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IL CULTO DEI CADUTI E IL MITO DEI COMBATTENTI

Posted by on Giu 18, 2023

IL CULTO DEI CADUTI E IL MITO DEI COMBATTENTI

Dopo la prima guerra mondiale il culto dei caduti sarebbe divenuto uno degli elementi più importanti e densi di significato nella nuova «sacralizzazione della politica», che prese piede in particolare in Italia e in Germania in seguito ai rispettivi percorsi di «nazionalizzazione delle masse», la quale proprio attraverso la prima guerra mondiale avrebbe trovato un momento di straordinaria intensificazione.

Per il concetto di «sacralizzazione della politica» seguiamo la definizione di Emilio Gentile (storico allievo di Renzo De Felice), secondo cui “la sacralizzazione della politica consiste nell’attribuire carattere sacro a un’entità secolare, come la nazione, lo Stato, la razza, il partito, il capo. In tali situazioni, la politica diventa una religione perché pretende di definire il significato e il fine ultimo dell’esistenza individuale e collettiva attraverso un complesso di credenze, espresse per mezzo di miti, riti e simboli” (Emilio Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. VII).

Mi sembra che i monumenti locali offrano molti spunti di riflessione, non tanto su aspetti architettonici o formali (che richiederebbero una trattazione specialistica), quanto sul simbolismo in essi racchiuso: sono questi monumenti ad entrare – a volte dietro richiesta popolare, altre per imposizioni dall’alto – al centro della vita comunitaria. Quindi, la domanda che vorremmo porci è: che cosa rappresentavano questi manufatti per i contemporanei? Da questo deriva poi una seconda questione: come venne interpretata la differenza, per noi macroscopica, tra il piccolo altarino spontaneo in cui ritrovarsi a piangere e il monumento ornato di fasci littori che di lì a qualche anno avrebbe occupato le piazze? Per non parlare della differenza che passa tra il piangere i propri morti e l’utilizzarli, politicizzandoli a posteriori, per instaurare – come per alcuni versi fece il fascismo – un regime totalitario fondato, fra le altre cose, su quello che George L. Mosse ha efficacemente definito il «mito dell’esperienza della guerra»: “Lo scopo [del mito] era di rendere accettabile un passato intrinsecamente sgradevole: un compito importante non soltanto a fini consolatori, ma anche e soprattutto per la giustificazione per la nazione nel cui nome la guerra era stata combattuta. […] Il Mito dell’Esperienza della Guerra era volto ad occultare la guerra e a legittimare l’esperienza della guerra; esso mirava a rimuovere la realtà della guerra. La memoria della guerra venne rimodellata in un’esperienza sacra, che forniva alla nazione una nuova profondità di sentimento religioso, mettendo a sua disposizione una moltitudine di santi e di martiri, luoghi di culto, e un retaggio da emulare. […] Grazie al mito che giunse a circondarla, l’esperienza della guerra fu innalzata al regno del sacro.

Dalla fine vittoriosa della grande guerra nacque il mito dell’Italia di Vittorio Veneto, sfruttato con maestria dal fascismo. L’Italia di Vittorio Veneto era quella nata dal sacrificio di tutti gli italiani nelle trincee del Carso e sul Piave, l’Italia eroica e battagliera che generò i Fasci di Combattimento. L’italiano nuovo generato dalla guerra doveva essere totalmente diverso dal cittadino demoliberale del passato. Il fascismo si era attribuito il compito di far crescere moralmente e fisicamente le nuove generazioni, plagiandole per forgiare i cittadini e i soldati della nuova Italia. Dunque, durante il Ventennio il reduce combattente fu assurto a simbolo della rigenerata Italia del Littorio, e ancor di più lo fu il caduto in battaglia, santificato dal sangue versato per la causa della Nazione redenta.[1] Di conseguenza, furono fondate numerose associazioni d’arma e combattentistiche, le quali, non solo conservavano la memoria dei caduti e degli episodi di valore, ma prestavano assistenza alle famiglie dei caduti e agli invalidi di guerra.

Dunque, si realizzò la glorificazione della figura del combattente: i reduci saranno i capofila del rinnovamento politico e morale della Nazione, e le loro esperienze eroiche un retaggio da conservare e da emulare.

Leggendo la novella «L’eroe» di Giuseppe Garretto si nota chiaramente e immediatamente la dicotomia tra l’azione di glorificazione della guerra dei rappresentanti delle istituzioni e delle associazioni ufficiali e il sentimento di repulsione della gente comune verso la guerra, in particolare di quel mondo contadino che costituisce la massa dei soldati e che diffida dei galantuomini. Sintomi di questa dualità di sentimenti è da una parte l’aria di festa del paese, con scoppi di mortaretti, banda musicale, prete benedicente e bambini schiamazzanti, e dall’altra il disagio e la sofferenza del soldato mutilato e il profondo dolore della madre. La baronessa, presidentessa del Comitato Patriottico Femminile parla di «Patria riconoscente», mentre la madre addolorata grida «Come me l’hanno ridotto! Perché?». «Perché» è la domanda fondamentale che rimane priva di risposta, mentre il corteo, con carrozza, bandiere, banda e la crema del paese al seguito, avanza trionfalmente. L’eroe non ha né l’abito né l’aspetto adatto a quell’atmosfera gloriosa: volto pallido e sofferente, barba e capelli lunghi, uniforme lisa e sporca. È intontito, disorientato, ma viene coinvolto da quell’atmosfera esaltante, dall’inno intonato, dal profumo e dalla voce suadente della baronessa, dal discorso altisonante del sindaco, dalla folla che grida «viva l’eroe». Un uomo diventato martire e quindi eroe della guerra coloniale, simulacro di un santo come il S. Giovanni Battista che si venera in paese.

Quando la festa è finita e la banda cessa di suonare, ognuno va per i fatti suoi. Sulla strada rimane quel povero invalido privo di una gamba e con un braccio anchilosato. In quel silenzio il reduce mutilato inizia a rendersi conto di quale immensa sventura gli sia capitata, in quale profonda miseria è caduto, mentre sua madre continua a mormorare «Figlio mio, figlio mio» e le contadine gridano «Debbono bruciarli vivi, quelli che vogliono le guerre!». È l’inizio di un percorso discendente che lo porterà dalla tristezza alla disperazione, dall’abbandono al suicidio, mentre la baronessa continua a omaggiare i nuovi eroi-martiri di nuove guerre, con la sua dolce voce, il suo profumo, i suoi gesti aggraziati, i suoi occhi sfavillanti di entusiasmo.

Domenico Anfora


[1] G. Giansanti, La politica pedagogica fascista: l’Opera Nazionale Balilla e la Gioventù Italiana del Littorio, in «Il Pensiero Storico. Rivista italiana di Storia delle Idee», n° 2 del 2016, p. 128.

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