IL CROLLO DELLA PRODUZIONE IN TERRA DI LAVORO DOPO L’UNITA
La causa principale del tracollo economico del Meridione che si è trascinato per oltre un quarantennio, sono state le tasse imposte alle manifatture del Sud dal governo piemontese. A risentirne soprattutto la florida industria tessile campana. Una produzione di qualità che fece fatica a vendere sul nuovo mercato nazionale unitario.
«I primi anni dopo l’Unità significarono per Terra di Lavoro la perdita di tutti quei “riguardi” che il vecchio regime aveva avuto nei suoi confronti. Gli investimenti dello Stato borbonico, rispetto alla entità complessiva dei capitali investiti nelle opere pubbliche, erano, infatti, sempre stati particolarmente consistenti in questa provincia; l’improvvisa riduzione generò seri disagi a tutta l’economia casertana, aggravata dal carico fiscale più pesante imposto dal nuovo Regno. A subire i danni maggiori fu l’industria; la colonia serica di San Leucio ed il setificio De Ruggiero, che avevano rappresentato la punta di diamante del comparto serico, furono costretti a chiudere anche per il crollo della coltivazione del baco. Solo gli opifici minori a gestione familiare o para-familiare riuscirono a sopravvivere. Il settore dei pannilana, concentrato nella Valle del Liri, subì un netto ridimensionamento; alcune gloriose fabbriche (la Zino e i fratelli Manna) furono costrette a chiudere anche se temporaneamente. Gli esercizi a carattere artigianale del Sorano scomparvero. Il numero complessivo degli occupati si ridusse a poco più di 3 mila unità a fronte dei 12 mila del 1845. Il settore cotoniero fu falcidiato: la Egg di Piedimonte, nel decennio 1864-1873, licenziò più di 1000 operai. L’industria della carta ebbe un forte tracollo, sebbene alcune fabbriche, come la Sorvillo e la Lefevre, riuscirono a superare la grave crisi. Più volte gli imprenditori locali intervennero con l’on. Polsinelli, criticando latariffa unica e la politica liberista del governo. I motivi della crisi, in realtà, erano numerosi: cessazione delle commesse statali, mancanza di capitali e debolezza dell’apparato creditizio. Infatti le casse di risparmio, nel 1868, erano appena tre in tutta la provincia; solo nel 1877 il Banco di Napoli apri una sua filiale a Caserta. Venuta meno la speranza di un rilancio industriale, le manifatture della Terra di Lavoro, dopo un periodo di breve, apparente ripresa, si avviarono verso una irreversibile crisi. I dati delle inchieste dell’epoca, curate dalla Camera di commercio di Caserta, parlano per il periodo 1863-1873 di un calo del 20 per cento della manodopera, in particolare quella femminile, con punte massime nel comparto tessile. Il valore complessivo dei prodotti passò dai 15 milioni del 1863 ai 12 milioni del 1873. Nel settore primario, la situazione fu diversa. L’estensione delle colture alle zone collinari e montane, la curva ascendente dei prezzi, la frantumazione della proprietà fondiaria della Chiesa, la diffusione della piccola proprietà mantennero, infatti, la produzione agricola ai livelli preunitari.La congiuntura favorevole, anzi, determinò un forte balzo in avanti di alcuni prodotti (patate, castagne, vino, leguminose), mentre altre coltivazioni (cotone e robbia) subirono, per la concorrenza straniera, un crollo verticale. L’andamento produttivo, comunque, fu discontinuo: solo per alcune annate fu davvero soddisfacente».
Cfr: G. Brancaccio, Una regionalizzazione difficile, in “L’annessione al nuovo Regno”, Napoli 1994
fonte
Ai Piemontesi interessava la produzione delle proprie aziende. Il crollo della produzione meridionale era per loro una vittoria importante. Fu così che fu fatto nascere il mito del nord produttivo e del sud parassita!