José Borjes, l’eroico cabecilla di Fernando Riccardi
L’avvento dei Piemontesi nel sud dello Stivale determinò l’esplosione di una violenta rivolta contadina, un fuoco inarrestabile che bruciò vigoroso per più di un decennio. Quel fenomeno è passato alla storia come “brigantaggio”, termine non idoneo a descrivere il dramma che si consumò nelle desolate lande dell’Italia meridionale.
Nel periodo post-unitario in tantissimi giunsero da ogni parte d’Europa per sostenere la lotta contro l’invasore venuto dal nord. Essi si battevano per Francesco II di Borbone, il legittimo sovrano spodestato dal trono di Napoli con la forza delle armi. Di qui il nome di “legittimisti”. In tale contesto un posto di primo piano spetta a José Borjes la cui valorosa epopea merita di essere raccontata. Borjes era nato nel 1813 a Fernet, un piccolo villaggio catalano. Figlio di un ufficiale legittimista cresciuto nel clima della sollevazione popolare contro le armate napoleoniche, giovanissimo prese parte alle guerre carliste. La sua fazione, però, fu sconfitta e dovette esiliare in Francia. Fino a quando nel meridione d’Italia irruppero Garibaldi e le truppe sabaude. La centrale legittimista capitolina si ricordò di quel valoroso ufficiale che si era coperto di gloria in Spagna. Borges accettò senza remore di dare una organizzazione militare agli insorti e di assumere il comando generale delle operazioni. Nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1861, accompagnato da una ventina di vecchi compagni d’arme, sbarcò in Calabria, sulla spiaggia di Gerace. Entrò subito in contatto con alcuni capibanda locali e, soprattutto, con Carmine Crocco, un ex soldato borbonico che alla sue dipendenze aveva parecchie centinaia di uomini. Borjes pretendeva che i briganti si mettessero al suo servizio per organizzare militarmente i reparti. Crocco, invece, non era propenso a prendere ordini da un ufficiale straniero. I due, insomma, erano fatti per non intendersi. Quando poi il disegno di impadronirsi di Potenza fallì per il disimpegno dei briganti di Crocco, l’ufficiale catalano decise di sciogliere il sodalizio. Radunati una dozzina di connazionali, prese la via di Roma. Iniziò così un lungo e difficile cammino attraverso un territorio impervio, sconosciuto, con i soldati piemontesi continuamente alle costole. Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre, mentre infuriava una violenta bufera di neve, il gruppetto giunse nei pressi di Tagliacozzo, in Abruzzo, a sole quattro miglia dal confine con lo Stato Pontificio. Gli uomini erano sfiniti per la marcia e per il freddo intenso. Borjes decise di accordare un breve momento di riposo presso la cascina Mastroddi, in località “La Luppa”, nel comune di Sante Marie. La presenza del drappello venne però segnalata al maggiore Franchini che fece intervenire i suoi bersaglieri. Circondato il casolare i piemontesi andarono all’assalto. Dopo un violento scontro a fuoco gli spagnoli furono costretti ad arrendersi. Borjes fece il gesto di consegnare la spada al maggiore, cosa che l’ufficiale italiano rifiutò con disprezzo. I prigionieri furono condotti a Tagliacozzo e rinchiusi in carcere in attesa dell’esecuzione. Borjes, sentendo ormai vicina la fine, chiese di avere il conforto di un confessore. Domandò, inoltre, di essere fucilato assieme ai suoi uomini con il petto rivolto al plotone di esecuzione, privilegio che gli venne negato. Giunto il momento fatale il generale, postosi alla testa del gruppetto, cercava di tenere alto il morale dei suoi uomini. Dopo aver abbracciato uno ad uno i compatrioti ed esortato i bersaglieri a mirare dritto, si mise in ginocchio e intonò assieme agli altri una triste litania catalana. Il canto fu interrotto dal crepitare degli spari. A Sante Marie, all’interno della cascina Mastroddi, un cippo marmoreo ricorda che lì l’8 dicembre del 1861 “si infranse l’illusione del generale José Borjes e dei suoi compagni di restituire a Francesco II il Regno delle Due Sicilie. Catturati da soldati italiani e guardie nazionali di Sante Marie al comando di Enrico Franchini furono fucilati lo stesso giorno a Tagliacozzo”. Nel dicembre del 2003, grazie all’opera instancabile del comitato per la ricerca e la divulgazione della verità storica e alla disponibilità della locale amministrazione comunale, tale cippo ha sostituito una vecchia lapide che definiva Borjes e i suoi commilitoni “banditi e mercenari”, secondo una considerazione che di quel particolare periodo storico per tanto tempo l’ha fatta da padrone. Oggi, invece, si tende sempre più a rivisitare quegli accadimenti. Anche in ambienti al di sopra di ogni sospetto. Qualche tempo fa, la scuola media “Camillo Corradini” di Avezzano si è posta all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale per l’elaborazione di un progetto didattico che prevedeva un convegno sul brigantaggio postunitario e il rifacimento, in chiave moderna, del processo che nel 1898 si tenne al brigante Berardino Viola, con la partecipazione di giudici e avvocati del foro di Avezzano e con 120 alunni delle ultime classi dell’istituto che fungevano da giuria popolare. Processo che si è concluso con l’assoluzione del Viola al quale è stato riconosciuto l’aver agito per legittima difesa. Anche nelle scuole, quindi, sia pure in clamoroso ritardo, mettendo da parte semplicistiche generalizzazioni e visioni troppo partigiane, si comincia a riconoscere la dignità morale e politica con la quale tanti uomini del sud, e non solo, si sono battuti e hanno dato la vita in quel travagliato periodo che seguì l’unificazione della Penisola. Proprio come quel valoroso generale catalano. Da qualche anno, l’8 dicembre, a Sante Marie, si tiene una toccante commemorazione organizzata proprio da quel comitato di cui sopra, con tanta gente che arriva da ogni parte della Penisola. Dimostrazione lampante dell’esigenza, ormai unanimemente avvertita, di giungere, ad una storia, se non condivisa, per lo meno più credibile. E, in una parola, più vera.
Fernando Riccardi