Alta Terra di Lavoro

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LA SITUAZIONE ECONOMICA DOPO L’UNITÀ di VINCENZO GIANNONE

Posted by on Gen 19, 2021

LA SITUAZIONE ECONOMICA DOPO L’UNITÀ di VINCENZO GIANNONE

tratto dalla seconda edizione del 2020 “la Garibaldite” di Vincenzo Giannone da (pag. 799 a pag. 815)

Dopo la sconfitta di Napoleone I e l’avvenuta restaurazione del 1815, il Piemonte registrava sul libro del debito pubblico un debito di 4.805.472,62. Nel 1831 Carlo Alberto contrasse un prestito di 25 milioni e nel 1834 un altro di 20. Altri piccoli impegni furono contratti nel 1841 e nel 1844, e dal 1815 al 1847 il debito raggiunse 135 milioni.

  Il 4 marzo 1848 venne la Costituzione e con essa la libertà e con la libertà la necessità di contrarre un altro prestito forzato di 50 milioni. Nei tre anni successivi furono contratti 6 nuovi prestiti per un totale di 359 milioni e alla fine del 1851 il Piemonte aveva accumulato un debito di circa 550 milioni di lire.[1]

Non essendo il denaro sufficiente a sostenere le spese dello Stato, negli anni successivi furono contratti ulteriori prestiti per 130 milioni[2] e nel 1859 il debito aumentò di circa 400 milioni, sicché dal 1848 al 1859 crebbe di 910 milioni e divenne di un miliardo e 45 milioni (1.045.016.209). Al primo gennaio del 1860, avendo investito tutto nella guerra, il Piemonte pagava una rendita annua di lire. 51.797.054,46. Il 29 giugno il Parlamento approvò un nuo­vo prestito di centocinquanta milioni e la cifra crebbe ancora, di modo che all’inizio del 1861 il debito era di circa un miliardo e centosessanta milioni (1.159.970.595,43) di lire.[3]

Due giorni prima della partenza di Garibaldi per l’isola di Caprera, il 7 novembre, l’alba spandeva i primi raggi di sole sul nuovo regno d’Italia quando fu oscurata da un cielo cupo mentre Vittorio Emanuele s’apprestava a entrare a Napoli. Nello stesso tempo Il Pungolo di Napoli scriveva in prima pagina: «Napoli è in festa. Il primo Re d’Italia è fra noi. Lo abbiamo veduto il Re galantuomo. Lo abbiamo salutato il primo soldato della indipendenza Italiana». E mentre lodava nella prima pagina Vittorio Emanuele, nella seconda lamentava:

Non vi è denaro?… In una città ricca come Napoli non vi è denaro nelle casse Comunali, e voi, signori del Municipio, non sapete prendere alcun migliore provvedimento che quello di trascurare il vostro dovere… Non vi è denaro?… perché? Forse per qualche spesa inutile, di lusso, di pompa? No per le più urgenti, per le più vitali necessità del paese, per gli ospedali dei feriti, fra le altre. Non vi è denaro per ciò, e avete anticipato delle somme per non sappiam quali spese, che competerebbero al Ministero della Guerra e dell’interno? Ciò non vi scusa, vi accusa. Perché lo avete fatto? perché chi vi richiedeva di ciò era il Governo.  Ma quando il Governo richiede l’ingiusto è dovere, è diritto di un libero Comune il resistergli.[4]

Era trascorso meno di un mese dalla proclamazione del Regno d’Italia[5] e L’Opinione dell’8 aprile scriveva:

Primo bilancio del nuovo regno d’Italia:

Entrate 500 milioni!   Viva Cavour!

Spese 800 milioni!!   Viva Garibaldi!

Deficit 300 milioni!!! Viva L’Italia!

Ma quando si hanno cinquecento milioni d’entrata e se ne spendono ottocento come si fa ad andare innanzi? Bisogna pensare a far concorrere i popoli secondo i bisogni! Ecco la conclusione del giornale l’Opinione, e significa che bisogna pensare a mettere imposte e sovraimposte, a squattrinare di qua, a mungere di là, a tosare i Toscani, a premere i Romagnuoli, a vuotare le tasche de’ Modenesi, de’ Parmigiani, de’ Napoletani, de’ Siculi. Ecco a che cosa bisogna pensare! E i popoli dovrebbero pensare essi pure la bella sorte che li attende e i frutti che producono le rivoluzioni![6]

Commentava il giornale torinese L’Armonia:

Questo è progresso, questa è civiltà, questa è grandezza! […]

Il Regno d’Italia, figliato da Luigi Bonaparte e dal conte di Cavour coll’assistenza di Garibaldi, Nunziante e Liborio Romano appena venne alla luce pronunziò questa prima parola: Fame. E la fame dei regni, e massime dei regni come il nuovo Regno, non si sazia che col danaro. Il regno neonato divorava quando era ancora nascituro, e prima di esistere aveva già ingoiato un millecinquecento milioni.[7]

Nei primi quattro mesi del 1861 Napoli vide aumentare le sue spese di cinque milioni e mezzo di lire e la Sicilia di cinque milioni in più di quelle che pagava sotto i Borbone. Ecco un eloquente articolo pubblicato dal giornale napoletano Che Tuoni:

L’università è un deserto. Il più eloquente tra tutti coloro che frequentano la nostra università degli studi è quello scheletro di balena, steso nel cortile. Gli asili infantili sono di là da venire. Gli educandati sono lasciati in balìa della sorte. Mille altri sconci si verificano in tutte le scuole delle provincie: e tutto questo male, avviene semplicemente e puramente perché non ci stanno fondi. Non ci stanno fondi? Orbè ditemi voi, o chiarissimi, preclarissimi, orrevolissimi, colendissimi ed osservandissimi signori Settem­brini e Baldacchini, perché sui fondi della pubblica istruzione che non ci stanno, voi vi pappate provvisoriamente seimila ducati all’anno?[8]

