La repressione sabauda e gli eccidi a sfondo razziale nel meridione
Dopo l’unificazione il presidente del Consiglio dei Ministri Massimo D’Azeglio sosteneva che <fatta l’Italia bisogna fare gli italiani>, mentre forse era vero esattamente il contrario, dato che l’identità italiana esisteva già da secoli, ma la forzatura repubblicana liberal-massonica piemontese, al contrario, ha contribuito a disunire le popolazioni, poiché concepita come una conquista militare, non come un’unificazione e ha finito inevitabilmente per generare problemi congeniti come la questione meridionale. A riprova che lo stesso D’Azeglio non era in buona fede è ciò che scriveva in privato: <unirsi con i napoletani è come giacere con un lebbroso>, chissà come mai frase meno nota della prima.
In realtà la resistenza meridionale all’unità d’Italia è molto simile alle insorgenze controrivoluzionarie del 1799 e del 1806, cioè gli unici veri movimenti di forte e spontanea partecipazione popolare, a dispetto di una storia ufficiale che vuole sempre il popolo di fianco alla minoranza massonica nelle sue rivoluzioni. Ma questo è stato censurato dalla pesante Damnazio memoriae liberal-massonica. La storia manualistica e scolastica infatti liquida tutto questo come “lotta al brigantaggio”, una pagina nera del risorgimento, descritta ovviamente sempre in favore della repressione dei cosiddetti briganti, ovvero la popolazione comune del regno delle Due Sicilie. Questa è trattata a tutti gli effetti come colonizzata, non certo come popolazione italiana, similmente a come gli inglesi trattavano la popolazione indiana nei loro domini asiatici o come gli statunitensi consideravano gli sioux. Per questo e per il fatto che il potere forte dietro l’azione sabauda era quello inglese, Socci è arrivato a considerare l’intero risorgimento italiano come “un episodio dell’imperialismo inglese”. Sulla stessa linea il deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: <questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala>.
Ovviamente anche i borbonici avranno commesso le loro violenze, d’altronde era una guerra, non certo una pacifica “unificazione nazionale”, ma per quanto si possa indagare, la gravità della guerra civile contro la popolazione inerme da parte del regio esercito sabaudo, straniero e conquistatore, non può essere paragonata agli atti della resistenza borbonica. 100.000 morti (secondo alcuni un milione), 5212 condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo sono i numeri della repressione sabauda da fonti ufficiose (quelle ufficiali sono state tutte scientemente distrutte). Senza contare il livello di barbarie di questa repressione dove si crocifiggevano soldati alle porte delle chiese, vi erano stupri sistematici e squartamenti di donne incinte.
L’esercito piemontese si è macchiato anche di gravi repressioni di civili come quella a Pontelandolfo e Casalduni, che ricordano tristemente quelle naziste. I due paeselli erano rei di aver dato ospitalità alla banda di soldati borbonici capitanata da Cosimo Giordano e Donato Scutignano, considerati appunto banditi dai savoiardi, ma che per analogia che la stessa storia massonica ci impone, potremmo tranquillamente vedere come “partigiani della resistenza”. Il 14 agosto 1862 gli abitanti di Pontelandolfo o Casalduni, più di un migliaio, vengono tutti trucidati dall’esercito piemontese, donne e bambini inclusi, tutti gli edifici incendiati e rasi al suolo e a nessuno viene data la possibilità di fuggire essendo i paesi circondati da uomini armati. Un eccidio che per molti aspetti non può che ricordare quello nazista a Marzabotto. Il garibaldino Emidio Cardinali, manco a dirlo massone, commenta così la vicenda: <i due villaggi furono inesorabilmente condannati alle fiamme. Il nome di questi cannibali meritava di essere abraso di mezzo al suolo italiano. Crollando le fondamenta dei loro asili doveva sperdersi anca la memoria di tanto misfatto>.
A riconferma del fatto che l’unificazione non avvenne certo secondo la volontà popolare, ma il contrario, le rivolte popolari in meridione continuarono anche ad unificazione avvenuta. Al 6 marzo 1861 risale il tentativo del generale legittimista José Borjes, arrestato e fucilato l’8 dicembre, mentre nel novembre 1863 il generale sabaudo Enrico Cialdini reprime ferocemente rivolte popolari armate sempre nel meridione. Il 15 agosto 1863 il governo Minghetti promulga la Legge Pica “per la repressione del brigantaggio nel Meridione” che in pratica autorizza il genocidio e la pulizia etnica ad opera della giustizia sommaria dei tribunali di guerra per il Sud. Esecuzioni di massa, stupri, anche di vecchi e bambini, oltre al carcere, diventarono una consuetudine. Il motto dell’epoca “o briganti o emigranti” racchiude l’inesorabile destino della popolazione meridionale. Uno dei risultati di questa dura repressione è stata infatti la creazione di una enorme massa di migranti, fenomeno fino allora quasi sconosciuto, ma che per la storicizzazione della questione meridionale da allora non ha più avuto tregua (nell’ultimo secolo sono stati stimati circa 24 milioni di emigranti dal Sud Italia).
Anche Garibaldi in persona, in una lettera ad Adelaide Cairoli, dovette riconoscere che: <gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei la via dell’Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odio>.
Un’altro degli aspetti più infami che riportano al paragone della repressione sabauda con i metodi nazisti è la vicenda del cosiddetto “lager” di Fenestrelle, tuttora censurata come un mito dalla propaganda massonica o liquidata per lo più in articoli come questo: <si disse di dieci soldati di origine meridionale che si erano ammutinati, decisi a impadronirsi della fortezza, con il proposito di occupare, chissà come, il Piemonte e di marciare poi sulla capitale. I giornali clericali soffiarono sul fuoco… Una congiura inesistente, forse appena pensata. E questo rende ancora più gravi le strumentalizzazioni e le falsificazioni degli assatanati neoborbonici di oggi. E non soltanto le loro> (dal “Corriere della Sera” del 11 ottobre 2012).
