La caccia sul Matese tra storia e tradizione di Rosario Di Lello
Primo a collaborare nella collana “Documenti per la storia dei paesi del Medio Volturno”, Rosario Di Lello, medico umanista, è il primo a pubblicare nella collana “Liberi Studi” della nostra Associazione storica.
Questa sua indagine si avvale di studi filologici che risalgono alla terminologia latina e dialettale, si poggia sopra esperienze personali nella tecnica delle armi e della caccia, si chiarisce con la conoscenza storica del territorio, si proietta nella psicologia della pratica venatoria a volte feroce, lascia trasparire infine, il grido d’allarme e di soccorso per la vita dei selvatici in estinzione.
È il caso di dire: dalla storia alla tecnica, dalla tradizione alla visione morale della caccia. Il solo leggere questa pubblicazione è, in definitiva, un istruirsi.
DANTE B. MARROCCO
La benevola accoglienza incontrata da “La caccia nella Comunità montana del Titerno” e i consensi pervenuti da più parti del Matese, mi hanno incoraggiato a rivisitare l’argomento al fine di inquadrarlo nella storia e nell’attualità di un territorio più vasto.
Dedico questo studio a mia figlia Paola e ai giovani come lei, e faccio voti che, nell’affrontare la vita da uomini liberi, non prescindano mai dal rispetto per se stessi, per i loro simili e per tutto ciò che è Vita e principio di Vita nell’ambiente che li circonda.
ROSARIO DI LELLO
“Chi vò li figli puveregli
gl’adda fa acciappaucegli”
(Antico proverbio del Matese)
Tra la Campania e il Molise, a confine delle province di Caserta, Benevento, Campobasso e Isernia, imponente s’erge il Matese. Questo gran monte si estende per quasi 1000 Kmq e comprende territori di 50 comuni popolati da circa 125.000 abitanti.
“Furono intorno a lui anticamente quattro principali città de’ Sanniti, fondate in quattro parti poco meno l’una dall’altra distanti. Dalla parte di Oriente eravi la città di Telese (…) dal Settentrione è Boiano, dall’Occidente estivo sta Isernia, e da Mezzogiorno vedesi Alife.
Le sue cime si vedono la più gran parte dell’anno ricoverte di nevi. Perciò il nostro Paterno cantava:
…fra quanto s’erge
Distende e mostra il nostro Re de’ monti
L’alto Matese, a cui gelate nevi
Ancor quando in Leone il Sole alberga
Copron il mento, e la canuta testa.
Egli è sterile alquanto e petroso, ma ottimo per pascolo di animali, come infatti vi sono di essi mandre non poche, così di pecore, dalle quali si tosano finissime lane, come di capre, di vacche, e di bufoli, che danno preziosi formaggi; ma non vi mancano piani che si seminano a buon formento (…) altri a grano germano detto Segala o Mischiato di segala. Le sue gran selve sono di faggi.
Nel mezzo del suo piano maggiore è un lago, che più miglia circonda (…) Sgorgano sopra di esso Monte innumerabili limpide e fresche sorgive, e vi scaturisce dalla parte di Settentrione il fiume Biferno. (…) Abbonda un tal monte ben anche di erbe di frutici i più ricercati e stimabili”[1].
Il Matese è luogo di caccia, fin dalla Preistoria.
I primi documenti che hanno parlato dell’esistenza dell’uomo molto prima dei periodi così detti storici, sono stati resti di industrie: pietre più o meno grossolanamente scheggiate[2] e lavorate in modo da servire come armi-utensili per una esistenza nomade caratterizzata dalla caccia e dalla raccolta dei frutti spontanei della terra e vissuta in tempi la cui lontananza ammonta a centinaia di migliaia di anni.
“Arma antiqua manus ungues dentesque fuerunt
et lapides et item silvarum fragmina rami… »
Lucrezio
(De rerum natura, V, 1283-84)
Col trascorrere dei millenni, l’uomo, associato in gruppi, non mutò la sua vita di cacciatore errante, condizionato, come era, dalla necessità di luoghi sempre nuovi e ricchi di selvaggina. Migliorò, è vero, i sistemi di lavorazione, perfezionò gli strumenti di caccia, produsse l’amigdala scheggiando un nodulo di selce o di altro grosso ciottolo, continuò, tuttavia, a seguire ed a spingere verso preordinate insidie, rinoceronti ed elefanti, orsi e bisonti, cinghiali daini e cervi; li catturò, li uccise; ne mangiò le carni, si coprì con le loro pelli e, con le ossa, pavimentò le fragili ed umide capanne, costruite quando non trovò grotte ospitali.
