IL RIFORMISMO DEI BORBONE, BERNARDO TANUCCI
Durante il regno di Carlo III ( 1734-1759) e di suo figlio Ferdinando IV (1759-1806), anche la monarchia borbonica, emulando quelle europee ed italiane, intraprese a conformarsi alle nuove trasformazioni, inserendosi nella evoluta cerchia dei monarcati assoluti illuminati.
Padre e figlio, avvalendosi delle straordinarie capacità del Primo Ministro Bernardo Tanucci e Ministro delle Finanze Giuseppe Zurlo, quest’ultimo operò in seguito anche con i napoleonidi, cominciarono le opere di modernizzazione sociali ed economiche nel regno di Napoli. Carlo III, figlio del re di Spagna Filippo V e dell’italiana Elisabetta Farnese, nel 1734, durante la guerra di successione polacca, essendo la Francia e la Spagna in conflitto con l’Austria, spinto dalla madre, da Parma mosse, ancora diciottenne, alla testa di un numeroso esercito, numerato maggiormente da truppe spagnole, alla conquista dell’Italia Meridionale, costituente, in quel periodo, un vicereame sottoposto al dominio degli Asburgo. Con l’entrata in Napoli di questo giovane ed intraprendente principe, nipote del Re Sole, iniziò una nuova fase storica, politica e sociale per l’Italia meridionale ed insulare ( la Sicilia ), infatti nasceva la dinastia dei Borbone di Napoli, sotto i quali, dopo secoli di dominazioni straniere, veniva a consolidarsi un regno unitario ed autonomo, anche se agli inizi ci fu la ingerenza spagnola, con un personale coinvolgimento di governo del monarca. Formatosi, Carlo, alla colta corte di Francia e in quella cattolicissima spagnola, ben presto venne apprezzato dalle altre monarchie europee per saggezza e cultura riformista. Conscio delle condizioni di arretratezza del suo nuovo regno, rispetto agli altri Stati del vecchio continente, circondandosi di valenti illuministi napoletani, quali il Filangieri, il Genovesi ed altri e avvalendosi , come prima notato, del superbo stile di destreggiamento nei rapporti sociali e politici nonchè dell’acuta visione riformatrice del suo Primo Ministro Bernardo Tanucci, si elevò a capo dei principi, dando lustro e rinomanza al suo nuovo regno. Soleva egli sostenere, da quanto scritto dal giornalista Aldo Canale, che il suo “opus rei” si basava sulla felicità del popolo: “Le ricchezze dei re sono fatte dai poveri, diamo lavoro e diamo da vivere”. Ma tutto ciò veniva da lui espresso, forse, da come annotato dallo storico Armando Oriolo, solo per giustificare le pazze spese affrontate per la costruzione delle regge di Capodimonte, Portici e Caserta. In realtà, molte opere pubbliche vennero portate a termine, come acquedotti, strade, riammodernamenti di porti e nuove architetture. Tra i più significativi provvedimenti risultò essere quella della introduzione della lingua italiana come “ufficiale” del regno, in sostituzione di quella latina e spagnola, dando così un’impronta di stabile nazionalismo al nuovo monarcato. Ma per l’attuazione delle riforme era necessario attingere dal patrimonio finanziario pubblico, che per la precedente politica smodata dei vicerè, si rivelò inesistente. La disponibilità del giovane re e il genio del suo primo ministro, tutto fecero per risistemare la caotica situazione ereditata dal passato, ma a frenare i loro disegni, si interposero due secolari endoparassiti: la Chiesa e il potere baronale laico. La Chiesa, da parte sua, vantava privilegi feudali sul regno di Napoli fin dal periodo normanno e Carlo d’Angiò nel 1625, accentuando lo stato di vassallaggio istituì la “Chinea o Acchinea”, un tributo di 7000 ducati da versare alla Chiesa di Roma come segno di omaggio e sottomissione. La Chiesa veniva così ad essere indenne da ogni tributo, con ampi poteri su tutto ciò gravitasse nella sua sfera. Il potere feudale laico, male endemico nelle aree meridionali, costituiva la barricata centrale, sia per lo sviluppo della società sia per la sovranità personale del monarca, infatti, in Sicilia, il re era coadiuvato, in maniera rilevante, da un parlamento formato dai feudatari dell’isola. Nonostante tutti questi fattori concorsero al rallentamento del processo delle riforme, la ferrea volontà e la lucida visione nella propugnazione della Ragion di Stato del Tanucci, portarono, anche se parzialmente, accorti rimedi alla manovra innovativa. Indispensabile ed urgente si prospettò l’esigenza di un riordino fiscale basato su solide perequazioni esattoriali ed in considerazione di questa, venne istituito il catasto onciario o carolino ( dal nome del monarca, Carlo III ). La sua istituzione, tutt’oggi, viene considerata come un’opera di ingegneria finanziaria, infatti la maggior parte dei moderni catasti sono improntati, in linea di massima, su quello carolino. Esso venne denominato “onciario”, in quanto, i patrimoni fondiari venivano valutati in once, unità di misura utilizzata in quasi tutta Europa, prima dell’adozione del sistema metrico decimale; l’oncia, inoltre, nel periodo della Roma repubblicana, era una moneta di bronzo equivalente la dodicesima