Il governo dei Nobili a Napoli: Autonomismo, decentramento, partecipazione governativa dei Seggi cittadini.
Ovvero delle Famiglie Nobili e titolate del Napolitano, ascritte ai Sedili di Napoli, al Libro d’Oro Napolitano, appartenenti alle Piazze delle città del Napolitano dichiarate chiuse, all’Elenco Regionale Napolitano o che abbiano avuto un ruolo nelle vicende del Sud Italia.
- L’AUTONOMISMO OLIGARCHICO DEL PATRIZIATO E DEI BARONI NEL REGNO
La nobiltà cittadina di Napoli, al pari di quella municipale francese “Noblesse de cloche” ha partecipato al secolare funzionamento del sistema di governo urbano e di quello del Regno, mantenendo nel tempo un evidente livello di autonomia, rispetto al potere centrale reale e papale, nonché garantendo il rispetto dei princìpi di decentramento e partecipazione nell’amministrazione.
La storia di Napoli, capitale del regno è, quindi, legata da un vincolo simbiotico con quella delle tante famiglie patrizie, con loro genealogie ed ascendenti ivi residenti nel corso dei secoli. Questi gruppi familiari, che scelsero di vivere in determinate aree della città e del regno con proprie regole e nel rispetto di tradizioni e costumanze locali sin dall’origine dell’antica Partenope, sono stati presenti quali importanti protagonisti della crescita urbanistica e sviluppo economico dell’Urbe.
Difatti, tale ceto nobiliare ha lasciato diverse tracce del proprio livello socio-culturale, degne del lignaggio di appartenenza, nella compagine cittadina partenopea, edificando maestosi ed artistici palazzi gentilizi, imponenti cappelle familiari, suntuose chiese e contribuendo pure alla nascita di famose opere pie assistenziali.
Tra gli enti caritatevoli-assistenziali, sorti a Napoli, si annovera il Pio Monte della Misericordia, fondato dai nobili Cesare Sersale, Giovan Andrea Gambacorta, Girolamo Lagni, Astorgio Agnese, Giovan Battista d’Alessandro, Giovan Vincenzo Piscicelli, Giovan Battista Manso. Altro esempio fu il piccolo conservatorio, prima, Eremo di Suor Orsola Benincasa, poi, di cui le cronache riferiscono che “presero esempio gli Eletti della città, e tutti i cittadini…uomini e donne, giovani e vecchi nobili cittadini, e plebei, si spogliarono di tutt’il meglio che avevano per impiegarlo in limosina di questa fabbrica”(1). E’altrettanto noto il contributo di taluni nobili allo sviluppo di un’economia pre-capitalista locale, tramite la fondazione di rinomati “banchi”, specializzati nell’attività creditizia già dal XV secolo.
Il latifondismo feudale, inoltre, ha garantito nei secoli un micro-sistema economico locale, basato su un’agricoltura sviluppata e su varie attività di allevamento collegate. Il mecenatismo dell’aristocrazia, inoltre, favorì la presenza in Napoli di famosi artisti (architetti, pittori, scultori) e letterati che produssero capolavori di grande successo.
In sostanza, il patriziato napoletano ha contribuito all’abbellimento, seguendo le mode raffinate del tempo, così come alla crescita urbana (strade, quartieri, edifici pubblici) ed economica della città e delle province del regno. La fama di tanto splendore, raggiunto dalla città di Napoli nel corso dei secoli, si diffuse rapidamente in tutti gli stati esteri e fu tale da incuriosire ed invogliare molte personalità straniere nel visitare la corte partenopea e suoi luoghi cittadini. E’, inoltre, opportuno ricordare i numerosi personaggi, dai nobili natali, che dettero grande impulso alla poesia, alla musica ed alle arti, partecipando alla formazione di illustri accademie culturali, frequentate, poi, anche da studiosi di altri paesi. Memore delle antiche tradizioni politiche ellenico-romano, legate alle forme di governo democratico-libertario-repubblicano, il suddetto ceto non accettò tanto facilmente il dispotismo e le monarchie assolutiste (La città di Napoli“in tutto il medio evo erasi retta a municipio bizantino, con forme repubblicane. Solo nel 1130 Ruggiero Normanno v’introdusse le forme monarchiche(2)). Combattuta, all’interno del ceto, tra il sentimento di fedeltà e devozione all’autorità monarchica e l’ideale progettualità di un governo oligarchico in un regno autonomo ed indipendente, il patriziato napoletano si trovò in diversi avvenimenti politici non unito, per tale divergenza.
Nonostante il susseguirsi delle varie regnanze, favorevoli o meno alla presenza di un cotale sistema di potere familiare oligarchico, è opinione comune ritenere la “schiatta” napoletana non “ vano avanzo d’una spenta istituzione, ma un potente ordine d’uomini, ai quali era commesso il conservare le usanze ed i privilegi della Città e del Regno di Napoli”(3). Tale potente ceto dimostrò nel corso delle varie monarchie, succedutesi nel regno di Napoli, di essere in grado di sollevare ben organizzate rivolte politiche, coinvolgendo le masse popolari. Ciò è quanto avvenne nel 1485, allorquando la nobiltà baronale, comandata dal principe Roberto Sanseverino, sollevò grande tumulto controFerdinando I d’Aragona, chiedendo l’aiuto del duca Giovanni d’Angiò e dello stesso Papa. La causa, scatenante la rivolta, fu il tentativo della corona Aragonese di rinsaldare il prestigio ed il potere monarchico nel regno [I principali nomi dei baroni ribelli furono: Pirro del Balzo (principe di Altamura), Antonello Sanseverino (principe di Salerno), Girolamo Sanseverino (principe di Bisignano), Piero di Guevara (marchese del Vasto), Giovanni della Rovere (duca di Sora), Andrea Matteo Acquaviva (principe di Teramo), Giovanni Caracciolo (duca di Melfi), Angliberto del Balzo (duca di Nardò), Antonio Centenelli (duca di Melfi), Giovan Paolo del Balzo (conte di Nola), Pietro Bernardino Gaetano(conte di Morcone). Francesco Coppola (conte di Sarno), Francesco Petrucci (conte di Carinola), Giovanni Antonio (conte di Policastro)(4)].
