Il governo dei Nobili a Napoli: Autonomismo, decentramento, partecipazione governativa dei Seggi cittadini. (sesta parte)
L’EPOCA ANGIOINA
Sotto questa dinastia risulterebbe il numero dei sedili essere passato da tre-quattro a sei.
Gli angioini si manifestarono, comunque, contrari a tale sistema organizzativo cittadino, tanto da tentare di limitare un simile sistema politico di governo, gestito dalla nobiltà urbana feudataria. Con re Roberto ebbe inizio la riforma angioina dell’amministrazione cittadina (metà XIII secolo), volta a ridurre i diversi privilegi nobiliari, come ad esempio il diritto residenziale di aggregazione, in uso fino all’epoca del suo regno, per il quale i nobili “mutando domicilio cangiavano seggio”.
Fu concessa aggregazione nei sedili anche alle famiglie nobili di altre città, venute ad abitare a Napoli ed imparentatesi con il patriziato locale (aggregati per “allectionem”) nell’arco dei 30 anni. Costoro erano, poi, obbligati a collettare in eguale misura. Il governo deliberò, poi, per volontà di re Roberto, lo snellimento dell’organizzazione cittadinariducendo i sedili da 29 esistenti a 5 (Capuana, Nido, Montagna, Porto, Portanova), eliminando molti seggi minori, ove le famiglie erano estinte o passate in altro sedile principale. Il seggio di Melari, ad esempio, fu inglobato nel seggio di Capuana nel 1325, mentre quello di Griffi totalmente abolito nel 1331. Si verificò, pure, negli ultimi anni del regno del suddetto sovrano che si unissero due seggi maggiori: Forcella e Montagna, a causa del venir meno di un nucleo significativo di famiglie nella piazza di Forcella. Conferma di detta unione si rinviene in una lite del 1338, sorta tra i nobili di Capuana e Nido ed altre piazze, circa le concessioni di re Roberto sugli “onori” e “pesi” pubblici (terza parte a Capuana e Nido, terza parte a Montagna, Porto e Portanuova, terza parte al Popolo), in cui si menzionano solo 6 eletti compreso quello di Popolo(46).
Sotto re Roberto, comunque, si menzionano vari episodi di liti tra nobili delle diverse piazze, spesso con feriti e morti, tanto da costringere il medesimo sovrano ad intervenire con la formulazione di Capitoli (basati su dieci punti) per sedare le discordie tra le piazze nel 1339.
In merito all’appartenenza dei cittadini al sedile di Popolo, il medesimo sovrano angioino distinse detta classe in base alla ricchezza tra “popolo grasso” e “popolo minuto”: “De Populo qui comuni vocabulo dicitur grassus hoc est de meliore Populo, et non de Populo minuto et artistis, qui soliti non sunt, nec expedit eis talis oneribus et honoribus”. Questo “popolo grasso”, che guadagnava “molto con l’industria e col commercio”(facoltosi negozianti, notai, artigiani), sfoggiava “dissennatamente coi loro lucri”, mentre l’antica nobiltà si asteneva “da ogni spesa superflua” e non oltrepassava “una cifra stabilita nell’abbigliarsi” per non “impoverire il patrimonio degli avi”.
Vi fu, inoltre, volontà reale di garantire a tale piazza gli stessi diritti e pubblici voti goduti dalla nobiltà (nel 1380 vi fu a Napoli anche una sommossa popolare per tale rivendicazione).
a regina Giovanna perfezionò la suddetta riforma, confermando il numero dei seggi e rispettivo potere politico. In particolare, fu abolito definitivamente il seggio di Forcella ed incorporato in quello di Montagna (con diritto di nominare due eletti: 1 per Montagna, 1 per Forcella).
Fu ribadita la chiusura dei seggi minori, a discapito del decentramento amministrativo, nonché fissato l’obbligo di aggregazione delle famiglie residenti nei seggi principali. Inoltre, fu ordinato la redazione dell’elenco dei feudatari, in cui non comparirono i feudatari delle piazze abolite.
Anche sotto tale regina scoppiarono tumulti ad opera dei nobili dei seggi di Nido e Capuana, rivendicando posti di prestigio nel governo ed uffici amministrativi, come da sentenza di re Roberto.
La rivolta rientrò(48) con l’indulto reale, concesso ai ribelli, con l’intento di placare gli animi e fidelizzare gli spiriti ribelli. Nel 1352 la stessa sovrana istituì l’Ordine di Nodoper coinvolgere una certa moltitudine di cavalieri del regno. Scrive al riguardo il Torelli (49) dell’esistenza a Napoli di “tre ordini della Nave, della Leonza, e del Nodo, che gli Antichi Re Napoletani concedevano più tosto di Confratanze di cavalieri, che d’Ordini meritavano il nome; perché, secondo il Padre Menestier, non erano confirmati dal Papa, ne regolati da Statuti”. Secondo questa fonte, re Carlo, tra l’altro, fu “l’istitutore” dell’Ordine della Nave che aveva come insegna la famosa nave “che condusse Giasone alla conquista del Vello d’oro”. Riguardo all’Ordine del Nodo, si rappresentava con “un laccio di seta d’oro, e di perle, che si legava nel petto, o si stringeva nel braccio, non mai concedevasi se non a’ Cavalieri di gran cuore”. In occasione del conflitto tra le armate di re Ludovico d’Ungheria, giunto nel Regno di Napoli per vendicare la morte del fratello Andrea, e l’esercito angioino della regina Giovanna, le cronache del tempo confermarono che il governo della città di Napoli era composto da sei piazze.
