Il vero Alce Nero
Nicholas Black Elk (1866-1950), in Italia noto come “Alce Nero”, sarà santo e la notizia forse aiuterà a fare luce, una volta per tutte, sul clamoroso falso storico costruito ad arte attorno al suo leggendario personaggio. La conferenza episcopale statunitense, riunitasi lo scorso novembre a Baltimora, ha infatti annunciato l’approvazione dell’avvio del processo di canonizzazione, che, una volta concluso, farà del capo Sioux il secondo santo “pellerossa” dopo Kateri (Caterina) Tekakwitha, innalzata agli altari da Benedetto XVI il 21 ottobre 2012.
Non è dato sapere se i vescovi americani abbiano accolto l’invito di papa Francesco, che nel febbraio scorso, incontrando i partecipanti al Terzo Forum dei Popoli Nativi convocato dal Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo, aveva auspicato progetti che siano «inclusivi dell’identità indigena» o, al contrario, abbiano voluto “premiare” la figura di “Alce Nero”, il capo indiano che ebbe il coraggio di voltare le spalle alla propria identità indigena per integrarsi nell’identità cattolica.
Tradito dal suo biografo
“Alce Nero” è infatti un personaggio discusso, presentato dalla stampa mainstream come uno sciamano e un campione del sincretismo religioso, attorno al quale è stata costruita una vera propria narrativa “politically correct”. A contribuire a tale piano di mistificazione della realtà su “Alce Nero”, battezzato dai missionari cattolici nel 1904, giorno di San Nicola, con il nome di Nicholas, è stata in particolare la pubblicazione nel 1932 del volume Black Elk Speaks, ad opera di un poeta del Nebraska, John Gneisenau Neihardt (1881-1973), tradotto in italiano da Adelphi nel 1968 con il titolo Alce Nero parla, Vita di uno stregone dei sioux Oglala e ripubblicato da Mondadori nel 1973.
Il materiale per scrivere la storia su “Alce Nero” fu raccolto da Neihardt attraverso una serie di colloqui personali con Nicholas Black Elk, prima per mezzo di un interprete, Emil Afraid of Hawk, e successivamente attraverso lo stesso figlio di lui, Ben. Tuttavia, il risultato fu
tutt’altro che corrispondente a quanto raccontato dal capo Sioux, il quale, dal momento che conosceva poco la lingua inglese, una volta conclusi i lavori, si fece leggere alcuni brani del libro, che gli furono sufficienti per comprendere come l’autore ne avesse del tutto stravolto la storia a proprio uso e consumo. Fu così che, il 26 gennaio 1934 Black Elk rilasciò una dichiarazione in lingua lakota, in cui accusava John G. Neihardt di aver del tutto alterato quanto gli era stato raccontato e soprattutto di aver omesso aspetti della sua vita personale che lui reputava determinanti. Dal momento che la prima missiva non sortì effetti, fu necessaria una seconda «lettera aperta», datata 20 settembre 1934, nella quale Nicholas Black Elk definì senza mezzi termini John G. Neihardt come «un bugiardo» e il suo libro «nullo e di nessun valore».
La conversione “dimenticata”
Il ritratto di “Alce Nero” dipinto da Neihardt servì dunque a costruire a tavolino un personaggio utile a veicolare determinati messaggi cari all’autore del libro e ad un certo tipo di pensiero molto in voga in quegli anni e ancora oggi. Un esempio di tale tendenziosità è la presentazione, che del libro ne fa la casa editrice Adelphi, che tace completamente la conversione di “Alce Nero”, presentandolo come uno “stregone” che oppone la sua cultura e la sua religione magica alla civiltà occidentale: «Con la naturale autorità degli antichi cantori epici, Alce Nero, vecchio stregone Sioux, ci conduce in questo libro attraverso le vicende della sua vita, nel perio
do più tragico della storia del suo popolo: gli ultimi decenni dell’Ottocento, in cui i bianchi, i Wasichu, attirati dal «metallo giallo», distrussero in un lungo, feroce conflitto ogni possibilità di sopravvivenza, come nazione, dei pellirosse, invano sospinti, alla fine delle loro speranze, da un’estrema fiammata messianica».