Il 20 maggio 1861, il deputato Ricciardi osservò alla Camera:

La quistione di Napoli è duplice: morale e materiale. È questa seconda che bisogna curare più prontamente. Havvi gran numero di persone, i cui mezzi di sussistenza sono distrutti, o diminuiti, per esempio, tutti coloro, che da 13 anni hanno sofferto per la patria, hanno logorate le loro sostanze, e speravano avere impieghi, che non han potuto ottenere: havvi l’effetto del ristagno della industria, e del commercio: havvi per Napoli in ispecie la mancanza di forastieri, e vi dirò che non ho riconosciuta la mia città natale, tanto l’ho trovata squallida e mesta! Vi aggiungi gli effetti della parifica delle tariffe tra Napoli, e gli antichi Stati, la quale parifica ha fatto cadere molte fabbriche, ed ha messo alla strada un gran numero di operai. In fine tante ragioni riunite fanno sì, che vi sia mancanza di mezzi per un gran numero di persone. In conseguenza la quistione è pure economica…

Debbo dire, che non mai la istruzione pubblica fu «in così misere condizioni nell’ex reame di Napoli, quanto oggi; e nello stesso tempo, cosa assai strana, non costò mai tanto quanto oggi». L’università di Napoli è quasi deserta. […]

Sopra una altra cosa vorrei chiamare l’attenzione del ministro, vale a dire su la penuria estrema dell’ex reame di Napoli, che mi sembra tanto più incredibile, in quanto che le provincie napolitane soggiacciono a molto minori spese di «quelle a cui soggiacevano sotto i Borboni». Noi non abbiamo più, per esempio, a pagare 100 mila soldati, surrogati appena da 25, o 30 mila soldati dell’esercito meridionale […]

Non abbiamo più ministri, ma soli 4 segretarii generali, che non costano alla fin fine, che 1600 ducati al mese. D’altronde vediamo, che non sono punto diminuite le imposte, le quali si pagano attualmente siccome allora. «Abbiamo inoltre il prodotto de’ beni de’ Gesuiti, e dell’Ordine Costantiniano; e domanderò al ministro, che cosa si fa di queste rendite. Abbiamo i beni di Casa reale, e si ricorderà il ministro, che Garibaldi decretò su questi beni la somma di sei milioni di ducati; il che vuol dire, che sono molto considerevoli». Or il governo, che successe a Garibaldi non ha osato abrogare questo Decreto; ma né pure ha mai voluto farlo eseguire. Vi è una diminuizione considerevole sugli introiti delle dogane, parte pel contrab­bando; parte per la parifica delle tariffe; e parte per alcuni dazi ribassati per decreto del sig. Farini […]

Dimenticava dirvi, che in questo momento si dazia in Genova, e così la dogana è pagata a Genova, e non a Napoli. Pur tuttavia, tutto computato, il supero dovrebbe esser superiore al deficit. Ora invece è il deficit: solo un’inchiesta può chiarire il vero. La penuria del municipio di Napoli è anche maggiore di quella del tesoro. Nelle casse del municipio si trovano pochi ducati, e non si sa come andare avanti; […]

L’ultima relazione del ministro delle finanze ha fatto a Napoli un pessimo effetto, e già si prevede per l’anno venturo la tassa fondiaria, la tassa mobiliare, la tassa delle patenti, da cui finora fummo esenti.[9]

Nella tornata del 27 maggio, il deputato Polsinelli rispondendo al collega Nicola Nisco osservò:

… Rimasto (esso Nisco) per 12 anni per la causa della libertà nelle prigioni, e nello esilio, si è ingannato quando ha creduto, che poco o nulla avessero progredito le manifatture sotto il cessato governo borbonico. Io citerò, a modo di esempio, le grandiose fabbriche di filatura di cotone, tessitura, stamperia, stabilite ne’ contorni di Salerno, che occupano migliaia, e migliaia di persone. Poi quelle di tessuti di lana, anche stabilite in Salerno. La magnifica filatura di lino a Sarno, la tessitura a Scafati, i numerosi lanificii del distretto di Sora, di Abruzzo, e di altri-luoghi; – finalmente gl’innumerevoli telari di seta, cotone, e lino, stabiliti ne’ sobborghi, e contorni di Napoli; tal che la Capitale; eccettuati i quartieri superiori e quelli abitati dalla nobiltà, può dirsi una vasta fabbrica. Ciò a prescindere delle Cartiere, concerie ed altre.[10]

E già si intuiva la fine che avrebbe fatto negli anni futuri l’ex Regno delle Due Sicilie. Rivelatori sono alcuni articoli che il giornale napoletano Che tuoni!!! pubblicò il 21 e il 26 marzo 1861:

Signor Consigliere della Industria, Agricoltura e Commercio, che cosa avete fatto a pro delle nostre manifatture in tutto il tempo che avete usurpato questo dicastero? Niente! E pure i consigli non vi sono mancati. I giornali l’Italia, il Popolo d’Italia, la Voce Popolare, la Nuova Italia e l’Omnibus, vi ànno [sic] dimostrato quello che potevate fare, sul fatto degli edifizi meccanici, delle ferriere e delle miniere, tutte appartenenti allo Stato ed ora abbandonate per vostra noncuranza e bestialità. Voi sapete che noi abbiamo manifatture che sono considerate tra le migliori in Europa. Sapete che noi possiamo con soli mezzi indigeni provvederci di ferro, di ghisa, di acciaio, di navi corazzate, di macchine, di arme di cannoni rigati caricati oppur no per la culatta, di proiettili, di munizioni e di combustibili. E ciò a più basso prezzo degli omologhi inglesi, francesi e belghe. Il non curare le nostre risorse nazionali è un infamia [sic] inqualificabile, e noi ne addebitiamo tutta la colpa a voi. Tanto più che le manifatture dello Stato una volta estivate darebbero vita ad oltre 200 mila tra lavoratori ed ingegneri senza spesa alcuna, come dal sig. Ingegnere Francesco Anaclerio si è proposto. Sentita [sentite] il nostro consiglio, come quello della pubblica opinione, lasciate il Dicastero della Industria, Agricoltura e Commercio e fate che altri più di voi onesto ne prendi la cura.[11]

