Alta Terra di Lavoro

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Io, “neo-sudista” e i vetero-nordisti

Posted by on Giu 9, 2017

Io, “neo-sudista” e i vetero-nordisti

“Lo squallore della politica nel mondo attuale non deve farci sottovalutare la gravità dei fenomeni che accadono sotto i nostri occhi”, scrive su “Repubblica Napoli”, in un famigerato articolo di grande insuccesso, il vetero-nordista Francesco Barbagallo, a proposito dell’incontro su “Portici borbonica”, promosso dai Cinquestelle campani e a cui è stato invitato “il giornalista neosudista Pino Aprile, autore del famigerato libro di grande successo ‘Terroni’”.

Il famigerante Barbagallo si chiede se si voglia ripristinare “borbonica” Portici, che pure ha avuto negli anni 50 del ‘900 un sindaco comunista. La sottigliezza dei ragionamenti, come si vede, è tale da far cascare le braccia (per l’ammirazione, s’intende). Quindi se uno ricorda Siracusa “città greca”, vuole il ritorno del tiranno Gelone. E che c’azzecca se un secolo dopo i Borbone il sindaco di Portici fu comunista? Faccia un giretto per Portici, Barbagallo, prenda nota di tutto quel che c’è di grande, bello, ammirevole. E degli anni a cui quelle cose risalgono. Poi si chieda: che succede se qualcuno fa confronti fra il prima e il poi? Per prevenire altre fesserie nei miei riguardi: non voglio il ritorno dei Borbone; credo che l’Italia sarebbe più bella unita, e non i conquistati ridotti a colonia dei conquistatori; diffido dei “meridionalisti” che campano di candidature e incarichi retribuiti che dipendano da un partito o enti pubblici e istituzioni in mano a partiti. Alcuni hanno i cognomi di famiglie che neo-patriottiche al momento giusto, protette dalle armi piemontesi, costruirono o incrementarono fortune enormi ancora oggi, mettendo le mani su beni demaniali o “requisiti” a loro compaesani oppressi. Il timore di Barbagallo è che “false” o mal riferite notizie storiche possano diventare strumento politico. Ossessione condivisa dal suo collega Alessandro Barbero, secondo cui io e altri scriviamo per “fini politici immondi”. Ove immondo è solo il sospetto indimostrato, non essendo rintracciabili ambizioni politiche (parlo per me, ma gli altri uguale). Si sa: “La gatta della dispensa, quello che fa, pensa”. Se, alla vigilia delle elezioni, Barbagallo critica su temi storici il Movimento del sindaco de Magistris e subito dopo i Cinquestelle, i malpensanti potrebbero dedurre che, per esclusione… Ceeerto che non è vero, non è sua intenzione. Ma l’uso politico della storia è il modo di fare storia “ufficiale“ nel nostro Paese. Barbagallo non si fidi di me (infatti non si fida, adesso che mi ricordo), ma legga cosa scrive il suo collega Umberto Levra (docente di Storia del Risorgimento a Torino, presidente del Museo nazionale del Risorgimento e del Comitato per la Storia del Risorgimento), dei “sabaudisti” fondatori della nostra storiografia, prima piemontese (dal 1830), poi italiana: appartenenti a due-tre famiglie che gestirono la memoria nazionale sino al 1920 circa, censurando, occultando, negando documenti, con il re in persona che distruggeva carte scomode della sua stessa famiglia; e riadattando la narrazione storica, di volta in volta, in modo che fosse politicamente utile ai Savoia. Da quell’opera, la possibilità di una vera ricostruzione storica è compromessa per sempre; come confermava circa un secolo fa il colonnello Cesare Cesari, direttore degli Archivi militari. E questo, perché la memoria va “pilotata” «da storici professionisti e con un obiettivo superiore: la costruzione di un Paese unito nella memoria». Da noi, «questo modo di raccontare la storia al popolo, indiscutibilmente si è sempre adoperato. Ma erano tendenzialmente operazioni pilotate dagli storici stessi, che ritenevano di servire il Paese offrendo una narrazione della storia intorno alla quale raccogliersi tutti quanti. Erano narrazioni non divisive». «Le grandi narrazioni, ovvero la costruzione di racconti attorno a cui si rinsalda l’unità nazionale, sono tipiche dello Stato nazionale. Per noi lo sono stati Garibaldi e i Mille. Più o meno ogni Paese l’ha fatto: ha preso alcuni avvenimenti e ha deciso che erano fondanti. E poi nel raccontarlo nei libri di testo ha semplificato molto e ha scelto cosa mettere in evidenza». L’illuminante ammissione di “pilotaggio” è recentissima, del suo collega Alessandro Barbero. Quindi, invece di raccontare i fatti, si è scelto di costruire il santino di Garibaldi e tacere dei saccheggi, degli stupri, dei massacri compiuti dai suoi uomini; si è scelto di continuare a parlare di Mille, non infastidendo