Una parte di quell’avventura immane si svolse alle falde del Matese in un paesaggio a steppa-prateria arborata e solcata da corsi d’acqua, diverso da quello attuale.
Tutto ciò trova testimonianza nei giacimenti portati alla luce in località La Pineta di Isernia, nei manufatti litici rinvenuti in Piedimone, Cerreto e Guardia[3], nell’amigdala di Faicchio[4].
Dalla fine del Paleolitico e nel Mesolitico, gli aspetti geografico e climatico si assestarono e, con essi, si stabilizzarono le forme attuali di flora e di fauna. Nel Neolitico, l’uomo produceva oggetti diversificati: utensili domestici e di lavoro, lame levigate e taglienti, punte di lance e di frecce. Usò l’arco e pose fine al nomadismo venatorio per risiedere dentro villaggi stabili dove allevò mansueti animali dai quali traeva latte, carne e pelli. Nel periodo successivo, i manufatti litici vennero sostituiti con gli analoghi in metallo. Le pelli, intanto, facevano luogo al tessuto in lana, la manifattura della terracotta subiva miglioramenti, si sviluppava l’agricoltura. L’uomo, dunque, era diventato pastore e agricoltore, tuttavia, per necessità, dedito ancora alla caccia. Era passato dalla condizione di nomade ad una vita stabile, organizzata nell’ambito della famiglia e del villaggio.
Non mancano documenti di queste lontane presenze nei tenimenti di Piedimonte, Telese, Guardia, Morcone, Cusano, Faicchio e San Potito[5]. Si tratta di una produzione silicea costituita da cuspidi di lance e di frecce e da lame a costola e a foglia di misure diverse.
Nell’età del ferro già avanzata, entrarono nella storia i popoli dell’Italia preromana e, tra essi, i Sanniti. Distinti nelle tribù dei Caraceni, dei Pentri, dei Caudini e degli Irpini, i Sanniti occuparono una vasta area, delimitata a nord dal fiume Sangro e dalle terre dei Marsi e dei Peligni, a sud dal fiume Ofanto e dalle terre dei Lucani, ad est dal Tavoliere di Puglia e dalle terre dei Frentani, e ad ovest dalla Pianura Campana e dalle terre degli Aurunci, Sidicini e Latini. Il paese corrisponde, approssimativamente, alle attuali province di Campobasso, Isernia, Benevento e Avellino[6]. Sul massiccio del Matese (mons Tifernus) s’erano insediati nei centri megalitici di Isernia, Longano, Campochiaro, Boiano, Terravecchia di Sepino, Letino, Monte Cila, Monte Erbano e Monte Acero.
Benché il Sannio fosse povero di pianure estese e fertili, i Sanniti praticarono l’agricoltura estensiva nelle plaghe più feconde. Coltivarono a frutteti, a orti ed a frumento le valli del Volturno, del Calore e del Biferno; diedero inizio allo sfruttamento dei boschi (finalizzandolo, tuttavia, alla coltura della vite e dell’olivo); resero rinomati i vini del Beneventano, dal lieve aroma affumicato[7], e le olive di Venafro. Nelle terre inadatte alla coltura, svilupparono l’allevamento del bestiame e, sul Matese in particolare, la produzione dei latticini[8].
La società sannitica, priva di governo centrale e retta dalla ristretta cerchia delle dinastie familiari, deve aver avuto caratteristiche servili e feudali. “Il Sannita medio poteva non essere schiavo, ma è certo che la sua era una vita di lavoro e di sacrificio alle dipendenze del signore locale”[9].
Dato il tipo di società e di economia, non è improbabile che, così come altre tribù ed in particolare gli Irpini[10], le popolazioni del Matese abbiano praticato la caccia, finalizzata non tanto allo svago quanto alla protezione delle colture dai selvatici nocivi, alla difesa degli armenti dai predatori ed alla ricerca di pelli e di carni imposta dalle necessità domestiche.