LE MANIFATTURE NAPOLITANE

Signori Direttori Generale della Guerra e della Marina siamo obbligati interpellarvi per la quarta volta, oltre le mille altre interpellazioni simili rivolte a voi da tutta la stampa napolitana. Perché la miniera di carbone di Agnana sta abbandonata una volta che essa potrebbe darvi cinque a sei cento mila cantaia[12] di carboni l’anno? Perché le nostre miniere di ferro di Pazzano, di Aspromonte e del Distretto di Sora sono neglette una volta che voi acquistate all’estero da 100 a 200 mila cantaia di ferro l’anno? Mentre queste miniere potrebbero darvene il quadruplo alla metà del prezzo inglese e di migliore quantità. Perché le nostre manifatture da Guerra e Marina sono soppresse, una volta che avete tanto bisogno di armi, di navi, di proiettili e di munizioni? E queste tra noi sono pregiatissime e riescono più mercato di quelle inglesi, francesi e belghe. Voi state facendo rovinare le nostre macchine ed i nostri opifizi di Marina in mano di un sedicente ingegnere, il quale non à altro merito che di essere stato garzone di una fabbrica inglese per due anni…[13]

VOCE DEL POPOLO NAPOLITANO

Un governo il quale dicesi popolare e riparatore e che poggia sulle simpatie della maggior parte della nazione dovrebbe studiar modo come alleviare le classi lavoratrici, le quali non ponno accattare il loro pane altrimenti che per via del lavoro. Invece, noi vediamo che come sistema le nostre industrie agricole e manifatturiere sono abbandonate anzi svilite; i lavori pubblici e le ferrovie non curate; le manifatture dello Stato ed in specialità gli opifici della Marina sono abbandonati e negletti in mano di un sedicente ingegnere, proiettatoci da Torino […].

In qual modo adunque si vuole che gli innumerevoli lavoratori di queste ricche regioni abbiano a vivere? Perché i nostri opifici meccanici e le nostre ubertose miniere sono neglette una volta che il Governo à duopo di mane, immense di ferro, di armi, di combustibili e di munizioni? Perché questi prodotti manifatturieri sono acquistati all’estero mentre potrebbero a più basso prezzo confezionarsi tra noi? I lavori delle ferrovie, che sono la vita d’ogni popolo civile, perché non sono principiati! Ci si dice che mancano i fondi, ma creatili, in questo consiste il saper governare ed amministrare un popolo e regioni così attive e fervide quali sono le nostre se non ne avete la capacità e la forza lasciate i vostri dicasteri signori Consiglieri dei Lavori Pubblici e d’Agricoltura, Industria e Commercio e signori Direttori Generale della Guerra e della Marina. Imperocché avvi tra noi chi è capace di fare uscire questi fondi, dotare questo gran paese di opere monumentali e donarci la vita pubblica e la prosperità che meritiamo. Voi non pensate che ad impinguare le vostre sacche e quelle dei vostri parassiti accoliti. Voi tradite la nazione. Voi non fate e non sapete fare gl’interessi di questa […].[14]

LE MANIFATTURE NAPOLITANE

Signori Direttori Generali della Guerra e della Marina […] non vi curate per nulla di guardare gl’interessi di queste povere provincie, che ànno avuto la disgrazia di vedervi. Voi non conoscete le risorse di queste nostre ricche regioni. Vi credete ancora d’essere a Torino, e non vi acquieta che la roba estera. Noi abbiamo ferro, e dell’ottimo, da sopprimere a tutti i bisogni della Guerra, della Marina e dei Lavori pubblici; abbiamo delle ottime manifatture, e delle ubertose miniere. Intanto, tutte queste ricchezze stanno abbandonate e neglette, ed i nostri tesori passano nelle mani straniere. Sono sei mesi che tutta la stampa vi dice di promuovere ed attivare le nostre manifatture. Essa vi indica tutti i progetti, che esistono presso i vostri dicasteri. Ma tutto ciò inutilmente. Anzi voi, coi vostri accoliti [seguaci], cercate via maggiormente vendere la cosa pubblica, renderci poveri per meglio disporre di noi. Ma v’ingannate. Sapremo farci sentire e rispettare. Vi domandiamo perché le nostre manifatture e le nostre miniere sono abbandonate, mentre esse potrebbero dar vita ad oltre 200 mila tra lavoratori ed ingegneri, e coadiuvare ai bisogni dello Stato e delle dilapidate Finanze? Perché le poche in atto e lentamente son dirette da uomini nulli e non dal mestiere come è avvenuto per quelle della Marina? Signor Commendatore Nigra, vi raccomandiamo di farci rispondere perché trattasi di obbietto che ci riguarda troppo da vicino.[15]

Intervenendo alla Camera il 3 aprile 1861, il deputato napole­tano Valenti dichiarò:

