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La cenere non è spenta

Posted by on Gen 21, 2023

La cenere non è spenta

Presentazione

L’invasione garibaldina della Sicilia del 1860 […] aveva fatto capire ai Siciliani che una pacifica convivenza col vincitore improntata sulla giustizia (pur da Paese sconfitto) sarebbe stata impossibile.

Dal 17 marzo 1861 ‒ data di proclamazione del Regno d’Italia ‒ fu subito chiaro a tutti che le misure repressive attuate dal nuovo Governo, sia nel campo giudiziario che in quello amministrativo e commerciale, non si sarebbero attenuate; anzi, la morsa «piemontese» si sarebbe fatta ancora più stretta ed oppressiva.

Gli storici e gli «agiografi ufficiali» del Risorgimento continuavano a proporre (ed imporre) la falsa narrazione dei fatti, raccontando di un Popolo Siciliano desideroso di essere «annesso» al nuovo Regno d’Italia, del quale si tessevano solamente lodi e disponibilità a diffondere idee «democratiche ed unitarie». I dissidenti ed i contrari sarebbero stati pochi, sordi alla modernità, in balìa delle trame della Chiesa Cattolica… e del tutto incapaci di vivere un futuro che non fosse guidato dalla nuova monarchia Sabaudo-piemontese. Molti studi hanno dimostrato come l’annessione al Regno d’Italia abbia provocato, in tutto il territorio del «Meridione» ed in Sicilia in particolare, un vero e proprio crollo degli equilibri sociali ed economici, facilitando la strada alla corruzione e alla malavita, ed instaurando un clima di sfruttamento di tipo «coloniale».

Grazie all’appoggio dell’Inghilterra ‒ prima fra tutti ‒ ed all’assenso (o al silenzio) degli altri Stati europei, importazioni, esportazioni, svalutazione della moneta, confische di beni privati e di proprietà della Chiesa, amministrazione della giustizia e vita sociale furono pesantemente caratterizzate da questa «volontà» di sfruttamento. Lo sfruttamento e la sopraffazione vennero realizzati anche con nuove leggi appositamente preparate e con tribunali che giudicavano persino in modo retroattivo… con delitti, rappresaglie sanguinose e violenze che venivano occultate con la complicità della stampa governativa, che era la sola autorizzata a diffondere le notizie.

Ma, appunto, la cenere non era spenta e, così come già aveva fatto una grande parte dell’Esercito Duosiciliano, che aveva continuato a combattere anche dopo la resa, e senza i propri generali (corrotti), così il Popolo Siciliano cercò di organizzarsi e di fare sentire la propria voce in quella grande sollevazione popolare che sarebbe passata alla Storia come «la Rivolta del Sette e Mezzo». Essa fu raccontata da molti a suo tempo, e viene ancora oggi ricordata ‒ soprattutto dalle «fonti ufficiali» ‒ come una comune, violenta sommossa popolare, animata da pochi rivoltosi e delinquenti comuni insofferenti del nuovo Governo liberale e da questo «giustamente» repressa, appunto, in sette giorni e mezzo: dal 15 al 22 settembre 1866. Ma non fu così; non era una qualsiasi «rivolta» ma una vera rivoluzione, e proprio per questo fece paura all’appena nato Regno d’Italia: pertanto la repressione fu subito attuata, ma al tempo stesso anche minimizzata e poi dimenticata. L’operazione fu, sì, conclusa in «sette giorni e mezzo», ma aveva richiesto al Governo l’intervento di decine di migliaia di soldati (oltre 40.000), nonché navi, cannoni, omertà della stampa… e una montagna di bugie.

Come da «regola» molto più dignitosa, la verità (così come vuole il proverbio) sarebbe comunque venuta a galla, con tutte le conseguenze immaginabili e con alcune tracce indelebili. Il ricordo di quella «rivolta», per esempio, sopravvive ancora al giorno d’oggi; in Sicilia, nell’espressione popolare di minaccia «fazzu un setti e menzu!», per dire che si è disposti a fare addirittura una «rivoluzione» pur di ottenere qualcosa, pur di far valere le proprie ragioni… come nel 1866.

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