È verosimile inoltre che, nell’esercizio venatorio, abbiano fatto uso prevalente di insidie ed eccezionale di armi metalliche, riservando il ferro, largamente importato, alla produzione dell’equipaggiamento bellico.
Nel Novembre dell’82 a.C., a conclusione di una plurisecolare rivalità, i Sanniti, nella battaglia di Porta Collina, persero contro i Romani l’ultima opportunità d’indipendenza. Silla ne decise lo sterminio e le stragi e le distruzioni furono di tale portate che “all’interno del Sannio fu pressoché impossibile individuare il Sannio”[11]. Iniziava, da quel momento, il lento costante processo di romanizzazione. I residui elementi della cultura sannitica in parte si estinsero, in parte confluirono e si diluirono in quella dei conquistatori.
Presso i Romani la caccia per divertimento pare sia stata introdotta dai Greci, nel II sec. a.C. Trovò ben presto così larga diffusione, in particola modo tra i giovani, che pure le donne ne furono prese. “Caccia, bagni, giochi e risate, questo è vivere”, dicevano i Romani[12]. Non si può, tuttavia, escludere che i giovani liberi, pur senza attendere l’insegnamento greco abbiano fatto per diletto ciò che gli schiavi facevano per obbligo – distruggere gli animali nocivi ed arricchire la mensa del padrone – e i cacciatori di mestiere e gli indigenti, per necessità – “procacciarsi la vita con la caccia”[13].
Documenti dell’epoca, letterari e figurativi[14], seppure attinenti la caccia in generale in età romana, danno un’idea di come dovette essere, nei tipi e nei modi, la pratica venatoria tra le popolazioni del Matese dopo la conquista.
I Romani esercitavano l’arte venatoria, comunque finalizzata, nelle due forme di: caccia ai quadrupedi (venatio) ed uccellagione (aucupium); prima e/o a conclusione delle fatiche di caccia, erano soliti offrire a Diana sacrifici propiziatori e/o di ringraziamento.
La “venatio” praticata in gruppo, consisteva nello scovare e uccidere la preda. Individuato il terreno frequentato dalla selvaggina[15], gli schiavi lo recintavano con reti a maglie larghe (retia) e con lunghi fili ai quali venivano sospese piume di uccelli dai vivaci colori (formidines). Lo sbarramento delle reti e degli “spauracchi” tracciava un percorso obbligato che conduceva a reti a maglie strette tese tra alberi (plagae) o a forma di sacco (casses); le prime venivano usate per immobilizzare la selvaggina di grossa taglia, le altre per catturare quella minuta. Nel giorno della battuta, i cacciatori, (venatores) vestivano appropriati abiti leggeri (aliculae) che ne agevolassero i movimenti, proteggevano gli arti inferiori con “fasce crurali”, calzavano sandali (crepides) e prendevano posto lungo i percorsi ed al termine degli stessi. Il capocaccia (magister canum), schiavo addetto all’allevamento e all’addestramento dei cani, teneva dietro, coi segugi e con gli schiavi battitori (vestigatores), alle orme della selvaggina. Stanatala, la inseguivano e la indirizzavano, con schiamazzi, lungo i percorsi. I cacciatori, appostati, tentavano di colpirla con la fionda (funda) e con i giavellotti (iacula, lanceae). La cacciagione che non cadeva uccisa o ferita, proseguendo nella corsa, finiva nelle reti e veniva abbattuta a colpi di giavellotto o di coltellaccio (culter venatorius). Per affrontare le belve ferite e inferocite, si faceva uso del “venabulo”, le cui due alette contrapposte in punta tenevano la fiera, trafitta, a distanza di sicurezza dal cacciatore.
Nella pratica venatoria isolata, il cacciatore tentava di catturare l’animale disponendo lacci (laquei) e laccioli (pedicae) o attirandolo dentro profonde fosse dissimulate con rami e frasche.
Un tipo di caccia, particolarmente faticoso, consisteva nell’inseguire a cavallo la lepre e, raggiuntala, colpirla in movimento con un bastone.
Meno faticosa e per nulla rischiosa era l’arte dell’uccellatore (auceps). Nei luoghi aperti, stendeva al suolo la rete, la cospargeva di becchime e, per richiamo, usava il canto di uccelli accecati e legati per le zampe, oppure la civetta o anche il fischietto (fistula) col quale imitava il canto dei volatili da catturare. Tirava lestamente la rete quando un buon numero di uccelli vi s’era raccolto sopra.