A quel tempo i sedili di Capuana e Nido erano considerati più prestigiosi rispetto alle altre piazze.
Re Carlo I d’Angiò confermò, poi, la concessione sui diritti doganali alla nobiltà di seggio, in special modo a quella di Capuana e Nido (dal 1334). Detto sovrano, seppur non introdusse nuove divisioni tra seggi nobiliari e popolari, accentuò tale distinzione con il rendere più illustre e rafforzare la nobiltà napoletana. Tra le prerogative concesse da re Carlo alla nobiltà, si annovera quella di pagare pur sempre le “collette” fiscali, ma separatamente dal Popolo, che aveva propri collettori. Confermò, anche, il privilegio concesso da re Manfredi di dividere tra i nobili la sessantesima parte delle entrate fiscali sulle mercanzie (jus delle mercanzie) che entravano a Napoli.
Secondo Francesco Palermo, Carlo I riorganizzò i parlamenti, riducendoli e limitandoli alla partecipazione della nobiltà feudale (baroni), degli ufficiali del Regno nonché di quattro deputati per ogni città e due per ogni terra. I baroni, frattanto, trovarono residenze nei seggi, specie in quelli di Capuana e Nido, in quanto piazze rappresentative della “nobiltà feudale” già dai tempi di re Roberto (i seggi di Montagna, Porto e Portanuova rappresentavano la “nobiltà secondaria”). Questa aristocrazia partenopea, sia “nobili” che “feudali” del Regno, giunse a rivendicare la maggioranza dei diritti e privilegi rispetto al Popolo, che intendeva invece salvaguardare l’atavico principio egalitario di rappresentanza(50).
Re Carlo decretò, comunque, che i nobili venissero nominati cavalieri solo se residenti a Napoli, capitale del regno, tanto che “la nobiltà Napoletana fregiata di questi titoli ed Ordini di Cavalleria, si rese più chiara ed illustre sopra la Nobiltà di tutte le altre città del Regno”. Lo stesso sovrano, tra l’altro, aveva portato con sé, poi, molti nobili provenzali e francesi che furono premiati con feudi e cariche pubbliche, seppur nel rispetto di quelle regole da lui fissate sul vivere nobilmente “cum armis et equis” nel proprio rione, nonché sul decoro con il cingolo militare, con cui si armavano i cavalieri (“Quod nullus possit accipere militare cingulum, nisi ex parte patris saltem sit miles”) e sul collettare con i nobili(51).
Il cavaliere milite, così, godette dei privilegi militari, dell’esenzione dalle tasse, di portare la spada fino al “gabinetto” del re, del privilegio della caccia, del non obbligo di battersi in duello con gli “ignobili”. Inoltre, imponenti cerimonie furono previste per l’acquisizione del cingolo. In questo periodo, l’aggregazione di una famiglia ad un seggio si confermò anche per mezzo del matrimonio contratto con un nobile e dimostrando di essere vissuti nobilmente in Napoli (sia come cittadini che come forestieri), nonché per mezzo delle stesse norme dei capitoli generali dei seggi 52).
Il possesso di case nei pressi dei seggi, pure, favorì la reintegra nei sedili nobiliari, perché ritenuto “atto possessivo di nobiltà in quel seggio”. Sotto il dominio degli angioini, in definitiva, fu concesso ai seggi di rappresentare la capitale ed il Regno, fissando regole più rigorose nelle aggregazioni rispetto alle precedenti regnanze, che invece avevano immesso nei ranghi del patriziato anche esponenti popolari “ascesi a grande ricchezze” o “nobilmente vissuti” ed ormai esenti dall’attività del mercanteggiare. Infine, il Giannone asserisce che al tempo di re Carlo I il numero dei seggi era comunque 29 (6 maggiori, 23 minori).
Sotto la giovane regnanza di Ladislao (1386), per frenare l’avido governo della di lui madre Margherita, sempre pronta ad imporre gabelle ai sudditi del regno, i seggi napoletani decisero unitamente di eleggere un collegio di “Otto Signori del Buono Stato” o buon governo [gli “Otto” furono Martuscello dell’Aversana (Capuana), Andrea Carrafa (Nido), Paolo Boccaporto e Tuccio di Tora (Montagna), Giovanni di Dura (Porto), Giulio di Costanzo (Portauova), Ottone Pisano e Stefano Marzato (Popolo)]. Costoro, nel ruolo di ministri del re, erano preposti al controllo delle decisioni governative del Supremo Consiglio, intervenendo in Tribunale contro le delibere ingiuste. Gli “Otto” si trovarono a sostenere il partito “angioino” che lottava per la successione di re Luigi II al trono di Napoli, avallata da papa Clemente.
Tale fazione, capeggiata da Tommaso Sanseverino, riuscì a prendere possesso della capitale, cacciando il partito “Durazzesco”, sostenitore di re Ladislao che con l’appoggio del Papa scismatico, Urbano, si ritirò in Gaeta.
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