Altra piaga, cui gli onorevoli preopinanti [i relatori precedenti] accennarono, è la disfatta delle finanze. Eppure, o signori, noi sotto il Borbone pagavamo i medesimi pesi che paghiamo adesso. Il Borbone manteneva un’armata di 120.000 uomini, manteneva una tremenda camarilla [persone che frequentavano la corte], manteneva un mezzo milione di spie, poneva fondi in tutti i banchi all’estero, dotava larghissimamente la figliuolanza numerosa, e tuttavia il tesoro era fiorente. Ma perché? Perché le leggi in tal qual modo si osservavano; perché prima rendita delle finanze erano le dogane.[16]

Commentava La Civiltà Cattolica:

Su tutti i giornali fu pubblicata una lista delle spese sostenute, riportata per la prima volta dalla Gazette de France, per circa 85 milioni di franchi, che erano nel tesoro di Napoli all’arrivo di Garibaldi e che furono sperperati in pochi mesi. L’esercito meridionale, ossia le bande di garibaldini e di cialtroni napolitani, costarono 46.066.500 di franchi; le truppe regolari piemontesi, franchi 13.700.000; la marina franchi 418.560. La dittatura si prese, a titolo di compera d’armi, frachi 8.568.000; la Polizia (composta in parte dei famosi galeotti sciolti da Liborio Romano e dai camorristi) franchi 46.350; la Segreteria della Dittatura 8.371.500 franchi sotto nome di spese urgenti. Per le spese poi dei festeggiamenti al Re di Piemonte si spesero franchi 8.568.000.[17]

Erano trascorsi due mesi dall’ingresso di Garibaldi[18] a Napoli e uno da quello di Vittorio Emanuele e le Casse cittadine erano già vuote. La situazione era disastrosa e già si intravedeva l’immagine del futuro prendere forma. Era trascorso meno di un mese dalla proclamazione del Regno d’Italia, quando il 6 aprile il ministro delle finanze Pietro Bastogi presentò alla Camera un progetto di legge per riunire in un solo bilancio le entrate e le spese del 1860 e 1861 delle antiche province del regno della Lombardia, Emilia, Toscana, Umbria e Marche. Le spese, ordinarie e straordinarie, ammontavano a lire 627.645.514,40; le entrate ordinarie e quelle straordinarie a lire 360.260.385,68. In complesso si aveva un disavanzo di milioni 267.383.128, 72. Confrontando il bilancio del 1861 con quello del 1860, emergono le seguenti differenze:

 Totale speseTotale entrate
1860L. 413.233.790,59L. 360.543.399,83
1861L. 627.645.514, 40L. 360.260.385, 68
   
Disavanzo nel 1861L. 214.411.723,81L. 283.014,15

Se nel 1860 il disavanzo era stato di 52.690.390,76, quello del 1861 ammontava, secondo il ministro Bastogi, a 267.385.128,72. A questo enorme disavanzo di 267 milioni si sperava di supplire con i bilanci delle province napoletane, il che era impossibile vista l’abolizione di varie tasse, lo spreco di denaro pubblico fatto da Garibaldi e le spese militari sostenute e da sostenere.

Il bilancio di previsione del 1861 per le province napoletane e siciliane, escluse le spese di guerra, presentato dal ministro delle finanze, era il seguente:

 SpeseEntrate
NapoliL. 100.493.766,24L. 109.429.065,56
SiciliaL. 28.331.210L. 21.792040

Per la Sicilia il ministro prevedeva un disavanzo di 6.539.170, mentre per Napoli ipotizzava un avanzo di 8.955.299,52.[19] Ma non era che una previsione, infatti, il 29 aprile, Bastogi disse alla Camera: «Signori, dalla relazione che ho avuto l’onore di leggere risulta come il disavanzo del bilancio 1861, presentato dall’onorevole mio predecessore, invece di 267 milioni ascenda a 314 milioni». E chiarì:

Questo maggiore disavanzo deriva principalmente da 20 milioni di cui la tesoreria di Napoli è debitrice al banco per buoni emessi, e che scadono nel corrente anno 1861, per 3 milioni dovuti ai fornitori dell’esercito, per un milione e mezzo per un piroscafo acquistato dallo stabilimento del Credito Mobiliare in Torino, per 3 milioni per gratificazioni concesse all’esercito meridionale. Per ciò che riguarda la Sicilia, il disavanzo è maggiore, e vi dirò che questo deriva principalmente da 3 milioni per ispese relative all’istruzione pubblica; per 500.000 lire, somma che era stata omessa per la costruzione d’un lazzaretto a Messina; per 4 milioni per compenso dei danni cagionati dalle truppe borboniche; per 5 milioni e mezzo per somme somministrate dal banco alla tesoreria di Sicilia.[20]

E Bastogi presentò un progetto per un prestito di 500 milioni e l’istituzione del “Gran Libro del debito pubblico italiano”. Circa due mesi dopo, il 17 giugno 1861, annunciava che ci sarebbero state cinque leggi di nuove tasse e nel luglio seguente presentò i seguenti progetti di legge:

– L’aumento del dieci per cento a titolo di sovrimposta di guerra a tutte le provincie del regno; (1° luglio)

– Tasse di registro, che comprendono le tasse sugli atti civili e sui contratti, le tasse sugli atti e sulle decisioni giudiziarie, le tasse sulle successioni [Art. 1. Gli atti civili, giudiziali e stragiudiziali, e la trasmissione dei beni per causa di morte sono soggetti alle imposte denominate Tasse di registro…]; (4 luglio)

– Tasse di bollo; (4 luglio)

– Tasse sui beni dei corpi morali di mano-morta;[21] (4 luglio)

– Tasse sulle società industriali e commerciali; (4luglio)

– Tasse sopra diverse concessioni del Governo. (4 luglio)

Il 12 luglio dello stesso anno, il deputato Boggio disse: «Abbiamo votato trentasei leggi di spesa, le quali rappresentano la cifra di due miliardi e ventitré milioni. In questa somma, per 725 milioni, siamo già effettiva mente impegnati (Movimento) e, pel rimanente, siamo vincolati in modo più o meno eventuale».[22] La situazione economica era talmente difficile che nella stessa tornata Liborio Romano, eletto deputato al Parlamento, riferiva sul vano tentativo eseguito per ottenere un prestito di 25 milioni per conto dei Comuni del Sud Italia, «convinto ch’era suprema necessità dar lavoro al popolo e svolgere la vita del municipio»:

… Ma né i cinque, né i dieci milioni furono mai inviati dal governo centrale; e la mia riputazione rimase compiutamente compromessa a fronte di quanti più sono i comuni delle provincie napoletane […].

