confine, per sfuggire ai gendarmi ed alle polizie, sia per un territorio che agevolava le operazioni brigantesche, fu per molti secoli un’area ad alta presenza di briganti. Quest’area continuò ad essere largamente infestata dai briganti dopo l’assedio di Gaeta. Un ponderoso ed analitico studio in proposito è quello di Michele Colagiovanni, intitolato “Il triangolo della morte: il brigantaggio di confine nel Lazio meridionale tra Sette e Ottocento”.

 

Già negli anni della Restaurazione, dunque, l’attività brigantesca era qui assai intensa. I vescovi del Lazio emisero fra il 1815 ed il 1824 un buon numero di editti contro i briganti, che prevedevano la fucilazione per i criminali riuniti in bande, l’ergastolo per quelli isolati, severe condanne per i manutengoli, taglie e premi per coloro che catturassero o facessero catturare i briganti. Queste norme furono poi riprese dal Delegato Apostolico di Frosinone, Monsignor Pericoli, ancora nel 1865.

Gli editti pontifici d’inizio Ottocento giungevano ad imporre la pena di morte per chi avesse aiutato in qualche modo i banditi ed attribuivano responsabilità collettività ai comuni d’origine dei briganti tramite balzelli di varia natura. Nel dicembre del 1817 Monsignor Facca, incaricato d’annientare i briganti, applicò una serie di provvedimenti, che prevedevano fra l’altro pene severe per i familiari od amici dei briganti colpevoli di favoreggiamento, la chiusura (tramite la muratura di porte e finestre) di osterie e case di campagna, la grazia per i briganti che collaborassero nella cattura od uccisione di loro complici. Nell’agosto del 1815, il Cardinale Consalvi istituì una commissione militare contro i briganti, aumentò le taglie poste sulle loro teste, comminò la pena di morte a carico non solo di quegli individui che facessero parte di comitive formate da almeno tre persone (anche senza aver consumato alcun delitto), ma anche dei loro complici e protettori. Egli ordinava inoltre un’accresciuta presenza di militari nel territorio del basso Lazio e siglava una convenzione col vicino reame borbonico, affinché le forze armate dei due stati potessero varcare la frontiera per inseguire e distruggere le bandi di criminali che cercavano scampo oltreconfine. Le norme, molto severe, emanate dal Consalvi contro i briganti non ottennero però molti effetti, tanto che nel 1819 questo medesimo cardinale ordinò la distruzione d’un intero paese, quello di Sonnino nel Lazio, poiché era divenuto l’epicentro del brigantaggio locale. L’ordine non fu poi realizzato e ci si limitò a distruggere parte di questa cittadina: ma il fatto stesso che si sia pensato di spianare un intero paese dimostra quanto fosse radicato il fenomeno brigantesco.

In Romagna

Un’altra regione con notevole presenza di briganti fu la Romagna. Molti fra costoro erano puramente e semplicemente criminali, altri però avevano aderito ad una società segreta reazionaria, che prendeva i nomi di “Centurioni” o “Zelanti”. I suoi membri contavano una manovalanza criminale costituita da briganti, ma coloro che li guidavano erano invece di ben altra classe sociale ed assolutamente reazionari, servendosi del loro operato per aggredire e terrorizzare i liberali, i quali però rispondevano con metodi non dissimili. Solo in parte queste lotte era propriamente politiche, poiché le rivalità familiari e clientelari contaminavano il contrasto ideologico.

La situazione s’aggravò a tal punto che infine sotto Pio IX si decise di ricorrere a misure drastiche, essendo la Romagna funestata da una guerra civile strisciante, in cui ad assassini politici continui si accompagnavano atti esclusivamente criminali, come rapine (cfr. ad esempio G. Candeloro, “Storia dell’Italia moderna”, vol. II, “Dalla Restaurazione alla rivoluzione nazionale”, Milano 1960, pp.

63 sgg.; D. Tarantini, “La maniera forte”, Verona 1975, p. 23). Nel 1849, al momento della restaurazione compiuta dagli Austriaci in Romagna, il maresciallo Thurn scriveva al commissario pontificio straordinario delle quattro legazioni, residente a Bologna, parlando di bande armate dedite alle grassazioni e che mettevano in pericolo la vita e le proprietà di tutti i sudditi pontifici in Romagna, in cui non esisteva “niuna sicurezza”. Thurn proponeva addirittura la deportazione come misura per reprimere tale banditismo.

