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La dichiarazione dei diritti dell’uomo: un’invenzione della Rivoluzione francese?

Posted by on Ott 16, 2023

La dichiarazione dei diritti dell’uomo: un’invenzione della Rivoluzione francese?

Un pregiudizio da superare
Quando si parla di diritti dell’uomo si è portati a pensare che si tratti di una recente conquista della storia dell’umanità che trova uno dei momenti fondamentali della sua affermazione nella Rivoluzione francese. È realmente così? Non è stato piuttosto lo spirito di radicale rottura con il passato e con la tradizione precedente, che ha animato la stessa Rivoluzione, a far nascere l’idea secondo la quale la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino fosse il prodotto totalmente nuovo delle menti dei rivoluzionari?

Non bisogna dimenticare, infatti, che la rivoluzione fin dalle prime mosse si caratterizzò per un rifiuto totale del passato e per l’intenzione di costruire razionalmente e completamente da capo la società, pretendendo in questo modo di creare un uomo nuovo. Tale convinzione era già presente nel saggio di Seyes, Che cos’è il terzo stato?, in cui egli, nel gennaio del 1789, quindi prima ancora che scoppiasse la rivoluzione, “pronunciava già una condanna globale di quella “notte”, – che erano state le epoche precedenti – contrapposta al giorno che stava nascendo” (Francois Furet, Il secolo della Rivoluzione, ed. Rizzoli, Milano 1989, p. 15). La stessa convinzione continuava ad essere presente nei discorsi del 1794 di Robespierre: “Vogliamo, in una parola, adempiere ai voti della natura, realizzare i destini dell’umanità, mantenere le promesse della filosofia, liberare la provvidenza dal lungo regno del crimine e della tirannide” (Discorsi di Maximilien Robespierre, in I Giacobini, a cura di Ida Cappiello, Firenze 1978, La Nuova Italia). Pertanto tutto ciò che precedeva l’azione rivoluzionaria era da considerarsi privo di valore e da rifiutare in quanto facente parte di un’epoca di barbarie, l’Ancien Regime: “La Rivoluzione francese battezzò ciò che soppresse: lo chiamò Ancien Regime. Con quel nome, più che definire quanto essa aboliva, essa esprimeva ciò che voleva essere: una rottura radicale col passato, ricacciato nelle tenebre delle barbarie” (Francois Furet, Il secolo della Rivoluzione, ed. Rizzoli, Milano 1989, p. 15).
Tale pregiudizio di fondo che guidò e caratterizzò la rivoluzione francese è come se fosse sopravvissuto, grazie anche al contributo di quella parte della storiografia laicista che ha cercato in tutti i modi di svalutare il fondamentale apporto cristiano alla formazione dell’attuale civiltà occidentale. Riguardo al problema della dichiarazione dei diritti dell’uomo ciò ha impedito fino in fondo di coglierne le sue origini e il suo fondamento nella storia precedente alla Rivoluzione stessa. Occorre pertanto superare tale pregiudizio ideologico e recuperare a pieno la ricchezza propria della tradizione cristiana anche per quanto concerne il riconoscimento e l’affermazione dei diritti dell’uomo.

