Il valoroso José Borjés tra battaglie, intrighi e tradimenti. Così si infranse il sogno di salvare il Sud.
SANTE MARIE – Ogni volta che si celebra la storia di qualche brigante o brigantessa i suoi concittadini, gli studiosi dei personaggi e dei fatti oppure i semplici afficionados diventano un po’ tutti partigiani prendendo posizione in merito. Al di là delle partigianerie un solo uomo viene da tutti (o quasi) riconosciuto come meritevole di ogni attenzione e ogni rispetto. Quell’uomo è uno “straniero”. Uno spagnolo, o meglio, un catalano. Quell’uomo si chiamava José Borjés. Il Generale Borjés è stato uno dei maggiori protagonisti della fase della resistenza meridionale all’invasore sardo – piemontese. Autore di una impresa militare che, se fosse andata a buon fine, avrebbe segnato la fine dell’occupazione straniera e il ritorno in Patria del ReFrancesco II di Borbone, esiliato a Roma dopo la caduta di Gaeta il 12 febbraio 1861. Eppure Borjés non poteva riuscire, non doveva riuscire nella sua impresa. E, forse, non solo i piemontesi si posero questo obiettivo. Non soltanto i nemici ma anche gli amici che, con le loro inefficienze, gelosie, ambizioni, malumori, sabotaggi e tradimenti, decretarono il fallimento di José Borjés. La storia dell’operazione Borjés nasce a Roma, tra Palazzo Farnese, di proprietà di Casa Borbone, sede del Governo in esilio, della centrale legittimista e della Real Casa, il Quirinale, residenza dei romani pontefici, e Campo dei fiori, una delle piazze più caratteristiche della Roma settecentesca. Tre luoghi stuprati dalla rivoluzione e dalla modernità. In Campo dei fiori, presso le tante osterie, si riunivano i “briganti” giunti da ogni parte del Sud per prendere ordini dal Governo in esilio e dalla centrale legittimista. Volevano essere guidati. La Reazione meridionale necessitava di un uomo forte. Non poteva esserlo il Re Francesco II, il quale, malgrado la splendida prova data a Gaeta, circondato da consiglieri più avvezzi alle beghe della diplomazia internazionale. Non poteva esserlo la Regina Maria Sofia, forse la più adatta al ruolo ma pur sempre donna che già scandalizzava con la sua forza la corte borbonica e quella pontificia. Non potevano aspirare al ruolo i fratelli del Re, per rispetto di una carica che gravava sulle spalle di Francesco II. Già troppi gli intrighi, altrettanti i sotterfugi. Borjés finì tra gli ingranaggi della farraginosa macchina dell’opposizione duo siciliana e papalina ai piemontesi. Nato a Vernet, piccolo centro contadino della Catalogna, José Borjés si trovava a Marsiglia quando entrò in contatto con alcuni agenti inviati nella città per il reclutamento di volontari anti piemontesi dalla centrale legittimista. Il nucleo marsigliese era guidato dal Generale Clary che non esitò a presentare Borjés al Re delle Due Sicilie come una sorta di uomo della provvidenza. Carlista, schierato fin dall’inizio con le milizie di Carlo Maria Isidoro di Borbone partecipò assieme al padre (già guerrigliero durante l’occupazione napoleonica della Spagna e poi fucilato dalle truppe isabelline nel 1833) al conflitto civile spagnolo fino alla sconfitta di Don Carlos. Tradizionalista, legittimista, fedele a Dio, alla Patria e al Re (come recita l’inno carlista Por Dios, por la Patria y el Rey!) non poté restare indifferente alla lotta che infiammava nell’ex regno e, come tanti giovani europei rimasti affascinati dal mito degli eroi di Gaeta, di Messina e di Civitella, acconsentì a guidare la guerriglia borbonica contro i piemontesi, anticlericali e massoni, visti come il nemico della cristianità e della tradizione. Il piano, seppure ambizioso, era semplice. Borjes, assieme a pochi uomini sarebbe sbarcato in Calabria dove avrebbe trovato pronti 5.000 uomini arruolati in Spagna dal comitato legittimista. Il suo piccolo esercito avrebbe trovato mezzi, risorse e uomini dagli aristocratici fedeli a Casa Borbone e dagli altri agenti della reazione. Sbarcato nella notte, il 14 settembre era già giunto a Brancaleone, dove prese contatti con i Ruffo di Calabria (con i quali discusse anche sulla bandiera da utilizzare per l’impresa, se quella bianco gigliata o il tricolore costituzionale optando, fortunatamente per la prima), arruolò i primi contadini a Samo, pubblicò i primi proclami patriottici e scese a patti con alcune bande brigantesche della Calabria. Alla fine di settembre, dei 5.000 uomini promessi dal Comitato Legittimista, neanche l’ombra. Le Calabrie stavano diventando troppo pericolose. Da Napoli l’esercito piemontese era già stato messo in allerta e rinforzi stavano confluendo nella zona per arrestare il gruppo degli spagnoli. Mentre bersaglieri e guardie nazionali si addestravano nei boschi e sulle montagne della Calabria Borjes aveva già attraversato il confine della provincia militare Lucana. Il Generale Brunetta d’Usseaux poteva tirare un sospiro di sollievo. La grana spagnola era diventata un problema del Generale Lodovico Della Chiesa di Cinzano, a capo della provincia militare Lucana già alle prese con il più terribile dei briganti, Carmine Crocco. Naturale l’avvicinamento e l’alleanza tra Crocco e Borjes. Anzi, l’alleanza era già stata ampiamente prevista da Roma tanto che Borjés