Si spese dunque, o signori, da gennaio ai 20 maggio, in opere pubbliche comunali la miserabile somma di sole lire 590.625,07, ossia la quindice­sima parte appena dei 5 milioni, e molto meno del trentesimo dei 10 milioni che il nostro magnanimo Re Vittorio Emanuele voleva invertiti nell’immediato incominciamento di pubblici lavori.[23]

Nella medesima seduta, il deputato Polsinelli intervenne dicendo:

Starò nella questione d’ordine, e sarò calmo. Io mi uniformo perfetta­mente a quanto ha esposto il preopinante l’onorevole Ricciardi, dacché le condizioni delle provincie napoletane sono così miserabili e ridotte a tale stato che è impossibile poter tornare laggiù con animo tranquillo e sicuro (Rumori) Debbo aggiungere altresì che le comuni [i comuni] sono indignate della burla, e dell’insulto fatto loro, dacché i cinque milioni furono dati solo in cifra, ma finora non ebbero neppur un centesimo.[24]

Prima della rivoluzione, ossia prima che i popoli sottomessi fossero liberati dalla tiranni dei loro Re, si pagavano 29.000.000 di imposte sul registro, con la nuova legge se ne pagarono circa 60.000.000. Si osservi ora, nel prospetto seguente, quanto i Napoletani e Siciliani pagavano prima dell’Unità e quanto furono costretti a pagare dopo l’unità.

Tassa sul bolloPrima dell’unitàDopo l’unità+/-
PiemontesiL. 5.175.800L. 5.400.000+ 224.200
LombardiL. 2.740.000L. 3.366.000+ 626.000
ToscaniL. 800.000L. 2.160.000+ 1.360.000
ParmensiL. 300.000L. 600.000+300.000
Marche e UmbriaL. 586.000L. 1.680.000+1.094.000
Napoletani. SicilianiL. 2.863.000L. 10.800.000+ 7.937.000
TotaleL. 12.464.800L. 24.006.000+ L. 11.541.200

È innegabile che l’annessione al Piemonte fu un disastro per le popolazioni meridionali.

Tassa sul registroPrima dell’unitàDopo l’unità+/-
PiemontesiL. 14.825.000L. 12.900.000– L. 1.925.000
LombardiL. 5.338.000L. 8.027.000+ L. 2.689.000
ToscaniL. 2.000.000L. 5.160.000+ L. 3.160.000
ParmensiL. 756.000L. 1.189.000+ L. 433.000
Marche e UmbriaL. 1.345.000L. 4.013.000+ L. 2.668.000
Napoletani. SicilianiL. 3.472.000L. 25.800.000+ L. 22.328.000
TotaleL. 27.736.000L. 57.089.000+ L. 29.353.000

Ecco il prospetto dei debiti dei singoli Stati:

 debitomilioni
Stati sardi1.292,00
Lombardia152,00
Parma12,00
Modena18,00
Romagna19,00
Marche5,00
Umbria7,00
Toscana139,00
Napoli522,00
Sicilia209,00
TotaleL. 2.375,00

Prima dell’unità il debito pubblico dei vari Stati italiani[25] (compreso il sardo) ammontava a soli a 2375 milioni. Nel luglio 1861, la Camera approvò il prestito di 500 milioni di franchi che secondo il Journal des Economistes di Parigi si sarebbe trasformato in un debito di 750 milioni[26] ma, scrisse Don Liborio nelle Memorie: «Un soldo solo di esso non si spese per le opere pubbliche del Napoletano».[27]

Riassumendo, nei primi due anni di regno italiano il disavanzo era di 400.000.000 per il 1861 e di 317.000.000 per il 1862 (per un totale di 717.000.000, che con il prestito di 500.000.000 si ridusse a 158.000.000 circa. Dopo pochi anni di unità nazionale si erano già spesi due miliardi e settecento sessantuno milioni e mezzo in più delle entrate del regno, sicché al primo luglio 1865 la rendita (gli interessi da pagare) iscritta a bilancio era di 242 milioni l’anno.[28]

Alcuni anni dopo, Cesare Cantù scrisse nel libro Dell’Indipendenza d’Italia:

Prima del 1859, quando ogni Stato aveva una Corte, una diplomazia, un esercito, un’amministrazione compiuta, le spese di tutti gli Stati d’Italia non passavano i 500 milioni; col debito di circa 2000 milioni. Quando si cominciò l’unificazione, si avverarono le seguenti cifre del debito:[29]

STATIDebito in lire
Due Sicilie550.000.000
Ducato di Parma10.558.215
Ducato di Modena11.056.380
Stati Pontifici16.577.120
Granducato di Toscana152.080.000
Totale740.271.715

Ricapitolando, concludeva Cantù, in sei anni eransi spesi due miliardi e settecentosessantun milioni e mezzo più delle entrate del regno; coprendoli con prestiti, anticipazioni sulla vendita dei beni demaniali, vendita delle strade ferrate, infine un prestito nazionale obbligatorio di 400 milioni, sicché al 1° luglio 1865 la rendita iscritta era di 242 milioni.[30]

