La spiaggia di Scheveningen e la chiesa di Nuenen: i Van Gogh ritrovati
Lunedì 6 febbraio a Napoli pioviggina. È una mattinata grigia. Ma il Salone delle Feste nella Reggia-Museo di Capodimonte è tutto illuminato. E brillano i magnifici lampadari pendenti dal chiaro soffitto affrescato e le appliques poste davanti agli specchi che ne moltiplicano le luci. Una fitta folla gremisce il salone. Guardie di Finanza, giornalisti della stampa nazionale ed estera, soprattutto olandese, e curiosi infiltrati.
Dietro un lungo tavolo, importanti personalità olandesi e nostrane. L’ambasciatore del Regno d’Olanda in Italia, i più alti gradi della Guardia di Finanza e della Magistratura, del Governo e delle Sovrintendenze dei Beni Culturali. Celebrano uno straordinario avvenimento. Il ritorno al mondo di due quadri di Vincent Van Gogh (1853/1890), un genio della pittura. Rubati a dicembre nel 2002 ad Amsterdam, ritrovati nel settembre 2016 a Castellammare di Stabia. Come siano arrivati fin qua non si sa. Si trovavano in una casa di un camorrista. Perché questi li teneva con sé? gli piaceva guardarli? o forse voleva ricavarne prestigio? oppure li considerava un bene rifugio? o magari se ne serviva come garanzia per i suoi commerci di droga?
Nel salone della Reggia, Axel Ruger, direttore del Museo Van Gogh ad Amsterdam, ricorda la sua pena nel vedere nel suo museo il posto sulla parete lasciato vuoto da quei quadri che ormai credeva perduti per sempre. Una pena durata quattordici anni, quanti all’incirca è stata l’attività artistica di Vincent, finita nel 1890. Quando il pittore, a trentasette anni, muore. Mentre fuma la pipa. Alcune ore dopo essersi sparato nella pancia.
Joep Wijnands, l’ambasciatore del Regno d’Olanda, sintetizza l’avvenimento che si celebra questa mattina come un trionfo dell’arte, della legalità e dell’amicizia tra l’Olanda e Napoli. Conclude esaltando la città con il ricordo di “Napule è mille culure” di Pino Daniele. E i napoletani, che in occasioni come questa si ricordano di esserlo, applaudono.
Qui, nel museo di Capodimonte, Alex Ruger lascerà per venti giorni, dal 7 al 26 febbraio, i quadri ritrovati.
Il direttore di Capodimonte Sylvain Bellenger si dice onorato di offrire la cornice monumentale della Reggia, “il più bel museo del mondo”, allo straordinario recupero operato dall’Unità Investigativa della Guardia di Finanza. Ricorda anche il furto, nell’ottobre del 1969, a Palermo, nell’Oratorio di San Lorenzo, della “Natività” di Caravaggio, mai più ritrovata. Non a caso porrà le opere di Van Gogh nella sala vicina a quella in cui si conserva la Flagellazione di Caravaggio. Osserva che per i due artisti “ si prova un’empatia che va oltre l’arte ”. Come se il dramma della loro vita incarnasse il dramma umano. Gillo Dorfles, a proposito di Van Gogh, ha scritto che “le sue opere, che emanano luce, forza vitale ma anche disperazione, sono divenute il segno dell’umano disagio interiore”.
Entrambi ribelli, Van Gogh e Caravaggio contestano la mentalità del proprio tempo. Vivono in tempi diversi, tuttavia.
Caravaggio (1571/1610) vive dopo il Rinascimento trionfante, che aveva esaltato i sacri ardori umani, quelli che poi il Concilio di Trento (1545/1573) avrebbe voluto controllare o spegnere. Ma che si esprimeranno nei liberi spazi celesti del barocco, seicentesco ed oltre. Caravaggio resta ancora sulla terra, ne “la scatola chiusa del mondo” (Roberto Longhi), in quello spazio terreno inscatolato secondo le regole della razionale prospettiva. Ma non riesce a sopportarlo e se ne libera ricoprendolo di nero. E crea il buio.