il popolo (salvo alcuni, per fortuna) con la presenza della Legione straniera ungherese, della Legione straniera britannica al comando di uno statunitense e più di ventimila “volontari”, ufficialmente “disertori” dall’esercito sabaudo ma portati in Sicilia da navi del Paese che avrebbe dovuto fucilarli e con le armi dell’esercito da cui disertavano (in rapporto alla popolazione, è come se “disertassero” oggi più di 300mila soldati italiani e non se ne riuscisse ad arrestare uno, mannaggia mannaggia. E poi rientrare nell’esercito che avrebbe dovuto giustiziarli e, magari, come Enrico Scuri, vedi Archivio di Stato di Torino, essere promossi e segnalati per le medaglie nella campagna siciliana e napoletana). «Ma noi volevamo fare l’Italia ». «E noi non volevamo le case bruciate, i nostri ragazzi fucilati, le nostre donne stuprate ». I sogni di alcuni divennero l’incubo di tanti. Si poteva e doveva far diversamente. Dirlo è solo onestà; tacerlo non è patriottico. Se persino l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parlò, per Pontelandolfo e Casalduni, di “massacro relegato ai margini dei libri di storia”, qualcuno avrebbe dovuto chiedere scusa, per aver taciuto e “pilotato” non insultare chi lo racconta. Alla fine, la storia diventa un reciproco citarsi fra “allineati” in cattedra. Il che porta a qualche inconveniente. Uno, per esempio, la riguarda, Barbagallo, per la citazione di Barbero che dovrebbe smentire Aprile, a proposito delle finestre senza vetri, per tormentare di più i reclusi nel carcere di Fenestrelle, sulle Alpi. Non si fidi di me (infatti non si fida, adesso che mi ricordo), ma stia attento pure a Barbero: può trovare conferma delle finestre senza vetri nelle carceri piemontesi (almeno tre citazioni), nel libro “Le catene dei Savoia”, di Juri Bossuto e Luca Costanzo, con prefazione di Barbero. Leggerà perché Fenestrelle fosse la peggiore di tutte le prigioni e tanto gelida da essere nota in tutta Europa come “Siberia d’Occidente”. Leggerà di morti e piedi amputati per congelamento e mortalità carceraria del venti per cento. Ma appena vi vengono deportati i borbonici, il sole bacia quella cresta alpina, gli uccelletti tornano a cantare e fiorivan le viole nelle celle, in cui con rara umanità i carcerieri si pigliavan cura dei fratelli terroni loro ospiti: «Caffè, tè, me…?». Perché lo dicono i documenti! Certo. Quelli a cura dei sabaudisti (persino l’ottimo Franco Molfese, che ne rintracciò parte dopo un secolo, “per carità di Patria”, non pubblicò i peggiori sulla repressione). E l’esatto contrario narrato dai cronisti del tempo? Non credibile. Già, come la storia delle finestre… Il guaio, caro Barbagallo, è che Barbero temo non legga i libri che impreziosisce con la sua prefazione. E manco quelli che scrive, viene da pensare. In un pubblico confronto a Gorizia, al Festival della storia, gli rimproverai che in “I prigionieri dei Savoia”, sostiene che i soldati borbonici erano fedeli al re, non alla nazione napoletana, di recente e sospetto conio. Lui smentì: «Non ho scritto questo». «Ma tu li leggi i tuoi libri?», replicai, «pagina 306, dal rigo 9: “Quell’‘idea di Nazione’ che è un’invenzione della propaganda recente: i soldati dell’esercito napoletano che rifiutarono di servire Vittorio lo fecero per fedeltà a un re e non a una nazione, e chi parla di rispetto e onore nei loro confronti dovrebbe rispettare davvero i loro valori, anziché attribuirgliene di posticci”». Capito, sì? Si è fedeli a un re, a una persona, come i servi al padrone (il che non vale, se si tratta di «servire Vittorio»); lo si è a una nazione, come un cittadino al proprio Paese. E quel Regno immutato nei suoi confini da più di sette secoli non lo era! Guardi che sono molto più conciliante e disponibile di quanto possa far intendere il tono di questa replica (lo ha scelto lei, famigerando famigerando). Lei gioca con le parole, neoborbonico, neosudista (le manca “sudici”, come Gramsci riferisce ci battezzò il socialista Camillo Prampolini e poi fa filotto), ma non sa di cosa parla, né la incuriosisce; e pensa (a torto) che l’essere “studioso”

per targhetta possa esimerla dal dovere di studiare quello che è più sbrigativo condannare. Sta accadendo qualcosa di serio cui lei non si dedica: è legittimo condannare, ma più credibile, sapendo cosa e non per sentito dire, magari perché fra un po’ si vota (non dico a lei, no, dico a de Magistris, ai Cinquestelle…).

Ognuno è responsabile delle sue affermazioni (Francesco Barbagallo)

Pino Aprile

pubblicato da

napoli.repubblica.it

8 giugno 2017

 

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