La mostra a Capodimonte/Napoli e Caravaggio: due anime eretiche che rifiutano di relegare la visione del mondo in uno spazio-scatola
Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, dipinge opere meravigliose e inquietanti. Anche nella sua biografia c’è inquietudine, oscurità e mistero. Nato a Milano nel 1571, vissuto poi a Caravaggio, paese d’origine della sua famiglia, compare a Roma, nel 1595, quale esperto pittore, già molto stimato da notabili e alti prelati della Roma papalina, che gli commissionano opere importanti.
Eppure, ed è molto strano, non si conosce nessuna sua opera dipinta prima del suo soggiorno romano. I critici hanno studiato a fondo le sue pitture romane e vi hanno evidenziato influenze, per quanto ipotetiche, di vari pittori lombardi esaltando, così, l’importanza della pittura lombarda. Viceversa, sono stati molto poco studiati i rapporti tra le sue pitture realizzate a Napoli e l’ambiente sociale e artistico di questa città. Anzi, ci è affrettati ad affermare soltanto l’influsso di Caravaggio sui pittori napoletani, che quindi sono stati definiti tout court caravaggeschi.
Ma ecco, a Capodimonte, fino al 14 luglio, la mostra Caravaggio Napoli, che già nel titolo “paritario” si presenta come stimolo ad approfondire questo argomento, iniziando un nuovo discorso. E che, seduttiva e spettacolare nell’allestimento, curato dallo stesso direttore della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte Sylvain Bellenger e dalla professoressa Cristina Terzaghi, può diventare una pietra miliare nella conoscenza di Michelangelo Merisi, della pittura seicentesca napoletana e, in fondo, pure di tutta la storia dell’arte.
Caravaggio arriva a Napoli nel 1606. E’ in fuga da Roma, dove è stato condannato a morte perché, in una rissa, ha ucciso un uomo. Napoli è il suo rifugio. Vi resterà per quasi un anno. Vi ritornerà nel 1609 e se ne allontanerà l’anno dopo per sfuggire a un misterioso killer; ma nella fuga, invece, troverà la morte.
Napoli, all’epoca, è una splendida capitale spagnola e la città di gran lunga la più popolosa d’Italia. In quegli anni è in piena attività anche edilizia e sta sostituendo il palazzo reale aragonese con un altro più grande e più bello, che dovrebbe accogliere Filippo III d’Asburgo, il Re, che però non vi giungerà mai. (lo stesso palazzo, ristrutturato e modificato, ora si trova nella piazza del Plebiscito, chiamata, un tempo, Largo di Palazzo)
A Napoli, all’epoca, c’è un’ampia e vivace cerchia di letterati e di artisti, tra i quali Caravaggio è accolto. E possiamo immaginarlo dialogare con loro in un proficuo scambio di idee. Si ritrovano nella Taverna del Cerriglio. Tra gli avventori, c’è gente di nobile famiglia, come il grande Giovan Battista Basile, che la dice “casa de li spasse, dove trionfa Bacco, dove si scarfa Venere e s’allonga la vita ‘e chiù ‘e cient’anne”.
Ma la taverna è frequentata anche da povera gente: è un ambiente napoletano, in cui ricchi e poveri si mischiano, perché il denaro e il ceto sociale non sono, per i napoletani di un tempo, il discrimine che li divide. Ricchi e poveri appaiono insieme, mischiati tra loro, anche nella prima opera che il pittore lombardo dipinge a Napoli: Le sette opere di misericordia.
E’ un’opera cruciale, che testimonia un cambiamento profondo nella concezione del mondo del sensibile artista lombardo. Nel dipinto c’è la rappresentazione della realtà e dell’anima di un vicolo napoletano. Le persone rappresentate, anche la Madonna, hanno la fisionomia della gente di questo popolo.
E qui Caravaggio è libero dall’impedimento della costruzione prospettica del canonico spazio-scatola di derivazione toscana. Alla quale, pur obbedendole, si era già dimostrato insofferente quando, ad esempio, nella “Sepoltura di Cristo” (Pinacoteca Vaticana), dipingeva uno spazio in diagonale, mettendo uno spigolo del sepolcro in primo piano. Qui, invece, gli spigoli delle costruzioni fanno da incerto sfondo, mentre spingono in avanti la folla portata in primo piano. E’ lei che crea la realtà dello spazio, che qui è formato dai movimenti e dai gesti di ciascuno. Non c’è bisogno di contestare lo spazio canonico criticandolo. Basta crearne un altro. Napoli e Caravaggio: due anime eretiche che, libere dal modo di pensare canonico, sono restie a immettere la loro visione del mondo nei ristretti limiti di uno spazio-scatola.