L’origine cristiana dei diritti dell’uomo
Un semplice sguardo al contenuto della stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, non può non rilevare come tali diritti hanno la loro origine nella tradizione cristiana: “Scorrendo la famosa Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, con le sue affermazioni universali circa il fatto che tutti gli uomini nascono uguali e liberi, che debbano essere garantiti in questa libertà, che esiste una fraternità naturale fra gli uomini, ci si accorge che non dice in realtà nulla di nuovo […] si tratta di valori tradizionali, che non nascono certo nelle aule dell’Assemblea degli Stati generali dell’agosto del 1789” (Luigi Negri, Contro storia, ed. San Paolo, Cinisello B. 2000, p. 93). Non si può comprendere la dignità assoluta, che nel corso dei secoli è stata riconosciuta alla persona, se non si tiene conto del fatto che è “dapprima nell’ordine religioso e per l’improvvisa irruzione del messaggio evangelico che codesta trascendente dignità della persona umana s’è resa manifesta” e che “ha conquistato a poco a poco la sfera dell’ordine naturale stesso, penetrando e rinnovando la nostra coscienza della legge di natura e del diritto naturale” (Maritain, I diritti della persona, p. 67).
Il contenuto proprio dell’esperienza cristiana ha lentamente e progressivamente plasmato la società, magari senza proclami e a volte forse senza neanche accorgersene, ma di fatto consentendo il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona. Un esempio significativo a questo proposito è quello relativo alla libertà personale e all’abolizione di fatto della schiavitù: “Notiamo che la Chiesa non si è levata contro l’istituto della schiavitù come tale, in quanto necessità economica delle civiltà antiche. Ma ha lottato perché lo schiavo, trattato sino ad allora come una cosa, fosse considerato come un uomo e possedesse i diritti propri della dignità umana; una volta ottenuto questo, la schiavitù si trovava praticamente abolita; l’evoluzione fu facilitata dai costumi germanici, presso i quali vi era una forma di schiavitù molto addolcita; la commistione diede luogo alla servitù medievale, che rispettava i diritti dell’essere umano, conservando come unica limitazione alla sua libertà il vincolo alla terra” (Règine Pernoud, Luce del Medioevo, ed. Gribaudi, Milano 2000, pp. 100-101). Vincolo alla terra che se da un lato era una limitazione, dall’altro era considerato in qualche modo un privilegio “poiché, se [il servo] non può lasciare il fondo che ha in godimento, questo non gli può nemmeno essere tolto” (Idem, p. 50). Inoltre, occorre sottolineare che tale limitazione quando costituiva un grave impedimento all’esercizio della libertà personale, come quando vietava di fatto la possibilità di sposare qualcuno di un altro feudo, fu contestata da parte della Chiesa: “la Chiesa non smise di protestare contro questa violazione dei diritti familiari, che infatti dal X secolo in poi andò attenuandosi; si stabilì in sua vece l’usanza di reclamare un’indennità pecuniaria dal servo che lasciava il feudo per sposarsi in altro e nacque il famoso “diritto signorile” [il così detto ius primae noctis] sul quale si sono dette tante sciocchezze:era soltanto il diritto ad autorizzare il matrimonio dei propri servi” (Idem, p. 52). Significativo è il fatto che la schiavitù, nel senso proprio del termine, ricomparirà nel XVI secolo con il riaffermarsi del diritto romano, quindi in epoca moderna, quando ormai l’influenza della Chiesa sulla mentalità comune incominciava a venire meno.
Comunque mano a mano che questo modo di trattare ogni uomo, per il semplice fatto di essere uomo, come persona dotata di diritti, entrava a fare parte delle consuetudini su cui si reggeva la società, si sviluppò anche una riflessione filosofica-teologica sul fondamento di tale concezione. A questo riguardo non si può certo ignorare l’importanza della riflessione filosofica di s. Tommaso, il quale indagando razionalmente l’uomo ha evidenziato l’esistenza di una legge naturale, di uno statuto ontologico proprio della natura umana, senza il quale non sarebbe stato possibile parlare di diritti universali dell’uomo. Aspetto questo di radicale differenza, ad esempio rispetto alla cultura araba, dove non si sviluppò questa riflessione di carattere filosofico sulla natura dell’uomo e pertanto si riconobbe come valido il solo diritto positivo, insito nella rivelazione coranica, rendendo di fatto ancora oggi difficoltoso il discorso intorno ai diritti dell’uomo. Tale riflessione sull’uomo portò ad individuare e a riconoscere, ben prima della Rivoluzione francese, la libertà come diritto naturale di tutti gli uomini e insieme ad essa l’importanza della libertà di coscienza, affermata spesso erroneamente come conquista assoluta della modernità. A testimonianza di ciò si veda quanto afferma nel 1539 Francisco de Vitoria citando s. Tommaso, a riguardo della libertà degli uomini: “come dice bene s. Tommaso, per diritto naturale gli uomini sono tutti liberi […]” (Francisco De Vitoria, Relectio de indis, la questione degli indios, ed. Levante, Bari 1996, p. 36); e riguardo all’opportunità o meno di convertire a forza i pagani: “s. Tommaso sostiene che i pagani non devono essere costretti ad abbracciare la fede, “poiché il credere è proprio della volontà” (Summa theol. IIa IIae, q. 10, art. 8)” (Idem, p. 101).

