la storia insegna…di Claudio Romano
L’uomo saggio impara dall’esperienza altrui.
Il più saggio degli uomini impara dalla “storia”, la quale altro non è che l’insieme delle esperienze di tutti gli altri uomini che hanno vissuto, prima di noi, su questa terra.
È da po’ di tempo che qualsiasi quotidiano si legga, qualsiasi telegiornale si veda, inevitabilmente si parla di “deficit pubblico”, di “tagli alla spesa per riportare in pareggio il bilancio dello Stato”, di “rimodulazione del- la spesa pubblica”, di “interventi sui criteri di assegna- zione delle pensioni” e via dicendo. Ma queste proble- matiche, in passato, hanno mai disturbato il sonno dei nostri progenitori? E se si, come hanno risolto queste tematiche i governanti dell’epoca? Fare quest’operazio- ne significa volgere il nostro sguardo all’indietro, signi- fica interrogare la “storia” per vedere chi, prima di noi, si è cimentato con queste difficoltà e come vi ha posto rimedio. In effetti, problematiche “identiche” a quelle poc’anzi menzionate avevano interessato il Regno delle Due Sicilie circa centottanta anni fa.
Per comprendere appieno i termini della questione, è però necessario un preambolo.
Nel 1820, in tutta Europa ma soprattutto nella penisola italica, vi fu un rigurgito di moti rivoluzionari. In parti- colare, nel Regno delle Due Sicilie, la preoccupazione di una rivolta popolare che riportasse al potere i giaco- bini, com’era accaduto pochi anni prima, era molto for- te, per cui Ferdinando I pensò bene di chiedere l’inter- vento militare dell’Austria affinché un esercito fidato assicurasse l’ordine pubblico e tutelasse il suo trono.
Fu così che il 18 ottobre 1821, le truppe austriache entrarono in Napoli. L’Impero asburgico, aveva accetta- to di “occupare” militarmente il Regno borbonico in quanto riteneva d’ottenere da ciò nuovo prestigio internazionale. Inoltre, le contropartite che erano state chie- ste dagli austriaci ed accettate dal Borbone, erano per loro particolarmente “interessanti”. Infatti, la Corona partenopea, si era impegnata a coprire le spese per il vitto, il soggiorno e lo stipendio delle truppe di Vienna e, trattandosi di oltre quarantaduemila uomini, la spesa era veramente notevole!
Ben presto la situazione politica in Europa (ed anche nella penisola italica) si stabilizzò ed i venti “rivoluzio- nari” cessarono. A quel punto l’Austria aveva tutto l’in- teresse che quei suoi soldati continuassero ad essere sul libro paga del Borbone mentre, quest’ultimo premeva affinché i soldati asburgici rientrassero in Patria. Ma a Vienna erano diventati improvvisamente duri d’orec- chio e le reiterate istanze degli ambasciatori partenopei continuavano a cadere nel vuoto. Verso la metà del 1823, il contingente austriaco presente a Napoli era sceso a trentacinquemila uomini e solo con il Trattato sotto- scritto il 31 agosto 1824 fu stabilito un progressivo piano di rientro che prevedeva il rimpatrio di tutti gli austriaci rimasti entro la fine di maggio del 1826.
Ma la partenza dei vari scaglioni veniva sempre riman- data ed i conti del Borbone andavano sempre più in rosso. Quando nel 1825 salì al trono partenopeo Francesco I, gli austriaci presenti nel Regno erano ancora dodici- mila. Il nuovo Sovrano intavolò delle stingenti trattative che lo videro impegnarsi in prima persona, ma la for- za politico-diplomatica della sua corona era poca cosa paragonata a quella degli Asburgo, per cui riuscì solo a ridurre ulteriormente il contingente austriaco che con- tinuava a godere della piacevole “ombra del Vesuvio”.
La spesa pubblica era talmente alta che Francesco I, per tentare di pareggiare i conti, fu praticamente “costret- to” ad introdurre una tassazione tanto pesante quanto odiosa ma il cui gettito sarebbe stato sicuramente cospicuo e di facile riscossione: la “tassa sul macinato” che entrò in vigore il 28 maggio del 1826.
Solo nel marzo del 1827, a fronte di un incessante lavoro diplomatico, l’ultimo soldato austriaco lasciò Napoli per fare rientro in Patria e così si arrestò quell’emorra- gia finanziaria che aveva creato un enorme deficit nel bilancio partenopeo. La permanenza del contingente asburgico costò al Borbone l’astronomica cifra di ottan- tacinque milioni di Ducati, in gran parte pagati attra- verso gli introiti della “tassa sul macinato”! Sebbene le finanze del Regno fossero al tracollo, Francesco I non mise in atto politiche per il rientro del deficit in quanto l’entourage del monarca, per evitare di perdere delle “rendite di posizione” che si era assicurato all’ombra del sostentamento delle truppe austriache, fece l’impossibile per mascherare agli occhi del Sovrano l’effettiva condizione economica facendo credere al Re che tutto andava bene. Ma, con il passare dei mesi, la situazione divenne sempre più pesante ed il deficit pubblico era salito a livelli altissimi, mai raggiunti in precedenza; ciò nonostante, molti esponenti della Corte borbonica continuavano ad asserire pubblicamente che tutto andava bene, ignorando il malumore del popolo e, soprattutto, nascondendolo al Re.