L’alleanza dei baroni tenne testa all’esercito aragonese per circa un anno di combattimenti, riportando clamorosi successi. La divisione interna al gruppo dei feudatari, causata anche dalla presenza di una nobiltà rampante di recente formazione mercantile, gli odi feroci ed una profonda rivalità sviluppatasi tra taluni esponenti portarono il principe di Salerno, rappresentante la vecchia casta feudale, a commettere vari errori. La monarchia soffocò, così, nel sangue questa prima rivolta di cortigiani (Tra il 1486 ed il 1487 furono condannati e giustiziati Francesco Coppola, conte di Sarno, Antonello Petrucci e suoi figli Francesco, conte di Carinola, e Giovanni Antonio, conte di Policastro. Mentre vari baroni congiurati finirono nelle prigioni di Castelnuovo, ove nella notte del natale 1491 vennero soppressi(5)).
Contro il governo assoluto dell’imperatore Carlo V, nuovamente la nobiltà cittadina ed i baroni si schierarono, parteggiando per l’armata francese, comandata dal Lautrec, scesa in Italia per volere sia del re di Francia che d’Inghilterra e della Svizzera, per liberare papa Clemente VII dalle prigioni di Castel S.Angelo. Nel 1528, molti casati filo-francesi, “ricordevoli di quel dominio sotto la casa d’Angiò”(6), parteggiarono per Odetto de Foix, visconte di Lautrec, causa il “tedio ed odio del dominio spagnuolo”. Tra i nobili anti-spagnoli, che particolarmente emersero nel conflitto, si ricordano Andrea Matteo Acquaviva, duca d’Atri, “il principe di Melfi, il conte di Conversano, e Federico Gaetani figlio di Onorato duca di Traetto e conte di Fondi, ed Errico Pandone duca di Boiano e conte di Venafro, cognato del conte di Conversano ed Alfonso Sanseverino duca di Somma”(7).
Il Lautrec trovò concreti sostegni e supporti da parte di questa aristocrazia, allorquando cominciò ad invadere il regno con le sue truppe. Le adesioni alla causa francese furono numerose ed importanti, come testimoniano gli elenchi dei ribelli, redatti dal governo vicereale al termine della contesa ispano-francese. Tra gli esponenti più rinomati della nobiltà del regno vengono citati: Sergianni Caracciolo (principe di Melfi), Antonio Carafa (principe di Stigliano), Alberico Carafa (duca d’Ariano), Andrea Matteo Acquaviva (duca d’Atri), Errico Pandone (duca di Boiano), Ferrante Orsino(duca di Gravina), Alfonso Sanseverino (duca di Somma), Ferrante Castriota (duca di S. Pietro in Galatina), Giovan Bernardino Zurlo (duca di Nocera), Giovan Vincenzo Carafa (marchese di Montesarchio), Roberto Bonifazio (marchese d’Oria), Niccolò Maria Caracciolo (marchese di Castellaneta), Giacomo Maria Gaetani (conte di Morcone), Giovan Francesco Carafa (conte di Montecalvo), Raimondo Orsino (conte di Pacentro), Giulio Antonio Acquaviva (conte di Conversano), Francesco Sanseverino (conte di Capaccio), Giacomo d’Alessandro (barone di Cardito), Antonio di Somma (barone di Castigliano) e decine e decine di altri feudatari(8).
Molti di costoro non usufruirono degli indulti di Carlo V del 24 aprile 1529 e del 28 aprile del 1530, tanto da essere fatti morire in segreto. E’, poi, da ricordare anche un altro significativo episodio di intolleranza del patriziato partenopeo verso il dispotismo vicereale.
Si tratta dei moti insurrezionali politico-religiosi della nobiltà napoletana contro l’aborrita Inquisizione “al modo di Spagna”. La prima reazione si verificò a fine 1509 con l’arrivo dell’Inquisitore spagnolo, Andrea Palazzo, a Napoli. Gli eletti, i gentiluomini ed i baroni con il Popolo si recarono dal viceré Cordova per richiederne l’allontanamento, giurando con atto pubblico “prima le honore, posponendo la ribellione, da perdere la robba et la vita che permectere se facesse tale inquisiscione”.
Il patto di affratellamento, tra patriziato e popolo, si confermò anche nell’adunata del 21 ottobre 1510 in San Lorenzo, nella quale si sancì che “in segno de dicta unione se abrazorono et basaro tucti…et per lo advenire essereno boni figlioli, patre, fratri et una cosa”.
Questo primo tentativo spagnolo di introdurre un valido strumento di controllo politico a sostegno del governo vicereale, con cui stroncare ogni forma di dissidenza tra i sudditi, fu sospeso per essere poi riproposto nel 1547, sotto il viceré Toledo.
Ettore d’Alessandro di Pescolanciano
fonte nobili.napoletani
prima parte