La Congiura dei Baroni
La “Congiura dei Baroni” del 1485 segnò profondamente il Regno di Napoli ed i suoi successivi destini. In particolare, gli effetti deflagranti sul tessuto sociale meridionale furono di portata tale che ancora oggi se ne scorgono gli effetti. Il grande affollamento di Napoli e l’impoverimento delle campagne furono alla base della “questione sociale” napoletana, con il sottoproletariato urbano diviso dagli altri ceti da un’incomunicabilità totale.
Tornando alla cronaca, l’alleanza con Firenze di Lorenzo dei Medici si dimostrò vantaggiosa per Ferrante e per le sorti del Regno di Napoli, tanto che nel 1483 Ferrante nominò Lorenzo il Magnifico Camerario del Regno. Un titolo più che altro onorifico, per colui che più di ogni altro si dimostrerà buon alleato del re di Napoli. Commenta lo storico Ernesto Pontieri: «Ferrante, ritrovò nella lega con Firenze un baluardo contro le forze nemiche della sua dinastia, che come è noto, erano il baronaggio infido e riottoso all’interno e i pretendenti stranieri all’esterno; e quanto valido per lui fosse l’aiuto de’ Medici, egli sperimentò durante la congiura dei baroni, che nel biennio 1485-87 scosse con tremenda violenza le basi del suo trono … ai patti convenuti a Napoli nel 1480 si conservarono fedeli entrambi i contraenti, l’Aragonese e il Medici. E in realtà, finché vissero, nessuno violò i confini d’Italia».
Ben presto ricominciarono i guai per il Regno di Napoli, già dissanguato ed immiserito dalle continue guerre. I Turchi, nonostante i trattati sottoscritti, erano infatti sbarcati ad Otranto e di là minacciavano tutto il regno. Ferrante fu costretto ad allestire un corpo di spedizione per fermarli, al comando di suo figlio Alfonso.
La storiografia, soprattutto quella post-unitaria, ha spesso puntato il dito contro la carenza di strade di comunicazione nel Regno di Napoli, senza però tener conto che le continue incursioni turche, che si sono protratte nei secoli, avevano indotto a considerare le strade un pericolo, ossia una facilitazione da non offrire all’avanzata nemica, che avrebbe minacciato anche il resto dell’Italia.
Ferrante chiese aiuto agli altri Stati, facendo leva sul fatto che l’invasione turca costituisse un pericolo per tutti. Riuscì ad accordarsi con il papa e ottenne ben 10.000 ducati d’oro da Firenze in cambio dei territori occupati in Toscana e della cessione di Siena. Venezia decise invece di rimanere neutrale, in quanto il re di Napoli si era rifiutato di concederle un caposaldo sulle coste pugliesi. L’incarico di venire a patti con i Turchi fu affidato a Niccolò Sadoleto, ambasciatore estense presso Napoli, che però non riuscì a concordare una soluzione pacifica a causa delle pretese turche, sicché la riconquista di Otranto fu operata militarmente con l’aiuto di Firenze.
Ferrante, subito dopo, intervenne nella guerra di Ferrara, al fianco del duca, suo genero, attaccato da Venezia. Questa allora occupò Gallipoli con truppe comandate dal duca di Lorena, Renato II, ennesimo pretendente al trono di Napoli in virtù dei suoi legami con gli Angioini: ancora una volta fu Firenze a venire in soccorso dei Napoletani.
Questo succedersi di avvenimenti aveva intanto fatto riemergere il mai sopito spirito di ribellione dei baroni che, esasperati dai tributi, temevano per i loro possedimenti e per i loro privilegi. Dopo quanto era successo ad Otranto e dopo la riconquista di Gallipoli, Ferrante aveva infatti in programma un radicale capovolgimento di tutta l’organizzazione del regno in senso antifeudale. I grandi feudatari del regno consideravano i loro privilegi come dei diritti ereditari, che risalivano molto spesso alla fine dell’impero romano e al periodo longobardo. In altre parole, non si consideravano secondi al re, ma “pari”, e Ferrante era pur sempre un figlio illegittimo di Alfonso il Magnanimo, che aveva sottomesso il Regno con la forza. Verso la figura di Ferrante, essi nutrivano pertanto addirittura un senso di “superiorità”. I feudatari avevano propri eserciti di mercenari e assoldavano bande di briganti. Essi erano divenuti veri e propri arbitri della corona, se si pensa che Alfonso di Aragona il Magnanimo aveva dovuto chiedere ai Sedili la ratifica per la successione al trono per Ferrante.
Ferrante, insofferente ed altero, mirava invece al potere assoluto, e già alla fine della guerra contro Giovanni d’Angiò, aveva imprigionato baroni ribelli, confiscandone i beni. Così si spiega perché si unissero ai congiurati anche importanti dignitari di corte come il segretario del re Antonello Petrucci e il ministro Francesco Coppola conte di Sarno.
