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Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, un ventaglio

Posted by on Ago 27, 2020

Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, un ventaglio

Il prestigioso Museo Archeologico  Nazionale è, senza dubbio, una delle principali collezioni archeologiche del pianeta, ricco di pitture murali, a tempera, ben millesettecento, ad alcune delle quali non manca che la vita o la parola, di decorazioni architettoniche, di bronzi, di sculture di stile egittizzante, di mummie, di vasi di ogni genere, di vetri dipinti, di arazzi, di terracotte, di coppe in ossidiana, di oggetti di età faraonica, di epigrafi greche, etrusche, osche e latine, di strumenti chirurgici, rinvenuti nella “casa del Chirurgo”, abitazione italica del IV-III secolo a. C., quali il forcipe per strappare i denti e uno “specillum” in bronzo, una sonda contorta  a forma di S, lancette, spatole, pinze, ami, bisturi di ogni forma, aghi di ogni specie, cauterii, ventose, un tridente. 

                       

  Le sculture sono opere stupende, che fanno spaziare dal classicismo statuario greco all’epoca pompeiana, dalla maestà dell’antica Roma alle divinizzazioni medioevali e moderne. Esso contiene pezzi capitali ed alcuni originali greci, come il “Citaredo” di Pompei, una delle opere più emozionanti, con l’ “Idolino” di Firenze, di tutta l’Italia, come il “Dorifero”, il “Portatore di lancia”, una statua marmorea, di m. 2,12, rinvenuta, negli scavi pompeiani  del 1797, nella Palestra Sannitica, copia fedele della celebre statua di bronzo dello scultore greco Policleto, di Argo, uno dei  tre grandi scultori, con Fidia e Mirone, dell’epoca aurea greca del secolo V a. C., come “La battaglia d’Isso” tra i cavalieri del persiano Dario e i  Macedoni di Alessandro Magno, del 333 a. C., grande mosaico pavimentale, policromo, di gusto decisamente alessandrino, forse opera di Elena di Alessandria, scoperto nel “tablinum” della famosa   “Casa  del Fauno”, la più ricca e nobile abitazione privata di Pompei, con un portico sostenuto da 24 colonne di ordine ionico, risalente al periodo sannitico, in cui si coglie, nell’acme della mischia, il senso del dramma e del movimento, come il “Ritratto  della cosiddetta Saffo”, affresco in cui è rappresentata una fanciulla dai capelli ricci, biondi, rattenuti da una reticella, come l’ “Athena Promachos”, in marmo, forse copia di un originale attico, come la “Venere Callipigia” (Venere dal bel sedere), una scultura dalla potente sensualità, come le “Nozze di Venere e di Marte”, affresco proveniente dalla casa di Marco Lucrezio a  Pompei. Per la modellazione delle figure e per la mirabile armonia dei toni, esso fece scuola agli artisti, sempre in cerca di modelli per le loro difficili questioni prospettiche.

  Si sa che questo museo è stato formato, come fondo, con le impareggiabili collezioni dei re di Napoli, comprendenti, oltre alle  statue antiche e a pitture di Pompei e di Ercolano, di rilevante interesse per la storia del costume degli antichi, vasi e bronzi etruschi ed italici, come non se ne trovano in nessun’altra parte del mondo.

   Ci sono passati sott’occhio innumerevoli tesori: collane, anelli, braccialetti di forme pure, stele funerarie greche ed opere provenienti, oltre che da Pompei,   da Cales, dai Campi Flegrei e da Pollena Trocchia. Non siamo entrati nelle biblioteche, vista l’ora tarda, in cui sono conservati papiri, tremila antichi manoscritti, libri, migliaia di incisioni e litografie, opere di Salvator Rosa, di Van Dyck, del Perugino, di Annibale Carracci, di Gherardo delle Notti, del Guercino, camméi di un magnifico rilievo e di un lavoro squisito, degno della Grecia, grappoli di perle, anelli d’oro che incastonano pietre  preziose incise, gioielli, orecchini raffiguranti bilance, collane in oro, bulle auree, medaglie, monete, serpenti ricurvi in anelli e in braccialetti, fili d’oro accuratamente intrecciati in collana, ricche spille  che trattenevano  le maniche della tunica o i gruppi di pieghe del mantello, corone da cui pendono tutti gli amuleti più o meno decenti che servivano a scongiurare la malasorte, spingole dalla testa scolpita.               