La dichiarazione dei diritti duecento anni prima

D’altra parte è sufficiente osservare la storia, senza quel pregiudizio sul passato, che abbiamo visto essere proprio della Rivoluzione francese, per rendersi conto che, non solo quei diritti erano vissuti come valori propri della tradizione cristiana, ma che, quando le circostanze lo richiesero, furono anche affermati e dichiarati come tali ben prima dell’avvento della Rivoluzione. L’esempio più chiaro di ciò proviene proprio da uno di quei momenti più contestati dalla storiografia laicista, ovvero la scoperta e la conquista delle Americhe.
Di tale evento sono stati spesso ricordati solo i soprusi perpetrati ai danni degli indios, sottolineando che essi avvennero in nome della religione, finendo invece per dimenticare completamente un fatto molto importante: la scoperta dell’America, oltre ad essere stata occasione di scontro fu anche autentica occasione di incontro tra civiltà. Soprattutto si è finito per dimenticare che gli stessi soprusi furono oggetto di denunce, di discussione e che la Chiesa prese da subito le difese degli indios. “Di fronte alle deviazioni la voce della Chiesa si è levata dal primo momento attraverso la denuncia da parte dei missionari, le elaborazioni dottrinali dei teologi e dei giuristi nelle università e la sollecitudine dei sovrani spagnoli, che promulgarono molteplici leggi in difesa degli indios” (Francesco Pappalardo, Una mostra in Vaticano “¡Nuevo Mundo! 1492-1992”, in Cristianità n. 218).
Una lettura attenta e non ideologica della storia deve riconoscere come la questione degli indios fece sì che si ponesse, forse per la prima volta nella storia, il problema dei diritti dell’uomo con chiarezza e rigore. Già all’interno delle disposizioni ai Governatori delle Indie della Regina Isabella troviamo infatti, a tutela degli indios, riferimenti espliciti ai diritti dell’uomo: “raccomando di tutelare in ogni momento quelli che oggi chiamiamo i diritti della persona […] È necessario che gli indiani siano informati riguardo alla nostra Santa Fede, perché ne vengano a conoscenza […] ma senza esercitare su di essi alcuna pressione” (Istruzioni della Regina Isabella a Nicolas de Ovado, Governatore delle Indie, 1501 – tratte dal Catalogo della Mostra: Al di la del mare, a cura di Fidel Gonzales, Claudio Grotti, Marina Valmaggi, Meeting per l’Amicizia fra i Popoli, 1992).
Ruolo centrale nella formulazione di una teoria del diritto naturale in difesa degli Indios fu svolto da Francisco de Vitoria, importante teologo presso la prestigiosa Università di Salamanca. Qui all’interno di alcune celebri relectio (ovvero relazioni o lezioni straordinarie che i professori dell’Università di Salamanca avevano l’obbligo di tenere davanti ad un pubblico di docenti e studenti), affrontò il problema degli indios e quello della legittimità della corona spagnola ad occupare le terre del Nuovo Mondo. In particolare la relectio