LA CITTA ANTICA- di Salvatore Fratta
A Voi che seguite quanto scrivo, volevo dire che tutto ciò che leggete in questo sito è tratto da tre volumetti da me scritti col titolo:
I – Santa Maria Capua Vetere – Strade e piazze fra storia ed aneddoti;
II Percorrendo l’Appia da Minturno a Capua fra l’antico e il moderno
III Strade, Chiese e Conventi di S. Maria C.V.
ripubblicati successivamente in un unico volume col titolo….
SANTA MARIA CAPUA VETERE , che oltre la descrizione della città antica, della città medioevale, e della moderna, dei suoi abitanti illustri, dei sioui monumenti, ecc. comprende anche un IV volume con la storia dei dintorni della città. L’ultima edizione risale al 2016 presentata dall’egr. Prof. A. Perconte –
Fra breve seguirà la nuova.
Capua Antica – La città
CAPUA AVEVA DUE FORI:
— il Foro del Popolo da ravvisarsi nella piazza Seplasia che aveva funzione soprattutto commerciale, e dove si concentrava una buona parte del popolo per discutere dei propri affari e quindi, proprio qui, transitavano grandi ricchezze;
— il Foro dei Nobili ovvero la piazza Albana, dove si incontravano gli aristocratici per discutere di cultura, di leggi, di politica per il governo della città. Presso di esso era ubicata la Curia cittadina definita Aedes Alba, Casa bianca, per il candore dei suoi marmi. Il foro, verosimilmente, doveva essere di forma rettangolare: ai lati si aprivano dei portici e alcuni edifici pubblici come il Criptoportico, e il Teatro.
Vi era situato, inoltre, il Campidoglio tempio dedicato alla triade capitolina Giove Giunone, Minerva. Nei suoi pressi si innalzava un magnifico arco.
La città possedeva molti templi e, ricordati dalle fonti, sono noti quelli dedicati a Venere, a Mercurio, a Nettuno.
Altri, poi, erano situati nei dintorni, come ad esempio i Templi di Cibele e di Cerere; verso il fiume quello dedicato al Sacro Volturno; ai piedi del Tifata il tempio di Apollo e di Ercole e sulle estremità della stessa collina, il Tempio di Diana ad ovest e il Tempio di Giove Tifatino ad est.
Importanti erano gli edifici pubblici: l’Anfiteatro, il Circo, le Terme, la Curia, il Macellum cioè il mercato dei generi alimentari, da poco ritrovato e ancora oggetto di studi. Purtroppo, esistono le testimonianze solo di alcuni dei suddetti edifici, mentre di molti altri non vi sono più né le tracce né il ricordo.
Di notevole eleganza erano le domus capuane e quelle poche ritrovate nell’area urbana indicano l’agiatezza dei rispettivi proprietari.
La domus era un’abitazione unifamiliare privata urbana, una casa signorile che solo cittadini di agiate condizioni economiche potevano permettersi. All’esterno la domus presentava il portone d’ingresso e solo poche finestre poste in alto. La casa si sviluppava intorno all’atrium, uno spazio rettangolare che, non essendo coperto al centro, presentava una grande apertura per dare aria e luce ai vari ambienti che lo circondavano: i cubicula, cioè le stanze da letto sistemate ai lati; gli ambienti dei servizi di fianco all’ingresso e, in fondo, era sistemato il triclinium,la stanza da pranzo.
Il tetto copriva le stanze disposte sui lati dell’atrio ed era inclinato verso l’interno permettendo, così, di recuperare l’acqua piovana, nell’ impluvium, una vasca rettangolare sistemata nello spazio sottostante. L’acqua così raccolta riempiva una cisterna sottoposta da cui si attingeva tramite un foro nobilitato da un puteale in marmo.
Quanto detto, nell’uso comune. Ma a Capua, spesso, le case erano servite da pozzi poco profondi e si attingeva l’acqua direttamente dalla falda acquifera.
Nel retro della casa vi era l’hortus cioè il giardino e orto domestico. In abitazioni di maggiori dimensioni vi era il peristylium, un giardino circondato da un colonnato. In esso erano sistemate piante aromatiche, piante di fiori e spesso erano ospitati anche fagiani, pavoni, colombi.
Ovviamente, non tutti gli abitanti possedevano case così ricche. La maggior parte di essi vivevano in case più modeste, le insulae, caseggiati a più piani, con unità abitative indipendenti destinate a più famiglie, abitazioni spesso fatiscenti con vani dove difficilmente entrava la luce e l’ aria fresca, ed erano prive di servizi igienici. Per ovviare a queste necessità, la città era dotata di pubbliche latrine, inserite direttamente nel percorso fognario. Ad esse si accedeva pagando una piccola somma.
I più poveri vivevano in ambienti di pochi metri quadri ricavati nel retro di botteghe, laboratori o in un ammezzato.