   Insomma, senza dubbio un ventaglio eccezionale di opere archeologiche del mondo antico e di quello moderno.

   I pompeiani portavano questi gingilli, che costavano caro, nei capelli, alle orecchie, alle braccia, ai polsi, alla gambe, alle caviglie, ai piedi, sul petto, al collo, sulle spalle, ma soprattutto alle mani, di cui tutte le dita, eccetto quello medio, erano ricoperte di anelli fino alle terze falangi in cui gli amanti passavano gli anelli che volevano scambiare.                                  

      Chateaubriand visitò  il Museo Archeologico Nazionale, il 3 gennaio 1804, e vide la statua del muscoloso “Ercole in riposo”, di età severiana, opera dello scultore ateniese Glycon, che raffigura l’eroe con la clava, appoggiato ad un tronco d’albero, reduce dalla conquista dei pomi d’oro, avvenuta nel giardino delle Esperidi; una Venere dalle belle forme e dal molle panneggiamento; un busto di Scipione l’Africano; la madre di Raffaello dipinta dal figlio, bella e semplice; un autoritratto di Michelangelo; Armida e Rinaldo: scena dello specchio magico. Il grande prosatore, che esercitò molta influenza sui romantici, non vide il “Toro Farnese”, gruppo scultoreo ellenistico, il “Teseo ringraziato dai giovani ateniesi liberati dal Minotauro ”, l’“Agrippina”, l’ “Aristide”, considerato dal Canova il capolavoro della scultura antica, il “Dace prigioniero”, “Pan che insegna la musica ad Olimpo”, i busti di Licurgo e di Tiberio, il vaso con la tomba di Patroclo, la meravigliosa anfora di Canosa, il cosiddetto “Vaso dei Persiani”, della fine del IV secolo a. C., che rappresenta, in quattro zone distinte, scene di vita persiana, interessanti per lo studio dei costumi del tempo,come interessante per la conoscenza delle usanze è la terracotta proveniente da Pompei, che rappresenta un elefante in assetto di guerra, bardato e cinto di catene sostenenti la torretta, che poggia sul dorso dell’animale. Il guerriero o l’auriga sta a cavallo di questo e sembra guidarlo per la proboscide attorcigliata in su. Chateaubriand non vide neanche “Piramo e Tisbe”, in cui l’eroina si trafigge con la spada dell’amante sul corpo esanime di quest’ultimo, “Ercole che ritrova il figlio Telefo nutrito da una cerva”, opera di equilibrata e robusta composizione, nutrita da un ricco colore, dovuta senz’altro ad una personalità artistica di notevole rilievo,un maestro, il mosaico con le tre grazie, proveniente dalla splendida Casa di Apollo, e il ritratto di Paquio Proculo e della moglie, in cui raffiora una freschezza ed un carattere popolaresco, del tutto indipendente dall’Ellenismo e da ogni schema prestabilito. La coppia di sposi, lui in bianca toga e lei indossante un manto rosso porpora, è probabilmente di un artista indigeno, che dipinse, con tocchi rapidi, scene dal vero, come pure sono attestate a Pompei pitture di botteghe e di insegne di osterie, eseguite da anonimi artisti, di disinvolta naturalezza e di una notevole vivacità espressiva, non prive di umorismo.

Alfredo Saccoccio

2 Comments

  1. no no lo hanno capito hanno requisito tante di quelle opere che s’è perso il conto

  2. Per fortuna i savoiardi non capirono il valore di queste opere, altrimenti avrebbero requisito e venduto anche tali capolavori!

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