più celebre a questo riguardo fu quella del 1539 (Relectio de indis), in cui arrivò a formulare la piena dignità di ogni essere umano in quanto immagine di Dio, come viene evidenziato da Lamacchia nell’introduzione all’edizione italiana della Relectio de indis:”ogni essere umano pertanto, in quanto immagine di Dio, a Lui somigliante, è portatore per natura, prima di ogni positiva aggiunzione, di diritti naturali soggettivi” (Ada Lamacchia, Introduzione a F. De Vitoria, Relectio de indis, la questione degli indios, ed. Levante, Bari 1996, p. LXVIII). In altri termini l’aspetto della razionalità, ciò che rende l’uomo immagine e somiglianza di Dio, è riscontrabile anche negli indios, il che li fa a tutti gli effetti portatori di diritti naturali soggettivi, “veri domini“. D’altra parte già un documento pontificio, la bolla Sublimis Deus, di Paolo III, nel 1537, aveva riconosciuto la piena dignità umana, smentendo le teorie circa la presunta non umanità degli Indios, vietando, così, ogni forma di schiavitù.
I diritti naturali che Francisco de Vitoria riconosce agli indios, in quanto uomini, cioè creature fatte ad imagine e somiglianza di Dio, sono quelli presenti nelle dichiarazioni moderne: diritto alla vita (“per diritto naturale ogni uomo ha diritto alla vita, all’integrità fisica e psichica”), alla libertà (“per diritto naturale tutti gli uomini sono liberi e nell’uso di questa libertà fondamentale gli indios si costituiscono liberamente in comunità e liberamente scelgono i propri governanti”), alla libertà religiosa (“gli indios hanno diritto a non essere battezzati o costretti a convertirsi al cristianesimo contro la propria volontà”), alla sicurezza (“per solidarietà umana e a tutela di quegli indios che, innocenti o indifesi, sono ancora sacrificati agli idoli, o sono assassinati per mangiarne le carni, gli Spagnoli non possono abbandonare le Indie finché non abbiano realizzato scambi politici e commerciali necessari a far terminare quel regime di terrore e repressione”), ecc.
Non bisogna dimenticare che queste affermazioni di Francisco de Vitoria, in cui anche Vittorio Possenti ha riconosciuto “la prima traduzione” dei diritti umani (Cfr. Gianni Santamaria, I diritti umani? Li ha scritti Mosè, in “Avvenire”, 06/02/02), trovano il loro fondamento nell’intera tradizione cristiana. Infatti, è fondandosi sul principio evangelico dell’uguaglianza di tutti gli uomini, in quanto figli di Dio, creati a sua immagine e somiglianza, e sulla teoria del diritto naturale elaborata a partire dalla riflessione filosofica di s. Tommaso (il cui pensiero Francisco de Vitoria aveva ripreso sistematicamente e posto al centro del suo insegnamento) che egli elaborò quella che potremmo chiamare la prima Carta dei diritti. Essa risulta straordinaria non solo per la sua modernità, ma anche per il coraggio con cui fu divulgata e propugnata presso il Real Consiglio delle Indie e presso la Santa Sede.