Nella realtà, sottolinea il dottor Massimo Introvigne, il racconto di “Alce Nero” non è altro che un parto della fantasia dell’autore: «Il volume di John G. Neihardt costituisce tecnicamente un “falso” non soltanto per quello che descrive, ma soprattutto per quello che tralascia». In particolare tralascia l’episodio più importante della sua vita ovvero la sua conversione al Cattolicesimo. A partire dal 1886, nel territorio dei Sioux, dalla Germania e dalla Svizzera erano infatti arrivati i missionari cattolici gesuiti, ben visti dai Sioux stessi a differenza dei missionari protestanti, additati come “funzionari” inviati dal governo americano, portatori di una “religione civile”, ovviamente malvista dagli indigeni americani.
«Vattene, Satana!»
L’episodio cruciale della conversione al Cattolicesimo di Nicholas Black Elk si ebbe nel 1904 quanto fu chiamato nel villaggio di Payabya a svolgere le sue attività di guaritore presso la tenda
di un ragazzo morente, cattolico.
Mentre era intento a sistemare gli strumenti yuwipi per il rituale, sonaglio e tamburo, fece irruzione Padre Joseph Lindebner, che spazzò via i suoi attrezzi e mise alla porta anche Alce Nero, urlandogli: «Vattene, Satana!». All’uscita, il sacerdote gesuita vide il capo Sioux ancora lì fuori. Allora lo invitò a salire sul suo carro e lo condusse alla missione del Rosario, dove lo ospitò. I due conversarono a lungo ed intensamente. Dopo due settimane, Alce Nero chiese di essere battezzato. Ciò che avvenne, il 6 dicembre 1904, festa di san Nicola, di cui prese il nome. Ha ricordato la figlia come, da quel momento, egli abbia abbandonato «la sua pratica di guaritore e non l’abbia mai più ripresa» .
Dopo la sua conversione i missionari gesuiti videro in Nicholas Black Elk la persona ideale per evangelizzare le tribù indigene grazie al suo carisma e alla conoscenza della lingua locale che fece si che in diverse occasioni fu lui stesso a pronunciare l’omelia della Messa per poi divenire noto fra gli indiani cattolici come un eccellente predicatore e un organizzatore di ritiri e di incontri religiosi. I temi centrali della sua predicazione, che fecero di “Alce Nero” un esempio di proselitismo cattolico, ruotarono intorno al Rosario, al Sacro Cuore e a un disegno delle “due vie”, che conducono rispettivamente al Paradiso e all’Inferno, una metafora largamente utilizzata dai missionari gesuiti e che Nicholas Black Elk considerò particolarmente adatta alla spiritualità degli indiani.
Devoto alla Madonna
A smontare il mito di “Alce Nero” come baluardo di una moderna visione religiosa sincretista contribuiscono inoltre la lettura di diversi documenti pubblicati dall’antropologo Michael F. Steltenkamp, nei quali vengono riportati vivaci scambi di opinioni con i missionari protestanti, in particolar modo per difendere il culto cattolico alla Madonna, di cui Nicholas era devotissimo, nonché un’intensa lotta contro un nuovo movimento religioso sincretistico, quello del Peyote, presente anche oggi, abituato a mescolare tra loro elementi derivati dal Cristianesimo con altri tipici delle tradizioni locali e con l’uso rituale degli allucinogeni.
Che la sua conversione fosse autentica e profonda e quanto egli fosse legato alle tradizioni e alla propria identità indiana – alla faccia di chi lo vorrebbe erigere a “modello multiculturale” -, lo confermano anche numerose testimonianze, che ci raccontano come Nicholas Black Elk, anche negli ultimi anni della sua vita, nonostante la salute incerta, non rinunciò fino alla morte a dirigere la preghiera quotidiana della famiglia: una famiglia estesa secondo le tradizioni indiane, con nipoti e cugini. Negli anni 1948-1949, molto malato e dopo un infarto, ricevette tre volte l’Estrema Unzione e cosi esortava i propri familiari: «Non perdete un giorno trascurando di pregare. Dio si prenderà cura di voi e vi ricompenserà per questo. Dite anche il Rosario, perché è una delle preghiere potenti presso la Madre di Nostro Signore». Negli ultimi mesi della sua vita sopportò le sofferenze che precedettero la morte, avvenuta il 17 agosto 1950.
fonte
https://www.radioromalibera.org/cultura-cattolica/vero-alce-nero/