La Lavandaia, testimone del parto “virginale” e simbolo della purificazione
La lavandaia è un altro personaggio tipico del presepe napoletano, il settimo che raccontiamo ai lettori di Identità Insorgenti in questo “calendario dell’avvento” quotidiano, che vi accompagnerà fino a Natale. Un personaggio, la lavandaia, carico di significati e simbolismi. Di fatto la lavandaia, come altri “mestieri” rappresentati nel presepe, era una figura che esisteva nei secoli scorsi: lavava per conto terzi i panni sporchi (la culata) con cenere e sapone di piazza, usando il lavaturo, sorta di grande mastello di legno, sormontato da una tavoletta, sempre di legno, sulla quale venivano strofinati (sceriati) i panni per eliminare lo sporco.
Vediamone però il significato simbolico e come sempre che si richiama in qualche modo al paganesimo. Secondo Claudio Canzanella, in “Razzullo e la Sibilla, il presepe alle radici pagane della Sacra Rappresentazione”, ormai una sorta di bibbia presepiale per noi, la lavandaia potrebbe rappresentare la verginità di Maria, lavata dal peccato originale. Ma è anche testimone, come levatrice citata dai vangeli apocrifi, sia del parto verginale di Maria sia dell’idea della morte, intesa come madre che rigenera e purifica per far rinascere a nuova vita. “Si racconta infatti – scrive Canzanella – che tra le varie levatrici che assistevano al parto di Maria, una sola osò dubitare della verginità della partoriente. E la toccò. Subito dopo raccontò il prodigio a una donna di nome Salomè e per punizione dell’aver dubitato, le sue mani si bruciarono. Solo quando si avvicinò al bambino, le sue mani guarirono”. E’ la stessa leggenda citata da Roberto De Simone, che si richiama ai Vangeli apocrifi.
Che la lavandaia sia un personaggio “purificatore”, secondo Canzanella, è dimostrato anche dal fatto che in alcuni presepi è collocata nell’atto di stendere ad asciugare i panni del parto, candidi e puliti, a testimonianza appunto della purezza dell’evento. Due lavandaie-levatrici compaiono a fianco di Maria sin dalle prime raffigurazioni della natività come il Sarcofago di Adelphia e Valerio di Siracusa (III Secolo).
E’ d’accordo con lui Roberto De Sione (“Il Presepe Popolare Napoletano”) quando ricorda che come testimone del parto virginale di Maria, la lavandaia deriva da sacre rappresentazioni medievali, dall’iconografia orientale e da tradizioni cristiane extraliturgiche. Tant’è che, secondo lo studioso, sui presepi orientali le levatrici che stendono i panni bianchi in prossimità della natività sono più di una.
Secondo Italo Sarcone l’immagine della donna che elimina le scorie dell’umano sudiciume, è una figura ben nota anche all’Alchimia. Un emblema Atalanta fugiens, di Michael Maier, indica nella lavandaia l’esempio che il vero Alchimista deve seguire, se vuole compiere l’opera. “Recati dalla donna che lava i panni e fa’ lo stesso”.
La lavandaia è legata strettamente al fiume e al simbolismo dell’acqua e quindi, sul presepe, anche all’altra importante figura, che è quella del pescatore; di conseguenza, anche al cacciatore che con il pescatore forma una coppia in rapporto di opposizione e di complementarietà (di loro vi parleremo nei prossimi giorni).
L’acqua, ricoda Sarcone, a dire del filosofo greco Talete, è l’elemento originario di cui tutte le cose sono fatte. “E sul piano religioso nella Bibbia, proprio all’inizio della Genesi, lo spirito di Dio aleggia sulle acque; l’acqua è allora l’elemento primordiale, l’unico che c’è fin dall’inizio insieme con Dio, che non deve neppure prendersi la briga di crearlo: nella Genesi, infatti, Dio si limita a separare le acque che sono sopra il firmamento, da quelle che sono sotto il firmamento, mentre per gli altri elementi della natura si dice espressamente che Dio li creò volta per volta, come creò il Sole e la Luna, creò le creature e così via. L’acqua che cade dal cielo sotto forma di pioggia ha la funzione di fecondare la terra, promessa e garanzia di vita, ma la storia del diluvio, mediante il quale la divinità distrugge l’umanità, colpevole di troppi delitti, rivela nella maniera più chiara la fondamentale ambiguità di questo simbolo, ambiguità che, come ho detto qui, è caratteristica comune di tutti i simboli. Ma, dopo il diluvio c’è un nuovo inizio ed una nuova umanità, come accade esplicitamente nel mito greco, in cui Deucalione e Pirra ripopolano il mondo, gettandosi pietre alle spalle. Nel diluvio, quindi, l’acqua ha mostrato tutto il suo potere distruttivo ma anche il suo potere di rinnovamento, ripulendo la terra dalle iniquità degli uomini: è dunque il caso estremo dell’acqua intesa come strumento di purificazione. Si tratta del consueto trasferimento di fatti materiali sul piano spirituale, mediante quel processo mentale che si chiama analogia: dal momento che l’acqua è il mezzo normale con cui ci si lava e si tolgono le macchie materiali che deturpano la bellezza e il decoro esteriori, a questa azione di pulizia esterna può corrispondere la purificazione dal male e dal peccato sul piano interiore. Questa costellazione simbolica è contenuta nel gesto con cui il sacerdote asperge i fedeli con l’acqua benedetta e, in forma molto “abbreviata”, nel nostro uso di “bagnare” gli oggetti prima di iniziare a usarli. La lavandaia – conclude Sarcone – non è per nulla un personaggio secondario, soprattutto se tieni presente che essa è un altro aspetto di quella figura che compare in molte rappresentazioni della Natività, sia di Gesù, sia di Maria: la levatrice, che, dopo avere “levato” il bimbo dalle tenebre del grembo materno ed averlo aiutato a venire alla luce, lo lava, purificandolo dalle impurità del parto”.