Quella di Van Gogh è una situazione ambientale più difficile, quella che porterà all’angosciante incubo della alienazione contemporanea. È vero che, al tempo suo, dopo la razionale retorica prospettica del neoclassicismo, giacobino, napoleonico e post napoleonico, c’è una diffusa reazione artistica. Che durerà ancora a lungo. Ma che, però, non inciderà profondamente sulle strutture sociali.
Ormai l’astratto razionalismo con la sua piramide prospettica impregnerà la vita politica, l’economia, la burocrazia, le università, il mondo culturale e finanche la mentalità corrente della gente comune.
Ormai l’astrazione sta cancellando la realtà: è l’alienazione odierna. Van Gogh la profetizza soffrendo. Lui, pazzo, ne è esente. Perché ne è protetto dalla sua sensibilità esagerata, dalla sua capacità di provare sentimenti profondi al di là di ogni conformismo. Perciò è uomo e artista geniale. La sua capacità sentimentale supera qualsiasi conformismo, anche quello caritatevole. Il suo amore per gli umili è talmente forte, la comprensione della loro miseria è talmente profonda che, quando va a fare il missionario nel centro carbonifero del Borinage, in Belgio, si fa più umile degli umili, veste miseramente, dorme per terra, diventa sporco e lacero. Il suo fare è talmente esagerato che l’ispettore del Comitato di Evangelizzazione lo allontana “per eccesso di zelo”. Si innamora di una prostituta che, già madre di un bimbo, ne aspetta un altro. Vorrebbe sposarla per redimerla. Ne disegna il ritratto, “Sorrow” lo intitola.
Vincent è un passionale. “Dipingo ciò che sento e sento ciò che dipingo”scrive. Distorce i visi dei suoi personaggi, gli edifici e gli oggetti, le cose. Anche per troppo amore. Come quella sedia in primo piano nella camera della “Casa gialla” (1888). Sembra quasi che la deformi perché la stringe troppo forte tra le braccia. Come un innamorato stringe a sé la sua donna quasi da strizzarla, da toglierle il respiro e le scompiglia capelli e vestiti.
Ora, nella Reggia-Museo di Capodimonte, sono in mostra due sue opere. C’è “La spiaggia di Scheveningen” del 1882 e “La chiesa di Nuenen”, dipinta due anni dopo. I due quadri sono posti su un supporto leggermente inclinato, come un leggio, ovvero come un cavalletto. Così deve averli guardati Vincent mentre li dipingeva. E così noi possiamo vederli con lo sguardo dell’autore. I quadri parlano e si raccontano.
“La spiaggia di Sheveningen” rappresenta un paesaggio marino nell’attesa di una tempesta. Una barca è stata tirata sulla spiaggia, un’altra è in mare. Alcune persone sulla spiaggia attendono. Il colore grigio, il cielo che pesa con le sue nuvole sulla superficie del mare costituiscono una generale caratteristica del paesaggio olandese. Ma qui, in questo quadro, esiste una luce particolare, che affascina. Si diffonde diafana nell’aria, brilla sul mare. Vive. Strisce orizzontali di un colore biancastro, audacemente spremuto direttamente dal tubetto, disegnano la bianca schiuma delle onde del mare in tempesta.
Van Gogh racconta che, mentre le ritraeva, il vento gli sbatteva in faccia granelli di sabbia che si fermavano anche sul quadro. Del mare scrive: “Il cuore dell’uomo è molto simile al mare, ha le sue tempeste, le sue maree e i suoi abissi.” E ancora: “Un salmista descrive una tempesta in mare. Deve aver sentito la tempesta nel suo cuore per descriverla così”.
“La chiesa di Nuenen”, rappresentata nell’altro quadro in mostra, non accoglie Vincent volgendo verso di lui la porta aperta, ma gli rivolge uno spigolo, che sembra respingerlo, come il vertice di quella sorta di triangolo che è abbozzato sul terreno. Il dipinto risente della realtà del paesaggio olandese e della sua tradizione pittorica seicentesca. E ha un colore piuttosto cupo. Ma dei puntini di un colore giallo sembrano granelli d’oro che ne illuminano il grigiore, mentre una dolcissima luce ricopre, come un velo, lo sfondo.