Alcune ambiguità di fondo presente nella Dichiarazione della rivoluzione francese
Una volta chiarito come il contenuto stesso della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino non fosse un’invenzione della Rivoluzione francese, ma avesse la sua origine nella ricchezza della tradizione cristiana, occorre ancora fare un’ultima annotazione: la stessa dichiarazione presenta una certa ambiguità di fondo.
La dichiarazione francese presenta quei diritti, che abbiamo visto avere radici cristiane, rinnegandone però il proprio fondamento ultimo in Dio: “La Dichiarazione francese dei Diritti dell’uomo ha presentato questi diritti (pur tuttavia portandovi l’equivoco) nella prospettiva razionalistica della filosofia illuministica e della Enciclopedia. La Dichiarazione americana, per rimarchevole che sia in essa l’influenza di Locke e della “religione naturale”, era rimasta più vicina al carattere originalmente cristiano dei diritti umani” (Jaques Maritain, I diritti della persona, p. 73).
Il fondamento su cui si era precedentemente costruito la dignità della persona, ovvero il rapporto con l’assoluto, con Dio, (l’essere creata ad immagine e somiglianza di Dio) viene meno e viene sostituito dalla legge, dalla volontà generale, come risulta chiaro anche dal confronto che Furet istituisce con la Dichiarazione americana: “Ciò che differenzia più nettamente la dichiarazione francese dai testi americani concerne il rapporto di quei diritti naturali con la legge positiva. Nel precedente americano si presumeva che tali diritti fossero anteriori alla società e in armonia con il suo sviluppo; e del resto essi appartenevano anche al passato della nazione […] Al contrario,nella Francia del 1789 si metteva l’accento su un certo volontarismo politico: a suprema garante dei diritti veniva posta la legge, prodotta dalla nozione sovrana […] L’ispirazione dominante dei Costituenti francesi è “legicocentrista”, ed è caratterizzata fin dal primo momento dall’idea di una “volontà generale” invocata a definire la sfera dei diritti e le modalità del loro esercizio, oltre che dal rifiuto di riconoscere, in quella materia, altra autorità che quella sovrana” (Francois Furet, Il secolo della Rivoluzione, p. 97). Il rischio di tale impostazione legicocentrica è quello di una relativizzazione degli stessi diritti: si rischia, cioè, che possano essere limitati e applicabili solo a certe categorie di soggetti, perdendo quindi il loro carattere assoluto, secondo quanto la volontà generale delibera. L’uomo secondo questa impostazione si viene a trovare a godere di quei diritti che gli sono concessi dalla volontà generale, ossia dal potere politico, secondo i limiti stabiliti dallo stesso potere. Pertanto il diritto ad esistere o alla proprietà privata è riconosciuto solo a quei soggetti che la stessa volontà generale, il potere politico, ritiene utili al bene comune e soprattutto non dannosi ad esso. Per questo motivo gli ordini religiosi contemplativi, non avendo alcuna utilità per la società possono essere soppressi dai rivoluzionari, senza avvertire alcuna contraddizione rispetto alla Dichiarazione; per lo stesso motivo i nemici o addirittura soltanto i sospetti nemici della Rivoluzione possono essere eliminati, ignorando totalmente i loro più fondamentali diritti. Con la soppressione del fondamento in Dio viene meno quel carattere assoluto riconosciuto alla persona umana, quell’aspetto di trascendenza della persona rispetto a qualsiasi ordinamento politico o sociale, garantito dal fatto che “essa è una totalità spirituale fatta per l’assoluto” (Jaques Maritain, I diritti della persona, p. 68).
Un secondo aspetto che costituisce l’ambiguità di tale Dichiarazione è costituito dal fatto che tali diritti sono attribuiti a soggetti che sono concepiti astrattamente come individui, svincolati da qualsiasi rapporto. Non solo si nega il rapporto fino a quel momento costituente i diritti stessi, ossia il rapporto originario con Dio, ma si vuole anche negare al soggetto la legittimità di qualsiasi rapporto sociale, che non sia istituito e voluto dalla sfera politica stessa. “La novità è che [i diritti] vengono attribuiti a un soggetto individuale che non appartiene più alla realtà del popolo cristiano e si concepisce come caratterizzato da una profonda autosufficienza e da un’assoluta autonomia” (Luigi Negri, Il grande inganno, in “Tracce”, dicembre 2001, n. 11, p. 25). Con la Rivoluzione francese si ha, cioè, la nascita dell’individualismo