Alta Terra di Lavoro

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Intervista Storia in Rete ad Adolfo Morganti

Posted by on Mar 6, 2018

Intervista Storia in Rete ad Adolfo Morganti

1) Chi è, com’è, per che cosa si batte il tuo brigante?

Ringrazio per questo implicito rimando al piccolo libro che scrissi in una sola notte nel 1995, Apologia del brigante. Un tempo che consentiva una sosta dopo la asperrima campagna culturale europea in occasione del bicentenario dell’Insorgenza vandeana (1793-1993) e che già scivolava verso il non meno aspro bicentenario dell’invasione napoleonica dell’Italia e quindi delle immediate e capillari Insorgenze popolari antigiacobine con le conseguenti sanguinose repressioni prolungatesi fino al 1799 (1796-1996). Ligio ad una concezione del mondo fortemente antistoricistica, questo “mio” brigante resta in perenne e pericoloso equilibrio fra la storia e la metafisica, ed ha avuto l’arroganza di individuare tratti esistenziali e spirituali comuni ad esperienze di refrattari ed insorgenti appartenenti all’intera parabola della modernità, dal 1789 ad oggi. Un tentativo spericolato che tuttavia ne ha fatto un testo singolarmente fortunato. Provo quindi a rispondere alla domanda descrivendolo meno indegnamente con un po’ di poesia: «Il brigante della nostra storia italiana è un soldato disperso, un seminarista scacciato, un popolano un po’ curvo dal lavoro, che ama, quindi si arrabbia, e quando la campana sona segue il richiamo del cuore, e reagisce. Non ha mezze misure perché non è stato ben educato: non parla franzè, e forse nemmeno italiano. Il bello è che non se ne vergogna affatto, perché non ne comprende punto l’utilità. Capisce meglio il senso del suono della campana e il verso del vento e della civetta… Odia chi chiede sempre qualcosa in cambio di ogni cosa, soprattutto denaro. Accetta un signore solamente se l’ha visto diritto a cavallo o curvo sulla stessa sua terra, e se in battaglia se l’è visto davanti. Più di tutto diffida dell’astuzia di mercanti e girovaghi, e odia gli usurai.» Già. Un ritratto molto jungeriano, del tipo d’uomo capace di superare la crisi.

2) Fino a che punto è un controrivoluzionario “consapevole”? È cioè qualcosa di più di un ribelle viscerale ad un nuovo ordine che non capisce e non accetta? Non sono certo del fatto che la visceralità sia in realtà un difetto per il brigante di ogni tempo. Nella pratica delle Arti marziali tradizionali si coltiva una “memoria della carne”, frutto di lunga consuetudine col ferro e il movimento, assai più rapida, essenziale e proficua della memoria razionale che di fronte al pericolo di vita si paralizza per la paura. Parimenti per imparare a suonare uno strumento musicale non si usa la memoria razionale, ma una fusione di corpo, occhi e strumento e solo così si suona… Il brigante è figlio di un’epoca di trasmissione pratica e diretta della cultura; la visceralità gli appartiene come un’arma in più. Vi sono quindi forme di consapevolezza fredde e razionali, e viceversa calde ed organiche; la mia scommessa risiede nella speranza che oggi le seconde abbraccino le prime, impedendo loro di decadere nell’intellettualismo borghese. Post Scriptum: per il brigante rifiutare un “nuovo ordine”, quello illuministico-giacobino, significa già averlo compreso nella sua essenza, e aver fatto l’unica scelta di campo possibile.

