La Banca d’Italia col Regno delle Due Sicilie
La Banca d’Italia ha certificato la bontà dell’amministrazione economica-finanziaria borbonica nel Regno delle Due Sicilie, come del resto la “letteratura revisionista” del mito risorgimentale sostiene da anni, giustamente quanto inutilmente, laddove afferma che al momento dell’Unità d’Italia la regione con la maggiore produzione industriale era la Campania, con 39,04 milioni di lire. Un valore superiore persino di quello della più estesa e popolosa Lombardia, che si attestava a 36,83 milioni. Il Piemonte era terzo a 29,89 milioni di lire.
Veneto, Toscana e Sicilia seguivano con valori superiori a 20 milioni di lire. Pochi credevano a queste cifre e tutti pretendevano numeri e dati inoppugnabili a proposito di questa superiorità del Regno delle Due Sicile sul resto della penisola, in primis sul guerrafondaio Piemonte che, immediatamente prima dell’invasione garibaldina della Sicilia, era in una situazione debitoria non lontana da quella attuale della Grecia. Ora a conferma di ciò è uscito recentemente anche un saggio, edito appunto dalla Banca D’Italia, di due studiosi quali il prof. Stefano Fenoaltea, docente di Economia Applicata all’Università di Tor Vergata (Roma) e del collega Carlo Ciccarelli, Dottore di Ricerca in Teoria economica ed Istituzioni nella stessa Università. L’autorevolezza dei due professori è indiscutibile se la loro pubblicazione scientifica ha avuto l’onore di essere patrocinata dalla Banca d’Italia, la banca centrale dello stato italiano. Ebbene, l’incipit del saggio è il seguente: “L’arretratezza industriale del Sud, evidente già all’inizio della prima guerra mondiale non è un’eredità dell’Italia pre-unitaria” (Through the Magnifying Glass: Provincial Aspects of industrial Growth in Post-Unification Italy, pag.22). Il muro dell’oblio eretto a salvaguardia di un’interpretazione monca delle vicende storiche e politiche che portarono all’unità italiana, già pieno di crepe per molti e rilevanti lavori (non tutti, perché parecchi hanno solo cavalcato l’onda del revisionismo) anche di autori non di fede borbonica, ha cominciato davvero a sgretolarsi dinanzi ai numeri e ai dati forniti da questo saggio che sono scientificamente provati da minuziose tabelle statistiche redatte servendosi di una massa di dati nazionali e regionali che mostrano chiaramente lo sviluppo dell’Italia nei primi decenni dopo l’unificazione. Orbene, il meticoloso lavoro eseguito aggiunge, ai dati già disponibili, un’analisi dei dati disaggregati relativi alla produzione industriale in 69 province tra il 1871 e il 1911, determinando gli studiosi a svelare che: “Il loro esame disaggregato rafforza le principali ipotesi revisioniste suggerite dai dati regionali”. Più eloquente di così…e, si sottolinea ancora, qui sono i numeri che parlano esplicitamente! La tabelle pubblicate da Fenoaltea e Ciccarelli mostrano, dunque, che nel 1871 il tasso di industrializzazione del Piemonte era del l’1.13%, quello della Lombardia 1.37%, quello della Liguria 1.48%. E questa situazione, cosa tutt’altro che trascurabile, a dieci anni di distanza dalla riduzione ai minimi termini dell’apparato industriale delle Due Sicilie, che vide lo smantellamento delle officine metallurgiche di Pietrarsa, a Portici (oltre 1000 addetti prima dell’unificazione ridotti a 100 nel 1875), nonché di quelle di Mongiana (950 addetti nel 1850 ridotti a poche decine di guardiani nel 1873): ebbene, nonostante il notevole impegno devastatore del nuovo governo “liberatore”, calato dal nord come facevano un tempo i barbari, l’indice di industrializzazione della Campania era ancora dell’1.01%, con Napoli, nel dato provinciale, all’1.44% e quindi più di Torino che era solo all’1.41%. L’indice di industrializzazione della Sicilia era allo 0.98%, quindi agli stessi livelli del Veneto che era al 0.99%, la Puglia era allo 0.78% con la provincia di Foggia allo 0.82%:molto più di province lombarde come Sondrio, allo 0.56%, e vicinissima ai livelli di industrializzazione dell’Emilia, allo 0.85%. La Calabria era allo 0.69%, con la provincia di Catanzaro allo 0.78% e perciò allo stesso livello di Reggio Emilia e più di Piacenza, che era allo 0.76%, ma anche di Ferrara allo 0.74%. Il tasso di industrializzazione della Basilicata era allo 0.67%, un indice apparentemente basso ma sempre maggiore di alcuni territori liguri, come Porto Maurizio che era allo 0.61%. L’Abruzzo era invece allo 0.58%, con L’Aquila a 0.63%. Il tragico per il Meridione avveniva quarant’anni dopo, nel 1911, quando l’indice di industrializzazione del Piemonte saliva all’1.30% mentre quello della Campania andava in picchiata a 0.93%, con Napoli all’1.32%. La Lombardia raggiungeva l’1.67%, la Liguria l’1.62%, mentre la Sicilia tracollava vertiginosamente con lo 0.65%, la Puglia con lo 0.62%, la Calabria con lo 0.58%, la Basilicata con lo 0.51%. Con questo saggio nato sotto l’egida della Banca d’Italia è ufficialmente certificato come l’arretratezza industriale del Sud non sia un’eredità dell’Italia pre-unitaria ma un sottosviluppo voluto da una unificazione nazionale strumentalizzata in modo scellerato ai danni del Mezzogiorno che scientemente è stato messo in condizioni da non potersi più sollevare.
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