Si ritiene che, al tempo delle guerre annibaliche, assommando coloro che vivevano in campagna e i residenti in città, e comprendendo nella conta anche gli schiavi, nell’intero territorio capuano, vi fosse una popolazione di circa trecentomila abitanti. Nei secoli successivi la popolazione divenne ancora più numerosa. Si tenga presente che i cittadini veri, cioè coloro che possedendo la cittadinanza potevano usufruire dei diritti e dei doveri sanciti dallo stato, formavano solo una minoranza, mentre la maggior parte della popolazione era costituita per lo più da schiavi.
Facilmente si può immaginare come, durante gli anni dell’Impero Romano, si svolgesse a Capua la vita di tutti i giorni: tra il brusio delle centinaia di persone che, indaffarate, percorrevano le strade cittadine per espletare le normali faccende giornaliere o per recarsi nei vari mercati, le robuste voci dei venditori che vantavano le proprie merci, i rumori provenienti dalle molteplici attività lavorative svolte in botteghe artigianali che producevano manufatti di notevole pregio. Catone*, infatti, esortava i suoi concittadini ad acquistare recipienti di bronzo, vasellame di coccio, attrezzi da lavoro quali aratri, zappe, falcetti, e quant’altro potesse servire per il lavoro dei campi, poiché da lui, esperto in agricoltura, quelli prodotti a Capua, erano considerati i migliori. Lo scrittore, inoltre, considerava di buona fattura la corda e le funi qui fabbricate.
Nota: * Marco Porcio Catone, detto “il Censore” nacque a Tusculum, città dei Colli Albani, verso il 234 a.C. Fu un politico, generale e scrittore. Fra le sue opere si ricorda il Liber de agri cultura composta verso il 160 a.C., pervenutoci integro.
L’economia della città, come in tutto il mondo romano, era basata essenzialmente su un’economia agricola, ma venivano esercitati anche i commerci e molteplici attività artigianali.
Si lavorava il legno fornito in abbondanza dai boschi del Tifata, e pregevoli risultavano i lavori di falegnameria.
I tappeti intrecciati a Capua, per la loro ottima qualità, avevano poca concorrenza. “Accanto ai tappeti campani facevano bella mostra di sé i lini di Grecia, il bisso egiziano, la porpora fenicia, il broccato mesopotamico”
Vi erano poi botteghe per la confezione dicalzature, e di mantelli ad uso civile e militare.
Dall’ Etruria si importavano i servizi per bere fabbricati con una ceramica fine e leggerissima dal tipico colore nero lucente: il bucchero.
Poi, anche a Capua furono impiantate botteghe di ceramisti che, fin dal IV sec a.C., produssero, fra l’altro, elaborati vasi a figure rosse con temi a soggetto locale come figure di guerrieri sanniti o donne nel tipico abbigliamento campano. E sembra che operassero almeno due fra le officine migliori in Campania, quelle: del “ Pittore di Capua ” e del “ Pittore di Issione ” attivi a Capua verso la fine del IV sec. a.C.
Nel successivo III sec. a. C. la ceramica a figure rosse iniziò a scomparire e la nuova produzione imitò le forme e le decorazioni del vasellame metallico.
Non mancavano neppure le officine per la costruzione di anfore adatte a contenere vino e olio esportati in tutti i paesi del Mediterraneo. Infatti, epigrafi di commercianti che provenivano anche da Capua sono state ritrovate anche a Delo, isola greca delle Cicladi.
Anche nella metallurgia, venne raggiunto un altissimo livello tecnico; la produzione riguardava suppellettili e oggetti in bronzo ornati da figure a tutto tondo. Celebre è il lebete Barone.
Inoltre, venivano praticate anche altre attività più modeste. Infatti, agli inizi degli anni ottanta del Novecento si rinvennero i resti di una fornace per la costruzione di tegole piane, attiva fra il VI e il Vsec. a. C.
Dalle rose centofoglie, coltivate nei dintorni della città, si estraevano i profumi e gli unguenti rinomati in tutto il mondo antico, e il mercato di queste essenze era sito presso la famosa via o piazza Seplasia.
Quello dei campi era il lavoro più pesante. Nei fertili terreni capuani si coltivava, anche per rifornire la capitale, sopratutto il frumento, oltre al farro, la spelta (una varietà del farro), il miglio, l’avena.
Nei poderi più prossimi alla città, per poter soddisfare la richiesta giornaliera dei mercati cittadini, erano coltivati, secondo la stagione propizia, gli ortaggi: lattughe, agli, cipolle, porri, cavoli, broccoli, fave ecc. e alcuni cereali quali piselli, ceci, lenticchie, lupini…
La frutta coltivata in loco erano mele, pere, susine, noci, mandorle, uva. I datteri provenivano dall’Africa. Durante l’Impero vennero coltivati anche il ciliegio, il pesco e l’albicocco.
Fra le mele la più nota era la mala orcula (oggi mele annurca) frutto citato da Plinio il Vecchio col nome suddetto perché nasceva spontaneo nella zona flegrea, nei pressi del lago d’Averno, noto ai romani come Orco (dal nome del dio) e considerato ingresso degli inferi.