Tra i briganti di questo periodo, assai noto fu Stefano Pelloni, detto il Passatore per via dell’attività del padre, traghettatore sul fiume Lamone. Agì in Romagna e compì stupri, furti e omicidi, decapitando le sue vittime ed occupando, con la sua banda, interi paesi. Fu ucciso dai gendarmi pontifici il 23 marzo del 1851 a Russi, nella provincia di Ravenna, ed il suo cadavere fu posto su un carro e trasportato in tutti i villaggi della zona a dimostrazione dell’avvenuta morte.

Coi suoi si servì della Toscana per fuggire alla cattura della gendarmeria pontificia. Lo raccontò il suo compagno Dumandone, alias Antonio Farina, che passò in Toscana due volte, nel 1850 e nel 1851. Servendosi della frontiera toscana come i briganti facevano a Sud con quella del Lazio, pure Teggione, alias Tommaso Montini, fece lo stesso riparando a Modigliana (Vedasi D. Mengozzi, Sicurezza e criminalità: rivolte e comportamenti irregolari nell’Italia).

Dopo l’Unità

Il mondo clericale di Pio IX, acerrimo nemico dell’Unità d’Italia e dello stato laico, finanziò, armò e fornì riparo ai briganti e consentì loro di rifugiarsi nel Lazio papalino, facendone propria base operativa. Eppure, dopo alcuni anni di tale politica, il Pontefice, malgrado fosse estremamente ostile allo stato italiano, non solo cessò d’appoggiare i briganti, ma addirittura sottoscrisse con il governo italiano il cosiddetto “accordo di Cassino” (il 24 febbraio 1867), una convenzione che istituiva apposite formazioni di squadriglieri antibrigantaggio e consentiva alle unità regolari del Regio Esercito di passare il confine per inseguire e distruggere i briganti, in pieno territorio pontificio. Perché questo cambiamento?

La decisione del Papa può stupire, perché egli rimase per tutta la vita del tutto contrario ad ogni cedimento della sovranità dello Stato Pontificio, ma la causa di una simile decisione si dovette alla gravità delle devastazioni che i briganti avevano inflitto al territorio del Lazio meridionale. Nonostante questi ultimi si trovassero su di uno stato loro amico e benefattore, infatti, seminarono morte, paura e violenze a danno della popolazione inerme.

Già anni prima della Convenzione di Cassino lo Stato Pontificio aveva operato un drastico mutamento nella sua politica verso i briganti, al punto che l’Osservatore Romano, per rispondere alle accuse di chi sosteneva che il Pontefice favoriva il brigantaggio, vantò l’operato delle truppe papaline nella repressione dell’attività banditesca nel Lazio sostenendo che si cercava erroneamente di dipendete il governo papale quale “complice del brigantaggio, mentre ne è la vittima” (Osservatore Romano, n. 297, 29 dicembre 1864). Il quindicinale dei gesuiti “La Civiltà Cattolica”, spesso citato dai sedicenti revisionisti a sostegno delle proprie posizioni per aver sovente difeso con propri articoli il brigantaggio o la cosiddetta “causa legittimista”, mutò i suoi giudizi quando i briganti divennero particolarmente numerosi ed aggressivi anche nel Lazio meridionale. Allora anche “La Civiltà Cattolica” prese a condannare in modo radicale e risoluto i briganti. Ad esempio, un articolo di questo giornale parlava di costoro come “turbe di ladroni e di malfattori; aizzati agli assassinii ed alle ruberie, quali da spirito di vendetta, quali da istinto di viziosa natura, quali da errore di mente e quali da turpe cupidità d’interesse” (“Il brigantaggio distrutto negli stati pontifici” in “La Civiltà Cattolica”, serie VII, vol. X, 6 giugno 1870, p. 649).

Soltanto nel 1870, pochi mesi prima di Porta Pia, il governo pontificio poteva proclamare il brigantaggio sul suo territorio definitivamente sconfitto, come dichiarava una relazione ufficiale del Ministero delle armi intitolata “Brigantaggio nelle province di Velletri e Frosinone dal 1865 al 1869 e sua totale distruzione”. Ovviamente non tutto era finito. Così Angelo Mazzoleni, in “Il popolo Italiano. Studi politici” del 1873, poté scrivere: “Il brigantaggio, questa tremenda piaga delle provincie napoletane… è ridotto oggi a così piccole proporzioni, da lasciar ferma lusinga cge fra breve sarà del tutto scomparso… Solo nella Romagna, a Cesena, Lugo, Faenza, Imola, trionfa su larga scala il malandrinaggio, organizzato in vaste e potenti associazioni, le quali dispongono della vita e degli averi di intere popolazioni, intimidite al punto da permettere in pien meriggio i più atroci misfatti, senza che alcuno osi farsi accusatore o testimonio avanti le Corti d’Assise”.