L’anno seguente (1866), il deputato Giuseppe Romano (fratel­lo di Don Liborio) scriveva all’amico e collega sardo Giorgio Asproni:[31]

Il Governo […] ha contro tutti i principii economici esasperate le imposte sopra i monopolii; ha conservato quello dell’immorale giuoco del lotto; ci fa pagare in piena pace e disarmo «il decimo di guerra»; ha rovesciato sulle spalle dei Comuni e delle provincie molte spese che pesavano sullo Stato. E quasiché tutto ciò non bastasse, ha dato alle leggi d’imposta, ed ai regolamenti tale indole vessatoria, e tale elasticità, che non vi è arbitrio di esecuzione, il quale non possa essere comodamente legittimato da una prescrizione di legge.[32]

Nel medesimo anno, a fronte di una spesa di 928.757.175, il governo raccolse tributi per 667.441.742 ed ebbe un deficit di 261.115.492 di lire.

L’argomento è molto vasto per poter essere trattato brevemente ma basta dare uno sguardo all’Indice[33] del Gran libro del Debito pubblico del 1861 per capire qual fosse la situazione economica al principio del nuovo Regno d’Italia. Ecco il quadro sintetico del debito pubblico italiano:

DebitiLire
Cap. 1° Introduzione scritta dal ministro Bastogi700.000.000
Cap. 2° scritto da V. Emanuele I, C. Felice, C. Alberto fino all’anno 1848135.000.000
Cap. 3° scritto da Nigra, Cavour e Vegezzi1.024.970.595
Cap. 4° scritto dai tiranni del Ducato di Parma10.558.218
Cap. 5° aggiunto a Parma in pochi giorni da Farini5.000.000
Cap. 6° scritto dai tiranni di Modena11.056.380
Cap. 7° aggiunto a Modena da Farini5.000.000
Cap. 8° scritto dai Papi tiranni16.577.120
Cap. 9° Aggiunto dall’economista Pepoli13.000.000
Cap. 10 scritto dai tiranni della Toscana152.080.000
Cap. 11 aggiunto dall’economista Ricasoli56.920.000
Cap. 12 scritto dai tiranni delle Due Sicilie550.000.000
Cap. 13 aggiunto da Garibaldi, Mordini & Comp.(chi lo sa?)
Totale2.806.383.583

L’Armonia di Torino il 2 maggio 1861 così commentò:

La conclusione è che nel Gran Libro del gran regno d’Italia si hanno da scrivere fin d’ora lire 2.806.383.583! Di questi due miliardi e ottocentosei milioni di debito, settecentoventidue [milioni] furono contratti in tanti secoli dai Re tiranni, gli altri duemila ottantaquattro milioni si debbono ai liberali ed ai grandi professori di economia politica. Bravo Bastogi, il Gran Libro del debito pubblico del regno d’Italia sarà un grande insegnamento pei popoli, e un documento preziosissimo per la storia.[34]

Nello stesso anno, un anonimo autore scriveva nel libro Palmerston, Ricasoli ed il Regno di Napoli:

Coll’unificazione del debito pubblico si aggravò il debito della maggioranza per giovare alla minorità, coll’imprestito si aggravarono gli uni e gli altri debiti, nulla dimostrando il vantato ottenuto risultamento, poiché ad onta di qualsiasi cangiamento i capitali ritrarne debbono necessariamente incontrastabile vantaggio.[35]

Per pareggiare le uscite e le entrate occorreva quindi sempre più denaro ed ecco la corsa all’aumento delle imposte per coprire il deficit. Fu proposto l’aumento dei vecchi tributi di 20 milioni sul registro e sul bollo e la creazione di due nuove imposte, una di 25 milioni sulle porte e finestre e una di 100 milioni sul macinato. E qui vale citare, in ossequio alla verità, un articolo sullo stato delle finanze napoletane pubblicato dall’Armonia di Torino 5 anni prima dell’annessione al Piemonte, il 14 agosto 1856:

Nel regno delle Due Sicilie non si trovano debiti, non aggravi, non ladri. Le finanze napolitane sono le più prospere dell’Europa. Si reputano fortunati coloro che posseggono qualche cartella del Debito pubblico partenopeo, giacché si negoziano a L. 112 nelle borse principali. Non corre anno in Piemonte senza che si contraggano imprestiti; e il Re di Napoli non domanda mai danaro a nessuno! Le imposte sono modicissime. L’isola di Sicilia non patisce l’imposta di sangue, che chiamasi coscrizione militare; ed essa non va soggetta ai più ordinari e comuni balzelli, come sono quello del sale, l’altro del tabacco, il terzo della polvere, e il quarto della carta bollata. In Piemonte non si possono scrivere due linee ufficiali ad un ministro senza spendere 50 centesimi pel bollo della carta![36]

Nonostante le spese di due milioni di ducati sostenute per la presenza dell’esercito austriaco a Napoli dal 24 maggio 1821 al 1827, i Borbone, che avevano un Regno grande circa due volte quello del Piemonte, avevano accumulato solo un debito di cinquecentocinquanta milioni di ducati. Nel 1876, Cesare Cantù così descrisse lo stato delle finanze siciliane prima dell’unità:

Al principio della rivoluzione le casse della Sicilia rigurgitavano, talché a Palermo dovette sottofondarsi la sala dove si riponeva il contante. Il paese nel 1857 aveva asportato per dieci e importato per sette. L’imposta era misurata sopra l’antico valore dei fondi, il quale essendosi triplicato, a un nulla si riducea la diretta; al macinato, sebbene ingiusto come tutte le imposte che colpiscono e povero e ricco, erano avvezzi, talché non ne facevano lamento. Ora invece bisognò che il Piemonte mandasse denari, e il Comune di Palermo sospese gl’interessi del 1860.[37]