Era, ovviamente, un frutto gradito agli abitanti di tutta la Campania. Sitrova raffigurato anche in un affresco ritrovato nella Casa dei Cervi di Ercolano.
Secondo Plinio il Vecchio, il ciliegio fu importato dal Ponto ( in Turchia) dopo il 74 a.C. dal console Lucio Licinio Lucullo e nei successivi 120 anni si espanse per buona parte delle regioni italiane.
Tuttavia è da dire che i semi di alcune specie di ciliegie sono stati ritrovati anche in siti europei risalenti al 1500 – 1100 a.C
L’albero di pesco, originario della Cina, giunse dapprima in Persia (donde deriva il nome della specie) e grazie ad Alessandro Magno si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo, e frutto arrivò a Roma nella seconda metà del I sec. a. C.
L’albicocco è anch’esso originario della Cina nord- orientale. Dall’ Asia centrale arrivò in Armenia e venne scoperto da Alessandro Magno. Lucullo lo introdusse in Italia verso il 70 – 60 a .C.
Ma la sua maggiore diffusione nel bacino mediterraneo fu dovuta agli Arabi e dalla loro lingua deriva anche il nome : Al- barquq.
Il vino migliore si produceva nell’Ager Falernus e sulle pendici del monte Massico, mentre quello prodotto nelle zone limitrofe alla città risultava essere di qualità inferiore per la notevole umidità dei terreni, tanto che per preservare la vite, essa veniva sospesa fra due pioppi o fra due olmi, raggiungendo 10-15 metri di altezza. Il sorreggere le viti legandole ad altri alberi sembra derivare dalla pratica già in uso presso gli Etruschi, validi coltivatori viticoli, diffusasi, poi, nelle aree soggette alla loro influenza. Ne risultava un vinello di scarsa alcolicità.
Oggi, è noto come l’Asprino d’Aversa, vitigno di incerta origine dal quale si ricava vino bianco prodotto esclusivamente nella zona aversana, ha avuto celebri estimatori: lo scrittore Mario Soldati, il giornalista Paolo Monelli, e dal celebre Luigi Veronelli, e può fregiarsi del marchio Doc.
Inoltre, fin dai tempi dei re Angioini, fu considerato come buona base per spumanti e, infatti, oggi vengono prodotti spumanti“ demi – sec ” e “ brut ”.
L’ulivo, pianta portata in Italia dai Greci, era presente sulle colline intorno alla città e la produzione era così abbondante che Capua divenne un importante centro per il commercio dell’olio ottenuto per spremitura.
Esso veniva regolarmente usato nella cucina romana come condimento. Anche le sole olive erano molto richieste e come dice Marziale costituivano l’inizio e la fine di ogni pasto.
Per il fabbisogno della popolazione, si allevavano le pecore da cui trarre lana, latte e carne; le capre per il latte, la carne ed il vello dal quale era possibile ottenere anche tessuti pregiati; i maiali e gli animali da cortile come galline, oche, anatre, conigli … Maiali e agnelli venivano forniti anche al mercato di Roma.
Ovviamente veniva praticata sia la caccia, nei boschi prossimi alla città, ricchi di selvaggina, sia la pesca, nel Volturno e nel vicino Tirreno, mare abbondante di specie ittiche: sogliole, triglie, anguille, murene, seppie, calamari,…mentre pesci di specie più pregiate venivano allevati in vivai: orate, spigole, e le ostriche “ vanto delle mense opulente”.
Famoso, durante l’epoca imperiale, il vivaio di Sergio Orata presso Lucrino.
La tradizione equestre ereditata dall’aristocrazia etrusca, e il valore della cavalleria capuana riconosciuta da tutti, aveva reso importante l’allevamento dei cavalli campani, animali di non grande taglia, ma resistenti alle fatiche, agili e veloci, apprezzati in tutto il mondo antico.
Tito Livio ci tramanda, (U.C. XXVI,4) un episodio dal quale si nota facilmente che la bravura dei cavalieri capuani era superiore a quella dei romani.
Al tempo di Annibale, durante l’assedio a cui la città fu sottoposta da parte dei romani, nel 212 e nel 211, Quinto Navio primo centurione della legione (centurione primus pilus) per poter avere ragione dei cavalieri capuani, dovette ricorrere ad un singolare espediente: fece accompagnare ogni cavaliere romano da un legionario robustissimo e veloce; a costui fu dato uno scudo leggero e sette giavellotti lunghi quattro piedi (120 cm.,circa) con punte di ferro simili a quelle che stanno sulle lance dei veliti (legionario armato alla leggera).
Il legionario era seduto contrapposto al cavaliere. In tal modo, al momento propizio, il velite, saltando dal cavallo, facilmente riusciva a colpire, con la sua lancia, gli arditi cavalieri capuani.
curato da Salvatore Romano