Già Antonello da Messina (1430/1479), allievo del napoletano Colantuono (1420/1460), aveva oscurato lo spazio nei ritratti e nella “Annunciata” di Palazzo Abatellis e realizzato, poi, nel “San Girolamo nello studio”, una sorta di spazio in movimento, come chiaramente testimonia, tra l’altro, il disegno delle mattonelle del pavimento. E, nei polittici di Cicino da Caiazzo e del Maestro di Sanseverino (a Capodimointe), la Madonna e i Santi hanno forme cinquecentesche ma vivono in un anomalo spazio d’oro, senza linee prospettiche (per la qualcosa i dotti li considerano arretrati).
Poi Francesco Curia (1538/1616), maestro anche di Teodoro d’Errico (1544/1610), dipinge autonomamente e racconta, nell’Annunciazione” (a Capodimonte), una sorta di sconvolgimento spaziale creato dall’annunzio dell’angelo. Le “Sette opere di misericordia” purtroppo non sono nell’attuale mostra, la quale, tuttavia, è ugualmente affascinante, come testimonia la straordinaria affluenza del pubblico, rapito dalla sua scenografia favolosa, che lo introduce in quella pittura seicentesca che scandaglia con una sensibilità “viscerale”, tutta napoletana, la sofferente anima umana.
Ma questa mostra è anche molto importante per gli studiosi. Perché, subito dopo l’arrivo a Napoli, Caravaggio, come riferisce Francesca Santucci, incomincia a “rinvigorire gli scuri”. Il che non avviene per una superficiale ragione estetica. In questo modo, infatti, lui elimina del tutto lo spazio tradizionale. E dipinge il buio. Quel buio della sua anima tormentata dal peccato e dal rimorso, quel buio da cui con forza fa risaltare i corpi illuminandoli. E sono i corpi dei Cristi ma anche quelli dei carnefici, perché la luce è vita e la vita è fatta così, di luce e ombra.
Caravaggio ora cerca soprattutto la verità e considera nei personaggi rappresentati il loro essere fatto di carne e di sangue, di energia luminosa e di buio. Sicché tende a liberare gli uomini dagli abiti, che li rinchiuderebbero in un ruolo, e ama i loro nudi robusti che a Napoli sono quelli reali dei marinai e degli scaricatori di porto.
Nella mostra vi sono anche i dipinti dei napoletani. Tra questi, almeno Battistello Caracciolo (1578/1635) e Carlo Sellitto (1581/1614) sono troppo veri e grandi artisti per essere considerati soltanto dei semplici seguaci di Caravaggio. Tra l’altro, come rivela la professoressa Terzaghi, esiste un documento di pagamento, girato da Caravaggio a Battistello, che testimonia che “il rapporto tra i due sommi pittori non può essere solamente immaginato in termini di fascinazione stilistica ma ha anche un’origine biografica e strettamente professionale”.
Possiamo anche notare che, mentre in Caravaggio c’è la tendenza a fare risaltare i corpi dal buio, in Battistello c’è una tendenza diversa, che si realizzerà più compiutamente in Bernardo Cavallino (nato nel 1616 morirà per la peste del 1656, che falcidiò anche tanti artisti napoletani). Cavallino immagina i corpi affondati nel buio, e, accarezzandoli delicatamente, con una luce amorevole, li scopre e gli dà vita.
A questo punto possiamo anche citare Picasso: “I buoni pittori copiano, i grandi rubano” e aggiungere: i sommi pittori s’influenzano l’un l’altro. Perché, se è chiara la consentaneità dei napoletani con il pittore lombardo, si dovrebbe maggiormente approfondire se e come e in quale misura dall’ambiente antropologico e artistico napoletano questi sia stato influenzato, superando la preconcetta tesi della sua pretesa immunità da influenze siffatte. Forse questo potrebbe essere per gli studiosi l’impegno che questa mostra suggerisce.
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In foto, alcuni momenti della mostra ripresi da Francesco Squeglia: all’inaugurazione, con il direttore Bellenger, anche il presidente della Regione De Luca
LA MOSTRACaravaggio Napoli al Museo di Capodimontefino al 14 luglio 2019, sala Causa (piano terra), aperta tutti i giorni dalle 8.30 alle 19.30 (compreso il mercoledì, tradizionale giorno di chiusura del Museo). La biglietteria chiude alle 18.30. Il biglietto della mostra dà diritto a un ingresso ridotto al Pio Monte della Misericordia e viceversa. Disponibili navette gratuite tra Capodimonte e Pio Monte della Misericordia messe a disposizione dal Comune di Napoli e dal Museo.
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Adriana Dragoni