Si potrebbe sostenere che fu solo un problema dei primi anni postunitari, ma con questi presupposti poteva migliorare la situazione? «Tu mi chiedi che cosa prevedo circa le cose nostre?» scriveva Massimo D’Azeglio ad Antonio Panizzi il 3 ottobre 1865. E aggiungeva:

Mi metti in un bel imbroglio! Pure dirò, continuò D’Azeglio, quello che mi pare più plausibile. Noi corriam due rischi: l’uno andarsene per marasmo; l’altro andarsene per cataclisma economico. Per marasmo intendo quello stato di degradazione lenta che distrugge ogni organismo, quando manca la vitalità. L’Italia, improvvisata in furia, non ha elementi di durata, né d’ordine, né di forza. Non istruzione, non senso del dovere, del sacrificio, del vero, del pratico, ec. […]

Se le finanze fossero discrete, bene o male si va avanti; ma al modo pazzo che abbiamo tenuto, potrebbe anche mancarci il tempo per morir di marasmo. O bisogna vere il coraggio di dire al pubblico: Venezia e Roma per ora non ci si pensa, e allor viene subito il risparmio. Si taglia sul vivo: esercito e marina; e in due o tre anni eccoci al pari. O se non si trova un muso di ministro che sia capace di dir la verità al paese, bisogna seguitare con un deficit di circa 300 milioni annui, dissanguare il paese con le imposte, creare ed aumentare il malcontento che è già grande, e poi e poi? Già non si riesce a metterci in pari, e in questi casi si sa come finisce, Io sin dal 61 ho detto chiaro e tondo la verità; chi m’ha seguitato? […] ma finché il Governo non parla chiaro lui e non dice la verità al paese, che parli io o che mi fischino e m’applaudano, ciò non conchiude niente. Dunque è perduta ogni speranza? No. Due gran fatti stanno per noi. La via di tornare indietro è chiusa: e neppure all’Europa conviene sia riaperta. Poi tutto il male, il disordine è alla superficie. […]

Quando mi dici che ti ripugna a venire qui a vivere in mezzo a tutti i matti che dettano in politica, se sapessi come ti capisco! Se sapessi che pene d’inferno provo io a dover convivere con questa generazione di balordi![38]

Due anni dopo, il 3 maggio 1867, il pugliese Filippo Lacaita,[39] amico di Lord Gladston e John Russel, confidava al comune amico a Londra, Antonio Panizzi:

Mio caro Panizzi […]

Non occorre che vi dica quanto mi abbia rattristato la quasi subitanea fine del povero Poerio; eravamo amici dal 1833! […]

Di politica non ho proprio l’animo di parlarvene, tanto mi pare che le cose van male, malissimo […].

Qui il prestigio morale e quindi la forza del Governo, è caduto a segno che nessuno più osa prenderne le difese. La pazzia domina, e che risma di pazzia! La città impoverisce ed evidentemente scade. Non c’è che un sol desiderio, quello di mutare il presente stato; ma per buona ventura nessuno ha il coraggio di prendere l’iniziativa. In questo momento passa sotto le mie finestre il convoglio con il povero Poerio! Sono quasi inclinato a dire: beato lui, che non vedrà que’ mali che io temo per l’Italia![40]

Conclusione, nei primi sette anni del regno d’Italia, dal 1861 al 1867, le spese dello Stato ammontavano a 7.431.119.884,04 (sette miliardi e 431 milioni). Di tutte le spese che si fecero dal 1860 in poi, se ne impiegarono per la difesa nazionale, ossia per la guerra e la marina, due miliardi e 700 milioni circa. Diciotto anni più tardi, nel 1878, Pasquale Villari scriveva nelle Lettere meridionali:

Io non mi sono mai potuto persuadere che in un paese libero, che trae come il nostro la sua ricchezza e la sua vita economica principalmente dai prodotti del suolo, le moltitudini, e più di tutte quelle che sono date all’agricoltura, debbano restare nella misera e dura condizione, in cui le lasciarono i passati Governi. […]

E quando sento da molte parti persone autorevoli, esperte, imparziali, ripetere, che il nuovo ordinamento politico d’Italia non migliorò le condi­zioni di questa gente, e qualche volta anche le peggiorò, sono indotto a domandarmi: una libertà fondata in questo modo può dirsi che riposi sopra una base sicura? […]

Obbligare il contadino ed il proletario alla scuola, insegnar loro a leggere libri e giornali, insegnar loro i doveri e i diritti dell’uomo, chiamarli nell’esercito, dove imparano col rispetto degli altri quello della dignità propria, per farli tornar poi ad una vita che spesso è simile alla vita di schiavi, e credere che così non si apparecchiano pericoli per l’avvenire, significa, mi sembra, rinnegare la Storia, l’esperienza e la ragione.[41]

Nello stesso anno, a Jessie White Mario che gli scriveva: «Io sono da molti anni lontana dall’Inghilterra, e quindi vorrei sapere da Lei se ha trovato a Londra miserie simili o peggiori di quelle vedute a Napoli»; Villari le rispose: «Ebbene, io le assicuro sul mio onore di essere convinto, che i poveri di Napoli stanno infinitamente, senza paragone alcuno, peggio di quelli di Londra».[42]


[1] Bastogi, ministro delle finanze dichiarò alla Camera nella tornata del 30 giugno 1861: «Il Piemonte aveva nel 1848 un debito pubblico di 8 a 9 milioni di rendita annua; nel 1861 aveva accresciuto il suo debito fino a 59 milioni, vale a dire aveva creato un miliardo di debiti in capitale. Il Piemonte ebbe il coraggio di spendere in undici anni 444 milioni in spese straordinarie per l’esercito, 33 milioni in spese straordinarie per ampliare la sua marina; pagò all’Austria, dopo l’infelice, quanto e più ancora, gloriosa battaglia di Novara, 80 milioni; pagò 123 milioni, valor nominale, in tanti titoli di debito pubblico, per riscattare la bellissima Lombardia; diede alla Francia circa 60 milioni per pagare le ultime spese della guerra; si è quindi sobbarcato ad un pagamento annuale di 2 milioni all’Inghilterra per le spese contratte per la spedizione della Crimea; e tutto questo non solo, ma spese ancora oltre 200 milioni per costruire strade ferrate. […] Ecco, o signori, le cause dell’antico debito del Piemonte. Ecco ciò che il Piemonte fece, a tutto suo rischio, e a benefizio di lutti gl’Italiani».