parte dell’asse e, probabilmente, anche per questo motivo, Carlo III la fece coniare nel 1749. Il 17 marzo del 1741, con la Prammatica Reale ” De Catastis”, affidata, per l’approvazione nel regno, alla Regia Camera della Sommaria, inizio per il mezzogiorno d’italia una nuova era. Non vi erano più gli agenti feudali, laici ed ecclesiastici, ad esigere i tributi, ma agenti fiscali incaricati dal re; ad acquisire e produrre gli atti preliminari, questa fu eccellente cosa, furono incaricati Sindaci delle Università ( attuali comuni) e i capo eletti del posto. Il catasto era prettamente descrittivo, non essendoci stato tempo disponibile per consolidarne le forme, era privo di mappature dei luoghi, ma come trampolino di lancio per la perequazione fiscale, si rivelò abbastanza efficace. Tutto questo, sicuramente, non è stato gradito dai feudatari laici e dagli ecclesiastici, in quanto molti privilegi, da loro acquisiti in passato decaddero e fu proprio in questo periodo che i loro ribaldi soprusi fuoriuscirono dagli argini del vivere civile. Lo stato fu laicizzato, le tasse da pagare alla Curia Romana furono diminuite e le secolari prerogative feudali della nobiltà e del clero decisamente ridimensionate. Con il concordato del 1741 raggiunto con la Santa Sede, la giurisdizione dei vescovi venne limitata e quest’ultimi, non più come in passato, venivano sì, nel regno, ordinati dalla Curia Romana, ma la loro nomina ufficiale era divenuta prerogativa del re che avvaleva di una commissione speciale da lui presieduta: il Sacro Regio Consiglio). Quando, nel 1759, Carlo III venne incoronato sovrano di Spagna, salì al suo posto al trono del regno di Napoli il suo terzogenito Ferdinando. Avendo egli appena nove anni, suo amministratore fu nominato il Tanucci e anche quando il piccolo re raggiunse la maggiore età, lascio il governo nelle mani dell’abile statista senese, che aveva l’onere, però, di rendere conto del suo operato alla corona spagnola. Bernardo Tanucci era un tenace sostenitore della “Ragion di Stato”, riformista determinato, ingegno politico; uno statista di razza che intuì che solo attraverso le innovazioni nella politica sociale, era possibile porre il regno napoletano su un podio dove gareggiare, in seguito, con le maggiori potenze del vecchio continente. Fu proprio durante il periodo della reggenza tanucciana che il riformismo borbonico raggiunse maggiore attuazione, infatti in quel periodo, 1767, su sollecitazione del sovrano di Spagna fece espellere i gesuiti dal regno. I vuoti lasciati dai Gesuiti, in tutto il regno, furono prontamente occupati da uomini di cultura, laici e religiosi, che si ispiravano, anche se in maniera moderata, a Voltaire, Diderot e D’Alembert. Con l’espulsione dei Gesuiti e la conseguente confisca del loro considerevole patrimonio ( 42.000 ettari di terreno agricolo in Sicilia e 18.500 nel continente, innumerevoli chiese e scuole, biblioteche ecc..) il Tanucci, su consiglio di Antonio Genovesi, professore di economia all’Università di Napoli, con saggia decisione, preferì non incamerare al regio demanio i fondi agricoli confiscati, ma di parcellizzarli e concederli in uso alle classi meno abbienti, ponendo così le basi per la creazione di una classe operaia contadina fino allora emarginata ed oscurata dal prepotente regime feudale. Altra grande riforma, per luogo-tempo, attuata per effetto della espulsione gesuitica, fu la istituzione della scuola pubblica, sostituente quella privata, quest’ultima retta prevalentemente dalla casta religiosa. L’innovazione non ebbe molta fortuna, in quanto i costi di mantenimento si erano rivelati consistenti e quindi il più delle volte, l’accesso all’istruzione, per i figli delle popolazioni meno agiate, veniva precluso. Con l’entrata in scena di Maria Carolina, tratta in moglie da Ferdinando IV, la politica del regno di Napoli mutò direzione politica. La nuova regina, all’inizio della sua attività di governo, si interessò analiticamente delle riforme in atto, avendo premure, particolarmente di realizzare opere pubbliche e militari; tutto ciò che mirasse alla elevazione del popolo, veniva da lei considerato inutile e dispendioso. Cercando di allontanarsi dalla sfera politica spagnola, ben presto si trovò in attrito con il Tanucci, il quale nel 1776, per volere di lei, fu sollevato dall’incarico di Primo Ministro e sostituito dal siciliano Giuseppe Beccadelli, marchese della Sambuca, uomo, più cortigiano che politico e con vedute meno ampie del validissimo toscano. Con l’ingerenza della politica asburgica nel regno di Napoli vennero a cessare quegli intenti atti alle riforme. Il processo di riformismo intrapreso dal Tanucci non si interruppe del tutto, dopo la sua estromissione, anche negli ultimi anni del secolo decimo nono, non mancò la volontà di ” cambiare in meglio”: esemplare fu la battaglia che Domenico Caracciolo, vicerè di Sicilia, mosse contro lo strapotere baronale e gli abusi signorili. L’età dello splendore finì con la politica filo asburgica.