3) Alla grancassa retorico-oleografica del Risorgimento buono e giusto, non rischia di contrapporsi una grancassa uguale e contraria dell’Anti-Risorgimento? Questo non è un rischio bensì un’esperienza quotidiana; ma deve esser detto con grande chiarezza che la responsabilità storica di questo brutto gioco di semplificazioni, impoverimenti, becerume contrapposti deve essere completamente addebitato alla parte “ufficiale” della cultura italiana degli ultimi 150 anni (in fila indiana savoiarda, liberale, azionista, marxista), che ha contagiato con fanfare e retorica deamicisiana anche molti (ma non tutti, con buona pace di Alessandro Barbero) dei suoi critici; come se la dogmatica ideologica fosse, secondo un tour d’esprit assolutamente moderno, il filtro obbligato per la lettura della realtà: mentre cambiando il colore del filtro, tocchiamo con mano come la deformazione non muti. Prova ne sia che chi cerca di esimersi da questo reciproco gioco di insulti – come noi – viene tendenzialmente emarginato. Già Alexander Solgenitsin ci aveva ammonito attorno alle modalità con cui si esercita la ferrea censura culturale nell’occidente, e decenni di egemonia gramsciana in Italia hanno ulteriormente irrigidito queste tagliole. Nell’esperienza di Identità Europea, la benemerita Associazione di cui sono ora il 3° Presidente dopo Franco Cardini e Francesco Mario Agnoli, ci siamo confrontati ripetutamente con questo stile paradossale che premia il becero insulto da TV e fugge dal confronto serio: già nell’anno 2000 dovemmo salvare in extremis la grande Mostra “Risorgimento. Un tempo da riscrivere” presentata al Meeting di Rimini dal tentativo di insabbiarla operato dalla combine marxista-azionista (una Mostra che ha dimostrato tutta la sua validità proprio nell’anno del 150°). Nello stesso anno non possiamo non ricordare la triste sorte del film Li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, che venne censurato da smaccate pressioni politico-ideologiche e ancor oggi gira solamente in samizdat. E proprio quest’anno non siamo singolarmente riusciti ad avere uno spazio –per quelle che appaiono indubitabilmente delle pressioni ideologiche – per presentare a Gorizia, dentro E’Storia, l’ultimo saggio di Francesco Mario Agnoli La vera storia dei prigionieri borbonici dei Savoia, che rimette alcune importanti questioni al loro posto dopo la pubblicazione del pamphlet di Alessandro Barbero I prigionieri dei Savoia. Con tutta evidenza il kombinat marxista-azionista continua ancor oggi ad esercitare l’arte del dibattito storiografico juxta propria principia. Di tutto ciò il brigante non si stupisce affatto…

4) Come si spiega la nuova valutazione dei briganti da parte di storici liberal-democratici, laici, antitradizionalisti e “patriottici” come, ad esempio, Arrigo Petacco e Giordano Bruno Guerri? In parte sulla base di semplici questioni di mercato: la questione del Brigantaggio “tira” ed attira pertanto una pletora di pubblicazioni pseudo divulgative di livello in media veramente sconsolante, opera di consolidati professionisti del ramo (e del livello). In parte dall’esigenza di recuperare quella che è senz’altro una smaccata sconfitta del kombinat di cui sopra attraverso una riproposizione oltretutto impoverita della classica interpretazione gramsciana del brigantaggio antiunitario come forma ancora inconscia di lotta di classe nel mezzogiorno arretrato. Ciò che unifica tutte le voci di questa reinterpretazione laico-patriottica sono appunto i due corni di una rivalutazione finale del processo storico di costruzione di uno stato giacobino-centralista, anche addolcendo la pillola con il miele tossico del “senso della storia” (e come ben sappiamo dalla lezione di Franco Cardini, la storia un senso immanente non ce l’ha), la stupefacente rimozione di tutti i fatti di Insorgenza avvenuti fuori dal Meridione d’Italia dal 1792 in poi e della voluta e completa rimozione delle motivazioni spirituali ed antropologiche (ossia cattoliche) dello scontro europeo fra “antico” e “nuovo” regime. Nel momento in cui la modernità con tutti i suoi idola sta crollando su se stessa, uccisa dai veleni da essa stessa prodotti, dopo un secolo in cui le ideologie della modernità hanno dato il peggio di sé proprio affermandosi a livello globale, non è tollerabile per costoro dover prender atto che dalla Vandea in poi i “briganti”, gli insorgenti, l’intransigenza cattolica stavano dalla parte giusta. Avevano ragione loro, cioè noi.

Intervista Storia in Rete (Fabio Andriola)

22 maggio 2013

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