[2] Il 21 ottobre 1859 fu pubblicato un decreto reale che autorizzava il ministro di finanze a contrarre un prestito di 100 milioni di lire, mediante la vendita di rendite sullo Stato.

[3] Nel 1863, per pareggiare le entrate e le uscite saranno necessari un miliardo e 325 milioni di lire (1.325.000.000).

[4] IL PUNGOLO, N. 24, Napoli mercoledì 7 novembre 1860, pag. 94.

[5] Il 17 marzo 1861, Vittorio Emanuele assume per sé e i suoi successori il titolo di Re d’Italia.

[6] LA CIVILTÀ CATTOLICA, vol. X, Roma 1861, p. 368.

[7] G. MARGOTTI, op. cit., pp. 35 e 51.

[8] CHE TUONI, Anno I, N. 170, Napoli 9 febbraio 1861.

[9] ANONIMO, Le condizioni del Regno delle Due Sicilie considerate nel Parlamento di Torino da’ Deputati delle provincie meridionali, 1861, p. 51.

[10] Ivi, p. 63

[11] CHE TUONI !!!, Anno I, N. 202, Napoli 21 marzo 1861, p. 809.

[12] La cantaia è antica unità di misura, corrisponde al quintale.

[13] Ivi, N. 203, Napoli 22 marzo 1861, p. 813.

[14] Ibidem

[15] CHE TUONI !!!, ANNO I, N. 205, Napoli 26 marzo 1861.

[16] ATTI DEL PARLAMENTO, Seduta del 3 aprile 1861, p. 392.

[17] LA CIVILTÀ CATTOLICA, vol. X, Roma 1861, p. 241.

[18] Lord Normanby nel fare la sua mozione per domandare al ministro degli esteri Russel la pubblicazione di nuovi documenti sugli affari d’Italia, disse, tra l’altro, alla Camera dei Lord il 4 marzo 1861: «…egli sa che due giorni prima che Garibaldi entrasse in Napoli, furono pagati in quella città 25 milioni di franchi, per apparecchiare la sua venuta». (IL PARLAMENTO, giornale di Napoli, N. 13 del 9 marzo 1861.)

[19] Dati tratti da GALLETTI G. & TROMPEO P., Atti del Parlamento italiano, vol. 2, tipografia Eredi Botta, Torino 1862, p. 28.

[20] ATTI DEL PARLAMENTO ITALIANO – Tornata del 29 aprile 1861, tipografia Eredi Botta, Torino 1861, p. 755.

[21] L’insieme dei beni immobili appartenenti a enti civili o ecclesiastici.

[22] Atti del Parlamento italiano, seduta pomeridiana del 12 luglio 1861, tipografia Eredi Botta, Torino 1861, p. 1984.

[23] Ivi, p. 1988.

[24] Atti del Parlamento italiano, tornata del 12 luglio 1861, op. cit. p. 2003.

[25] Con la Legge d’unificazione dei Debiti pubblici d’Italia, N. 94 del 10 luglio 1861, i debiti dei vari Stati preunitari furono iscritti nel “Gran Libro del Debito pubblico del Regno d’Italia”.

[26] Su 443 deputati eletti, furono presenti alla votazione solo 256; votarono a favore del prestito 242, contro 14. (Per questo prestito si pagheranno circa 35.744.000 di lire all’anno.)

[27] L. ROMANO, op. cit., p. 112.

[28] C. CANTÙ, op. cit., p. 618.

[29] C. CANTÙ, Dell’Indipendenza d’Italia, op. cit., vol. III, nota a p. 617.

[30] Ibidem

[31] Asproni nacque in provincia di Nuoro nel 1808, fu canonico. Smise l’abito per diventare deputato nel 1849; seguì Garibaldi a Palermo nel 1860.

[32] GIUSEPPE ROMANO, Lettere politiche del Deputato Giuseppe Romano al Deputato Giorgio Asproni, Stamp. del Fibreno, Napoli 1866, p. 21.

[33] Memorie per la Storia de’ nostri tempi…, op.cit. p. 36 – (IL PRIMO GRAN LIBRO della grande storia del grande regno d’Italia – Grande edizione del grandissimo Bastogi.)

[34] Ibidem.

[35] ANONIMO, Palmerston, Ricasoli ed il Regno di Napoli, 1861, p. 20.

[36] L’ARMONIA, N. 188, Torino 14 agosto 1856 – (Nel 1867 le cartelle Debito pubblico partenopeo non arrivavano a L. 60.)

[37] C. CANTÙ, Della indipendenza italiana…, vol. III, op. cit., p. 555.

[38] L. FAGAN, Lettere ad Antonio Panizzi…, op. cit., pp. 491-493.

[39] Lacaita fu sospettato di aver fornito a Lord Gladstone le notizie riguardanti i prigionieri politici e d’essere stato l’ispiratore delle sue lettere.

[40] Ivi, p. 498.

[41] PASQUALE VILLARI, Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, Successori Le Monnier, Firenze 1878. (Vedi nella Prefazione.)

[42] Ivi, p. 15.

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