L’occasione della congiura fu data dall’elezione a papa di Innocenzo VIII, a cui i baroni subito si rivolsero, aizzandolo contro Ferrante. D’altronde, il principe ereditario Alfonso si era reso subito inviso al nuovo pontefice, reclamando l’annessione al regno di Napoli di Pontecorvo, Benevento e Terracina. Il papa rifiutò, e allora Ferrante sospese l’omaggio dovuto alla Chiesa, e attuò severe misure fiscali nei confronti dei beni ecclesiastici. I baroni decisero di sfruttare questo antagonismo e nei primi mesi del 1485 si rivolsero al papa Innocenzo nella sua veste di sovrano feudale del regno di Napoli, chiedendo che dichiarasse decaduto Ferrante.
Il conflitto armato scoppiò il 26 settembre del 1485 all’Aquila, dove il presidio napoletano fu scacciato e venne issato il vessillo dello Stato Pontificio. Il 14 ottobre di quello stesso anno Innocenzo VIII si dichiarò apertamente contro il sovrano napoletano, chiedendo anche ai Veneziani di intervenire. La Serenissima, e gli altri stati italiani, invece preferirono rimanere neutrali, considerando la congiura una questione prettamente locale.
Le milizie baronali presero l’iniziativa, passando all’offensiva. Quasi tutti gli appartenenti al patriziato napoletano facevano parte dei congiurati, compresi quelli che occupavano le più alte cariche dello stato. I maggiori esponenti della congiura furono Antonello Sanseverino principe di Salerno, Pietro Guevara conte di Ariano, Pirro del Balzo principe di Altamura, Francesco Coppola conte di Sarno, Francesco de Petruciis o Petrucci conte di Carinola, figlio primogenito di Antonello, nonché esponenti delle famiglie Acquaviva e Caracciolo. Il capo era Roberto Sanseverino, il barone più potente del reame, imparentato con altre importanti famiglie che, fra l’altro, alla prova si dimostrò un inetto.
Il re inviò a Roma il figlio cardinale Giovanni per far recedere il pontefice dalle sue decisioni, ma il giovane cardinale d’Aragona mori prima di poter portare a termine la missione. Ferrante cercò anche di venire a patti con i congiurati che però, anziché dargli ascolto, tentarono di farlo prigioniero. Il re, allora, chiese aiuto a Milano e Firenze, mentre giungevano truppe anche dall’alleata Ungheria dalla Spagna.
Il 7 maggio del 1486, Roberto Sanseverino fu sbaragliato da Alfonso, duca di Calabria, a Montorio, mentre truppe ungheresi dirigevano su Ancona. I baroni cercarono di offrire la corona al secondogenito di Ferrante, Federico, ma questa mossa si rivelò doppiamente sbagliata, perché persero anche l’appoggio di Renato II di Lorena. I baroni si arresero. Il pontefice fu costretto a trattare con i plenipotenziari napoletani Gian Giacomo Trivulzio e Giovanni Pontano. Ferrante assicurò al papa la salvezza dei baroni ribelli, e il ripristino della Chinea. Così nel settembre del 1485 ci fu la Riconciliazione di Miglionico.
Ma Ferrante celava propositi di vendetta ed aspettò quasi un anno per attuarla. Il 13 agosto del 1486 il re invitò tutti i baroni al matrimonio di sua nipote Maria Piccolomini, in Castel Nuovo. Furono accolti in pompa magna e, quando furono riuniti tutti nella Gran Sala, il castellano Pascasio Diaz Garlon li dichiarò tutti in arresto. Le prigioni di Castel Nuovo non furono sufficienti: Antonello Petrucci fu messo nel forno del castello, il conte di Sarno nella Fossa del Miglio, il Policastro e Aniello Arcamone nel forno della Torre di San Vincenzo. Contemporaneamente si operavano arresti nelle varie province del Regno.
I baroni furono processati il 3 novembre nella «Camera delle Riggiole» dal tribunale presieduto da Alfonso, duca di Calabria, e composto da quattro dottori e da quattro nobili [1]. I figli del Petrucci furono giustiziati a Piazza Mercato, Petrucci stesso fu decapitato l’11 maggio del 1487 davanti a Castel Nuovo. Gli altri furono invece in seguito liberati nel 1498. La catena degli arresti non si fermò, e nel 1487 furono imprigionati molti altri baroni ribelli [2].
Il comportamento del re indusse il papa, in occasione del concistoro dell’11 settembre del 1489, a dichiararlo decaduto dal trono di Napoli. La cosa non ebbe però alcun effetto pratico ed il pontefice addivenne ad un nuovo accordo con il re: il papa ottenne di essere l’unica autorità in tema di nomina dei vescovi. Ferrante si impegnò a liberare i baroni prigionieri ed a pagare alla Chiesa un censo feudale di 50.000 ducati. Il pontefice da parte sua riconobbe Alfonso quale legittimo successore al trono di Napoli.
Note
[1] i conti di Venafro, di Capaccio, di Popoli e di Brienza
[2] tra i quali il conte di Morcone Gaetani, fatto arrestare da suo padre il conte di Fondi, il conte di Melito Sanseverino, il nobile Salvatore Zurlo, fra’ Paolo di Sant’Agostino, il principe di Altamura Pirro del Balzo, il principe di Bisignano Geronimo Sanseverino, il duca di Melfi Giovanni Caracciolo, il conte di Ugento Anghilberto del Balzo, il conte di Lauria Bernardo Sanseverino e la vecchia contessa. Nel 1491 gli Orsini furono rinchiusi nella fortezza di Gaeta.
Alfonso Grasso
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