Nell’aucupium con la pania, l’uccellatore, spingeva, con precauzione, lunghe canne (calami) impaniate, in alto, tra i rami degli alberi. Gli uccelli saltando sulle canne vi rimanevano presi. Catturava, infine, i grossi rapaci usando come esca una colomba, legata per le zampe, tra grosse canne impaniate, e stimolata a librarsi in volo.
Con i Romani, il rapporto uomo-fauna non si esaurì nelle motivazioni e nelle manifestazioni venatorie descritte.
Gli aborigeni e le comunità agro-pastorali sannitiche avevano cacciato per necessità e legnato per esigenze domestiche e per tenere attive le piccole industrie ceramiche, tessili, conciarie e metallurgiche. “Le guerre puniche imposero il primo disboscamento delle dorsali appenniniche per allestire flotte in breve tempo. Tagliato e trasportato lungo i fiumi da appaltatori in perenne contrasto con gli agricoltori, il legname affluiva nei cantieri dove la quantità più resinosa veniva trasformata in pece per impermeabilizzare natanti e contenitori di carico”[16] ed il restante in fasciame.
Lo sfruttamento distruttivo delle aree forestali continuò con lo sviluppo tecnologico, nei secoli successivi. Il legno, fonte di calore e di energia, trovò impiego nella produzione di calce e mattoni per l’edilizia di un urbanesimo crescente, nelle industrie metallurgiche, chimiche, tessili, della ceramica e del vetro, nelle opere di carpenteria e nella produzione di mobili, nel riscaldamento ambientale privato e termale pubblico. “Declassate le preesistenti colture, provocata l’erosione e l’impoverimento del suolo, soprattutto in una zona climatica come quella beneventana dove le foreste si ricostruiscono con difficoltà per cause geologiche e l’alternarsi di inverni piovosi con estati calde, la colonizzazione romana, col sistema agronomico del maggese biennale e i rapporti di produzione ad esso connessi, completò il condizionamento del paesaggio”[17].
L’uomo aveva dato l’avvio allo sconvolgimento dell’ambiente faunistico.
[1] G. Trutta, Dissertazioni istoriche delle antichità alifane, Napoli MDCCLXXVI, pp. 294 e sg.
[2] C. Arambourg, La genesi dell’umanità, Firenze 1973, p. 16.
[3] A. Piciocchi, Il Matese e la sua preistoria, in Annuario dell’Associazione Storica del Medio Volturno (A.S.M.V.), Piedimonte Matese, 1979, pp. 181-186; Soprintendenza Archeologica del Molise, Isernia La Pineta, un accampamento più antico di 700 mila anni, Bologna 1983.
[4] Ritrovata in contrada Massari. Raccolta V. Petrucci, Faicchio.
[5] A. Piciocchi, o.c.; N. Vigliotti, San Lorenzello e la valle del Titerno, Napoli 1968, tav. IV; D. Marrocco, L’Arte nel Medio Volturno, Piedimonte d’Alife, 1964, p. 5.
[6] E. T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Torino, 1985, pp. 19, 28.
[7] I vini prodotti sulle ultime propaggini del Matese beneventano sono tuttora rinomati.
[8] E. T. Salmon, o.c., pp. 71-75.
[9] E. T. Salmon, o.c., pp. 56-57.
[10] Silio Italico, IV, 558, 559; VIII, 564, 571, XIII, 219.
[11] Florio, I, II, 8.
[12] C.I.L., VIII, 17938, in U.E. Paoli, Vita romana, Mondadori 1976.
[13] “Vita propagare aucupio” Cicerone.
[14] Cfr. E. Poli, o.c., pp. 212-216; F. Calonghi, Dizionario latino-italiano, Torino 1967; B. Pace, I mosaici di Piazza Armerina, Roma 1959; A. Carandini, Ricerche sullo stile e sulla cronologia dei mosaici della villa di Piazza Armerina, Roma 1964.
[15] Orsi, cinghiali, cervi, lepri.
[16] E. Galasso, Tra i Sanniti in terra Beneventana, Benevento 1983, pp. 92, 94.
[17] E. Galasso, o.c., pp. 95, 97, 99.