Vincent schiarirà più tardi la sua tavolozza. Quando conoscerà Parigi. È il 1886. La città sembra essere il cuore del mondo. Vi incontrerà Monet, Sisley, Pissarro, Degas, Renoir, cioè gli impressionisti, quelli che cercano di liberarsi dalla schematizzazione razionale della realtà ritraendo il mondo alla prima impressione. Conoscerà Seurat e Signac, i post- impressionisti, quelli che, dopo averlo licenziato, riassumono il razionalismo. Ma in una diversa accezione, studiando attentamente, scientificamente, la composizione dei vari colori attuati dall’occhio umano. È a Parigi che Van Gogh conoscerà e diventerà amico di Paul Gauguin (1848/1903).
Questi contesta a tal punto il mondo occidentale da partirsene, per cercare un mondo puro e incontaminato in luoghi lontani, secondo la teoria rousseauviana del buon selvaggio (tuttora in vigore) e porterà con sé a Parigi una indigena di quei luoghi, che lo abbandonerà scappando via dopo averlo derubato. Vincent dell’esperienza parigina dirà: “L’aria francese libera il cervello e mi fa bene, un mondo di bene”e rinnoverà il suo modo di dipingere e i suoi colori. Saranno colori che stridono tra loro ma che pure si accordano ed esprimono “calma e armonia”, come lui stesso ci dice.
Li stenderà sulla tela a larghe strisciate, o a piccoli tratti come Signac, ma senza scientismi, o a larghe campiture, come Gauguin. Ma Gauguin disegna i limiti delle figure e Van Gogh, che pure considera l’amico un suo maestro, lo contesta. Lui vuole cercare la verità nella natura e le linee in natura non esistono. Sembra che da qui sia nato quel diverbio tra i due per il quale Vincent, agitatissimo e fuori di sé, si taglia un lobo dell’orecchio.
Ormai per Vincent nella natura vi è Dio stesso e nella natura lo cercherà. Nella bellezza dei fiori, degli iris e dei girasoli che ama più di tutti perché volgono sempre il capo alla luce, come l’anima a Dio. Dapprima aveva detto: “mi sento attratto dalla religione, desidero consolare gli umili”. Ma poi, già nel 1881, parla di una eclissi della fede. Si accosterà ad altre religioni, si dipingerà in un suo autoritratto come un bonzo, la testa rasa, una catenina e un medaglione al posto della cravatta. Ma è figlio di un pastore evangelico. Le chiese fanno parte della sua infanzia.
Il passato sarà sempre dentro di lui e tante chiese dipingerà ancora e cappelle cimiteriali. L’ultima sarà Notre Dame a Auvers e anch’essa non volgerà verso di lui la porta aperta. È un edificio violaceo, arroccato e traballante, chiuso nei suoi muri; mentre ancora una volta un triangolo abbozzato sul terreno volge verso Vincent uno spigolo aguzzo e lo respinge. Lui sa che in queste chiese non troverà Dio. Si volgerà al cielo. Lo dipinge con gli astri. Vorrebbe avere le stelle fisse come guida. Ma anche loro si muovono, vorticosamente, nello spazio.
Van Gogh rappresenta, mi sembra, molto bene una parte di quella società contemporanea che ha sete di vivere, che cerca punti di riferimento intorno a sé, ma non li trova; sente la forza della vita dentro di sé, ma non ha modo di esprimerla né di comunicarla. Manca l’Arché, il Principio, Dio.
Sembra che appunto il dipinto di Van Gogh “Notte stellata” arriverà dal MOMA di New York a Capodimonte. Lo ha detto pubblicamente, durante la celebrazione della mattina, il governatore della Campania Vincenzo De Luca. Ha detto anche che destinerà i fondi strutturali occorrenti per il museo di Capodimonte. Speriamo.
Adriana Dragoni
già publicato da agenziaradicale.com