moderno. Volendo eliminare “la società aristocratica che la monarchia assoluta aveva costruito alla meglio sulle rovine del feudalesimo” (Francois Furet, Il secolo della Rivoluzione, p. 95) si finisce per eliminare in toto la società stessa, ovvero la possibilità di rapporti sociali preesistenti a quelli istituiti dal potere politico: “Ciò che nasceva era la moderna società degli individui nella sua concezione più radicale: tutto ciò che potesse frapporsi, e fare da intermediario, fra la sfera pubblica e i singoli protagonisti della vita sociale era non soltanto soppresso, ma condannato […] L’odio per la società aristocratica portò gli uomini della Rivoluzione francese a bandire le associazioni in nome di un radicale individualismo: due anni dopo [1791], la legge Le Chapelier lo avrebbe solennemente confermato col suo divieto delle associazioni” (Idem, p. 95). La stessa Costituzione Civile del clero non è stato che il tentativo di inglobare e sottomettere completamente al potere politico quella particolare realtà sociale che era la Chiesa, che fino ad allora aveva rappresentato lo scheletro stesso della società francese, ma che, da quel momento in poi, doveva essere ricostruita da capo secondo le intenzioni del potere politico: “L’ordine religioso veniva così allineato con quello civile, e l’edificio della Chiesa, ricostruito sul modello di quello statale, posava su una sovranità costituzionale la cui legittimazione risiedeva nell’elezione popolare; ogni vincolo con il papato era stato spezzato, la Chiesa, ormai dipendeva interamente dal potere temporale” (Idem, p. 108).
A conclusione di questa nostra ultima annotazione riguardo l’ambiguità della Dichiarazione francese, si può affermare che: se da un lato in essa emergono i diritti che sono tutt’oggi a fondamento delle democrazie (non inventati ma più o meno consapevolmente recuperati dalla tradizione precedente), dall’altro la rivoluzione francese, non solo non eliminava l’assolutismo, ma di fatto lo rafforzava consegnando all’Assemblea Legislativa un potere decisamente più assoluto di quello che aveva avuto il monarca stesso fino allora. Il potere del monarca, anche dopo Luigi XIV, aveva avuto sempre dei limiti: innanzitutto, quella “limitazione essenziale rappresentata da un potere più grande, in confronto al quale anche i monarchi non sono nulla” (Idem, p. 16), ossia il potere di Dio; in secondo luogo quell’insieme di consuetudini che si erano consolidate nella storia della società francese, quali ad esempio “la regola della successione per ordine di primogenitura maschile, la fede cattolica del sovrano, il rispetto della libertà e della proprietà dei sudditi, l’inalienabilità dei beni reali” (Idem, p.16). In sintesi il re di Francia non era un tiranno, e pertanto esercitava il suo potere riconoscendo un potere e una società preesistente entrambe da rispettare nella sua azione. Certamente, come non manca di sottolineare lo stesso Furet, da Luigi XIV in poi si era andata sempre più affermando una concezione assolutistica del potere, per cui si tendeva sempre più a divinizzare lo stesso re e ad accentrare nelle sue mani il potere, attraverso un crescente apparato amministrativo statale. Tale tendenza assolutistica venne però portata a compimento solo con il passaggio del potere all’Assemblea che risultava svincolata da quelle limitazioni che abbiamo visto essere proprie del potere monarchico. Ancora una volta le parole di Furet possono aiutarci a meglio comprendere quanto affermato: “Il 1789 aveva segnato l’avvento di due nuove concezioni: da un lato, quella dell’homo democraticus, nel pieno senso moderno: libero in tutto ciò che la legge non vieta, uguale a qualunque altro suo simile; dall’altro, quella di un potere sovrano fondato su quell’idea ed espressione di una volontà generale assoluta ed autonoma quanto ciascuna delle volontà individuali da cui procedeva. La rivoluzione aveva scongiurato il pericolo di una parcellizzazione che annullasse gli individui nella società reinventando una sovranità altrettanto indivisibile e inalienabile quanto quella del re, ma più potente ancora, perché non aveva nessuno – neppure Dio – al di sopra di sé; e perché emanava dal popolo, o dalla nazione, in cui era custodita, allo stato latente, fino al momento del contratto costituzionale” (Idem, p. 124).

Luporini Giulio

fonte

https://www.culturacattolica.it/cultura/storia/moderna/la-dichiarazione-dei-diritti-umani

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