Una testimonianza interessante è quella di Carlo Bartolini, ufficiale dell’esercito pontificio, che s’infiltrò in un gruppo di briganti e riferì poi la sua vicenda nell’opera “Il brigantaggio nello Stato pontificio. Cenno storico-aneddotico dal 1860 al 1870”. Bartolini scrisse: “I nostri briganti non sdegnavano di tagliare ai prigionieri brani di carne, cospergerli di sale e pepe e dopo di averli rosolati leggermente sul fuoco, ancora stillanti sangue mangiarseli innanzi alle stesse vittime col più gran gusto come un saporoso manicaretto”. In un passo dell’opera, egli racconta di vicebrigadiere pontificio, caduto ferito ma vivo nelle mani dei banditi, che lo fecero a pezzi con i loro coltelli, finché uno di loro ne estrasse il fegato e lo divorò ancora crudo, fra gli applausi dei compagni.

In un articolo del Subalpino (14 giugno 1864) riferì dei terribili fatti di Bocconi, provincia di Forlì, consegnandoci una veritiera e dettagliata immagine d’un sequestro con estorsione: “Circa le ore 4 pomeridiane il possidente e locandiere Benedetto Frassineti di quel luogo, uscendo di casa recavasi alla sua vigna alla distanza di venti passi circa, col suo contadino Domenico Visani, quando un uomo sconosciuto e armato di fucile lo afferrò per un braccio, minacciandolo della vita laddove si fosse ricusato di salire con lui nel prossimo monte. Il Frassineti tanto fece che poté fuggire dalle sue mani, ma fatti pochi passi si trovò circondato da altri otto o nove armati, tutti coperti nel viso, e gli fu giuocoforza seguirli in cima a quell’altissimo monte. Alle grida del Frassineti e de’ suoi famigliari, accorsero circa un centinaio degli abitanti di Bocconi, villaggio sul principio del quale accadeva il ratto, ma niuno si mosse, e tutti impassibili lasciarono che si commettesse quel misfatto a danno del loro compaesano. Condotto dunque il Frassineti in cima del monte fu obbligato con carta e lapis, che i malfattori fornirono, a scirvere alla propria famiglia, chiedendo duemila scudi per riscatto, ed inviarono un figlio del ridetto contadino Visani a recapitare il biglietto. Intanto che aspettavano il ritorno del messaggero accesero il foco, perchè si scaldasse il catturato, e gli usarono altre gentilezze quanto ne permettevano le circostanze e la località. Tornato il giovane Visani con sole lire 2,000, costoro non ne furono soddisfatti, e rimandarono il messo alla famiglia. Allora il nipote del Frassineti, Antonio Guidi, si recò a Portico (che è distante due miglia dal villaggio) e riuscot ad accumulare altra somma in oro, cioè L. 2,600 circa, potè finalmente alle ore 8 di sera ottenere la libertà per il Frassineti”.

Il parlamentare Naldi Zauli, rivolto al Ministro degli Interni del Regno d’Italia alla Camera dei Deputati il 23 giugno 1871, così si esprimeva: “Io lo dico per la conoscenza che ho di quel paese, lo dico per amore di verità, lo dico per la fede di uomini attendibilissimi ed integerrimi: i malfattori e i facinorosi che oggi perturbano le Romagne, che le dominano, le derubano e lordano di sangue, non sono uomini che appartengono a nessun partito politico. Voi li onorereste di troppo, stimandoli tali… Non è questa che una mano di facinorosi, per cui assolutismo o costituzione, monarchia o repubblica è tutt’uno; non tengono essi a denominazione o forma di pubblico reggimento meglio che a colore di bandiera; tutto è buono che non li rattenga dal raggiungere l’obbiettivo propostosi, il danaro guadagnato colla violenza, anziché col lavoro e col sudore della propria fronte”.

In effetti, quando i briganti, di norma semplici criminali comuni, parvero poter essere strumentalizzati in funzione antiunitaria, il governo pontificio li appoggiò e la sua stampa li difese ed elogiò. Quando poi, in conseguenza di questa politica, il brigantaggio ebbe una recrudescenza, allora il Pontefice intraprese la strada della più decisa repressione militare, non esitando a siglare un’alleanza di fatto con lo stato italiano. Questo brigantaggio ebbe sempre natura criminale, estranea di norma da motivazioni ideologiche legate al legittimismo. Tali briganti non erano che criminali comuni sostenuti con armi, viveri, denaro ecc. da interessati burattinai.

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

In copertina opera di Bartolomeo Pinelli, 1823. Fonte foto: dalla rete

 

 

 

 

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