Nella fortezza di Fenestrelle venivano fatti confluire dai savoiardi i prigionieri di guerra o meglio nel loro gergo “i briganti reazionari”. Questi erano per lo più militari borbonici letteralmente deportati a nord sin dall’ottobre del 1860. Al 20 dicembre dello stesso anno risale l’assurdo decreto sabaudo per richiamare alle armi i giovani duosiciliani ma per la causa piemontese. Se ne presentarono 20.000 su 72.000, gli altri furono considerati appunto “briganti”. Seguì il decreto del 20 gennaio 1861 che istituì “depositi d’uffiziali d’ogni arma dello sciolto esercito delle Due Sicilie” per tutti i militari che non si vollero piegare all’ordine di supportare la causa sabauda, a cui seguì la deportazione come prigionieri a Genova, da dove venivano smistati nei campi di Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte di S. Benigno in Genova, Milano, Bergamo, Forte di Priamar presso Savona, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno ed altre località del Nord. Questi non erano semplici prigioni, perchè erano istituiti per il trattamento di “correzione ed idoneità al servizio”.
Per circa un decennio oltre 40.000 prigionieri furono fatti deliberatamente morire per fame, stenti, maltrattamenti e malattie. La rivista gesuita “Civiltà Cattolica” descrisse così la loro condizione: <per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e in Lombardia, si ebbe ricorso a uno spediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli appena coperti da cenci di tela e rifiniti di fame furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d’altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima caldo e dolce come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento fra le ghiacciaie! E ciò perché fedeli al loro giuramento militare ed al legittimo Re>.
I prigionieri di Fenestrelle, una delle fortezze più temute anche perchè a 2mila metri di quota, vivevano in condizioni a dir poco rigide. Erano stati smontati appositamente gli infissi e in quelle condizioni, senza neanche un vestiario degno di tale nome, il tempo di sopravvivenza medio non superava i tre mesi. Tra questi i soldati che secondo gli accordi convenuti dopo la resa di Gaeta avrebbero dovuto essere lasciati liberi. Oltre a questo a tutti i prigionieri sabaudi vennero indistintamente confiscati i loro beni. Da quella prigionia si usciva solo con la morte e i corpi venivano gettati in una grande vasca piena di calce viva. La famosa rivolta di Fenestrelle fu solo un tentativo, sventato sul nascere, di militari sabaudi di guardia alla fortezza, ma di origine meridionale, che complottarono una rivolta, ma ottennero il solo risultato di una condanna a dieci uomini per cospirazione contro la sicurezza dello stato, poi assolti per non aver commesso il fatto.
Tanti sono gli atti politici ufficiali che confermano l’atroce trattamento riservato ai prigionieri duosiciliani. Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni, al parlamento: <ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre inospitali terre del Piemonte…Sono essi trattati peggio che i galeotti. Perché il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con l’inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?>
Alfonso La Marmora, presidente del consiglio dei ministri del Regno d’Italia, in una lettera a Cavour: <…non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di verminia…e quel che è più dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andare a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco Secondo, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavano a servire, che erano un branco di car…che avessimo trovato modo di metterli alla ragione>. Secondo documenti presso l’Archivio Storico del Ministero degli Esteri, ancora nel 1869 il governo italiano voleva acquistare un’isola argentina per relegarvi i soldati duosiciliani.
Uno dei più intolleranti nei confronti del meridione è proprio Camillo Benso ed in generale tutta la Destra Storica mostra grande insofferenza sulle sorti meridionali, ma anche se con atteggiamento di superiorità e distacco si sente autoinvestita della missione di “civilizzare” la popolazione. Il luogotenente generale del re, il romagnolo Carlo Luigi Farini (1812-1866) risponde così alle richieste di Cavour che non riusciva a capacitarsi del comportamento “barbarico” e “ignominioso” delle genti del sud: <ma, amico mio, che paesi son mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Africa: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile. E quali e quanti misfatti!>
Ma la denigrazione dei borboni, come già visto con l’occupazione inglese della Sicilia, non si fermava però ai colloqui confidenziali, ma era stata messa in opera tutta la stampa filo-massonica per una campagna di propaganda anti-borbonica, specialmente in tutto il nord Italia, dato che i Savoia avevano abolito la libertà di stampa al sud fino al 31 dicembre 1865. I diplomatici britannici, ma anche ovviamente Lord Palmerston in persona, visto che la popolazione del sud d’Italia non si era spontaneamente ribellata al loro re come avrebbero voluto, avevano cercato di diffondere la tesi dell’inferiorità della “massa corrotta e codarda di quei degradati napoletani”.
<Le modalità dell’unificazione politica hanno come prima conseguenza l’estraneità di gran parte della popolazione al nuovo Stato e alla sua ideologia e la carente legittimità delle istituzioni politiche. Ciò è più evidente nell’ex Regno delle Due Sicilie, dove si verificano, prima ancora della spoliazione economica, un processo di alienazione culturale e il progressivo venir meno dei punti di riferimento sociali e istituzionali, che aprono la strada prima all’emigrazione transoceanica e poi allo sviluppo della grande criminalità organizzata> (da “Il Timone n.91”).
Tutto questo i liberal-massoni repubblicani l’hanno fatto sempre in nome della loro concezione di progresso, secondo cui loro sono indiscutibilmente i “liberatori”, mentre i loro oppositori, come già era successo al tempo delle rivoluzioni giacobine, sono considerati indistintamente briganti o meglio “beduini” nel gergo offensivo dell’epoca.