Infine ci fa piacere riproporvi questo brano tratto dalla monumentale opera di Francesco De Bourcard: “Usi e costumi di Napoli e Contorni” volume I perché inquadra la figura della lavandaia nel contesto storico dell’epoca.
“Non vi è esempio migliore della lavandaia per identificare una contadina nobilitata da un lavoro che la porta in città di casa in casa a togliere o riconsegnare i panni. La si distingue per la grande sporta o immenso fagotto di biancheria, sporca o candida, che trasporta. L’abito è solitamente di taglio contadino ma ricercato: corsaletto di seta rossa o ciliestre, giubbetto e gonna con colori a contrasto, senaletto bianco e ai piedi zoccoli guarniti di nodi di nastri.
Molte lavandaie sono però, tentate dalla avvenenza della moda cittadina, tanto che più d’una “ha preso le vesti vecchie delle contadine, quelle vesti ereditate che le madri davano in dote il dì delle nozze alle loro figliuole, e le ha fatto comperare a forte prezzo dalle patrizie per foderarne i seggioloni dei loro più ricercati salotti. Vedi stranezza! I cenci d’una contadina sono il lusso di una principessa! Ma già, la seta e il broccato son altro mai che il sepolcro d’un verme. Col profitto di tale commercio la lavandaia si compra abiti da cittadina, ben meno pregiati, ma che le permettono di sentirsi meglio assimilata nella realtà metropolitana a cui ella si vuol fregiare di appartenere. A dispetto della semplice apparenza il lavoro della lavandaia è tutt’altro che banale, tanto che spesso queste sono organizzate alle dipendenze di una maestra, che è una sorta di lavandaia-imprenditrice, che ha il compito di dividere le varie raccolte di panni a seconda del genere di capo e delle necessità di nettamento.
Questa organizza il lavoro delle fanciulle sue subalterne che paga a giornata o con un tanto per cento sull’utile. Alcune lavandaie invece hanno un asino per alleggerirsi il carico o sopportare grandi moli di panni da prendere o consegnare. La settimana di lavoro della lavandaia si articola così: Lunedì: a mani vuote o con la sporta al braccio o l’asino scarico la lavandaia va a ritirare i panni sporchi presso i suoi avventori. Questi vengono conteggiati su libretti o tabelle di cartone affinché nulla vada smarrito. Martedì: la lavandaia maestra divide i panni portatele dalle subalterne e li segna con un marchio tutto suo. Alla sera i panni sono insaponati e messi in grandi vasi di terracotta o in un capace lavatoio, entrambi bucati sotto, da cui il termine bucato con cui si indica questo genere di lavaggio. Sui panni si butta quindi dell’acqua bollente che filtra attraverso i panni e sfoga dal foro sottostante generando una colata.
Mercoledì: i panni sono rinsaponati, lavati sfregandoli fin quasi alla macerazione su pietre di lastrico, quindi sciacquati con acqua pura per far perdere loro il puzzo di sapone. Quindi vengono stesi ad asciugare sperando nel sole, o cantando per invogliarne i raggi a cadere.
Giovedì: i panni si finiscono di asciugare. Venerdì: i panni sono piegati da stiratrici o soppressiere raggruppati insieme per essere riconsegnati e quindi riportati alle rispettive case, dove cameriere o padrone sovraintendono il riscontro tra quanto è uscito sporco e quanto tornato pulito e provvedono a pagare la lavandaia. Sabato: si fanno i conti degli introiti e vengono pagate le lavoratrici a giornata, dette giornaliste. Domenica: è un giorno di festa che corona la settimana di lavoro della lavandaia, buono “per acconciarsi, azzimarsi, abbellarsi, mettere il meglio che si ha, andare alla messa a sentire le pubblicazioni, pranzare all’aria aperta, correre a spasso, ballar la tarantella ed aspettar la serenata”.
Lucilla Parlato
(nella foto di Francesco Paolo Busco la Lavandaia vista da Tirri-Capuano, vico Santa Luciella, Napoli)