recava con sé la nomina a Generale di Francesco II per Crocco che avrebbe così dovuto essere integrato nell’esercito reale. In quanto ufficiale avrebbe dovuto prestare servizio e mettersi agli ordini di Borjés mandato con tutti i poteri dal Re. All’inizio la fortuna arrise alla coppia e l’occupazione di Melfi dimostrò all’Europa intera che l’Italia una non avrebbe potuto reggere. Sarebbe bastato un “colpetto” finale. O l’ingresso del legittimo Sovrano dal Nord (Abruzzo o Terra di Lavoro) per minacciare direttamente Napoli con parte dell’esercito papalino “prestato” alla causa delle Due Sicilie o magari l’intervento straniero. Ma niente di questo accadde. I consiglieri di Francesco II “sconsigliarono” il Sovrano a sentire le ragioni dei falchi e della moglie. Francesco Giuseppe si leccava ancora le ferite della perdita della Lombardia per cedere alle urla della moglie Elisabetta, ansiosa di prestare aiuto alla sorella Regina esiliata. E così alla mancanza di reclute e a quella di soldi, subentrò lo sconforto generale. Non si riuscì a prendere Potenza, abbastanza grande per poter dichiarare la restaurazione de facto del governo delle Due Sicilie, e tutto crollò. Tornarono a galla le gelosie, le ambizioni personali, i dissidi su come continuare a condurre la campagna. Volendo restare ai fatti, fu Crocco a rompere l’alleanza e a tornarsene a Monticchio sulla sua strada, a tenere sotto scacco i piemontesi con la guerriglia. Borjés, con pochi fedelissimi, in gran parte quasi tutti spagnoli, decise di marciare verso Roma per fare rapporto a Palazzo Farnese e incontrare, finalmente Francesco II. Gli avrebbe raccontato della mancanza di criterio della centrale legittimista. Della necessità di scendere in campo in prima persona per scacciare l’invasore. Avrebbe denunciato i collaboratori che spendevano quel poco di denaro ancora a disposizione del Governo in esilio per foraggiare bande di indisciplinati inconcludenti o, peggio ancora, per foraggiare attività private che niente avevano a che fare con la nobile missione della restaurazione. Probabilmente avrebbe denunciato la doppiezza della aristocrazia e della borghesia terriera che, come aveva potuto rendersi conto in Calabria e Lucania, era disposta a tutto pur di conservare il proprio potere. Non ebbe il tempo. Scelse una via strana per il ritorno e, dal Molise, invece di lanciarsi in Terra di Lavoro verso Sora e Pontecorvo dove il territorio era controllato da Luigi Alonzi, scelse la via dell’Abruzzo. Forse lo fece perché malconsigliato. Forse lo fece per non fare la scelta più prevedibile. Il 7 dicembre l’arrivo a Sante Marie dopo aver percorso centinaia di chilometri a piedi e a marce forzate per evitare di finire in pasto al lupo piemontese. Trovarono ospitalità presso Cascina Mastroddi dove i Baroni Mastroddi, già noti a tutto il circondario per essersi arricchiti sulle spalle dei poveri contadini grazie alle politiche dissennate dell’usurpatore Murat, avevano nuovamente incrementato i propri fondi grazie ai nuovi conquistatori. Galantuomini come pochi, ospitarono il drappello di Borjés che, dopo poche ore avrebbe ripreso la marcia per percorrere gli ultimi dieci chilometri scarsi che li dividevano dal confine. Francesco II non avrebbe mai sentito il rapporto del Generale Borjés. In località La Luppa si consumò l’assalto del Maggiore Enrico Franchini, allertato forse dagli stessi Mastroddi o da altri Galantuomini, bersagliere ed autentico farabutto. Dopo un rapido scambio di fucilate il Generale si arrese e consegnò la sua spada al Maggiore. Non era una spada qualunque. Si trattava della spada di uno dei migliori uomini viventi in quel momento in Italia. Una spada al servizio costante della tradizione, di Dio e del Re. Franchini la rifiutò perché un ufficiale italiano non poteva prendere in consegna la spada di un brigante. Due volte farabutto. Il gruppo venne portato nella vicina Tagliacozzo e, nella piazza principale, furono fucilati mentre intonavano le litanie dei martiri destinati alla morte. Tutti i cadaveri vennero successivamente bruciati. Per intercessione del Principe di Scilla e del Visconte di San Priest, il solo corpo di Borjés riuscì ad evitare il triste destino e ad ottenere il diritto, su autorizzazione del Luogotenente Generale Alfonso La Maromora, di un funerale cattolico a Roma dove le sue spoglie vennero traslate. La morte di Borjés fu deplorata in tutta Europa. Franchini, poi omaggiato e riverito dal Re d’Italia e dal suo manipolo di cortigiani, si era comportato da autentico criminale violando le regole più semplici del diritto europeo. Victor Hugo lo celebrò come eroe romantico per eccellenza e accusò Vittorio Emanuele II di essere un moderno Nerone per i metodi con cui governava. In 31 morirono in quei due giorni tra Sante Marie e Tagliacozzo. Nei 150 anni successivi storici, giornalisti, patrioti e critici hanno parlato di lui. Il suo diario è stato analizzato. Gli archivi dello Stato Maggiore Italiano sono stati setacciati in cerca di nuovi documenti. Si cerca ancora carta e si cerca ancora la tomba di questo eroe delle Due Sicilie.
Molto ancora dovrà essere scritto.
A noi il dovere di ricordare.
Roberto Della Rocca
fonte
blog.istituto delle due sicilie