Nel novembre del 1830, morì Francesco I e gli succes- se al trono il figlio Ferdinando II di Borbone. Quando costui prese il potere, subito si accorse che la situazio- ne economica del Regno era al collasso. Innanzitutto notò che molti esponenti del suo governo, insediati dal padre, godevano di “rendite di Stato” tanto “generose” quanto immotivate mentre taluni dipendenti pubblici (tra cui molti militari) avevano avuto dei considerevoli aumenti di stipendio, del tutto immotivati ed in dero- ga ai regolamenti in vigore. Le indagini che il Sovrano promosse immediatamente, dimostrarono che questi personaggi erano riusciti ad ottenere tali benefici con il beneplacito di Francesco I che li aveva elargiti con estre- ma faciloneria, senza pensare alle conseguenze per il bilancio pubblico.
Il buon Ferdinando II si rese conto che la situazione era talmente grave e necessitava di un intervento immedia- to, forte e risolutivo che non poteva essere rimandato. Quanto testé affermato, lo si può desumere dal tono del Real Decreto n° 104 dell’11 gennaio del 1831, con il quale il giovane Sovrano intese dettare le nuove linee di condotta. Il dispositivo di legge recita testualmente: “… Fin da’ primi momenti del Nostro avvenimento al Trono, Noi dichiarammo esservi nelle finanze delle piaghe profonde. Promettemmo di applicarci a curarle, e recare nel tempo stesso qualche alleviamento a’ pubblici pesi. Le conseguenze fatali della straniera usurpazione, gli avvenimenti disgraziati del 1820 hanno in prima ri- volte le nostre cure alla parte de’ nostri dominj al di qua del Faro (la parte continentale del Regno, n.d.A.). Questa preferenza era comandata dalla situazione in cui abbiamo trovato questa Tesoreria Generale, dal squilibrio in cui trovavansi le sue risorse e le sue obbligazioni al cominciare dal corrente anno. (…) Noi abbiamo voluto conoscere in tutta la sua nudità lo stato di situazione della Tesoreria Generale di Napoli. Per quanto triste essa sia, non ne faremo mistero. Questa leale franchezza sarà degna di Noi, sarà degna del popolo generoso di cui la divina Provvidenza ci ha confidato il governo. Il decreto de’ 28 di maggio 1826 aveva fatto sperare uno stabile equilibrio tra le rendite ed i pesi ne’ dominj al di qua del Faro. Queste speranze rimasero deluse. Per le conseguenze degli avvenimenti del 1820 esisteva un deficit, che di anno in anno si aumentava per gl’interessi di cui era gravato. Sotto il titolo misterioso di “debito gal- leggiante” ammesso dalle nuove teorie di finanze, non lascia di essere un debito; e tanto più grave, tanto più molesto, perché non trova fondi di ammortizzazione un perenne presidio, perché le sue scadenze non sempre possono differirsi. La somma ne ascende a Ducati quattro milioni trecentoquarantacinquemila dugentocin- quantuno e grana 50. Il primo passo indispensabile alla prosperità delle finanze è quello di estinguerlo a gra- di. Posta così al nudo la cosa, il voto effettivo che esiste nello Stato Discusso (legge di bilancio pubblico, n.d.A.) da formarsi pel 1831, inclusa una parte del pagamento del debito galleggiante di sopra indicato, è di Ducati 1.128.167. Noi ne fummo profondamente rattristati, ma non disanimati. (…) Fedele alle Nostre promesse di fare ogni personale sacrifizio, Noi abbiamo già conceduto un rilascio dalla Nostra borsa privata di ducati 180.000 (pari al 14,5% della rata annuale per il rientro del debi- to, n.d.A.). Altro ne facciamo dall’assegnamento della Nostra Real Casa di Ducati 190.000 (pari al 15,3% della rata annuale per il rientro del debito, n.d.A.). conciliando il mantenimento ed il benessere di tutte le nostre at- tuali forze di terra e di mare, col perfetto ordine in cui sono stati rimessi i rami di marina e guerra, abbiamo ottenuto una diminuzione di ducati 340.000. La severa riforma fatta negli esiti de’ diversi Ministeri ha prodotto una economia di Ducati 531.667, per un totale di Ducati 1.241.667 il che da una rimanenza di Ducati 113.500. Pareggiati in tal modo gl’introiti e le spese dello Stato Discusso pel 1831, rimanendovi una somma disponibi- le di Ducati centodiecimila e cinquecento, Noi ci siamo proposti d’impegnarla al sollievo della parte più bisognosa del nostro popolo. Il dazio sul macinato imposto col citato decreto de’ 28 di maggio 1826 richiamava la Nostra prima attenzione. Ma questa imposta ascenden- do a Ducati un milione dugentocinquantatremila, non avrebbe in tal modo ricevuto che un poco sensibile al- leviamento. Non potendo chiedere né alla proprietà, né all’industria altri sacrifizj senza potar grave ferita a queste sorgenti della pubblica prosperità, ci siamo per necessità rivolti ad una nuova ritenuta sulle spese dette di materiale, ad una nuova ritenuta su’ soldi e su’ go- denti le pensioni di grazia e di giustizia. Essendo questa classe particolarmente rivestita della nostra fiducia, godendo le preeminenze della pubblica considerazione, degli onori, delle beneficenze, e de’ soldi che le danno più facili mezzi di sussistenza, Noi non faremo a questa classe il torto di crederla poco impegnata al pubblico bene. Questa nuova ritenuta non toccherà gl’impiegati ed i pensionisti che godono un appannaggio di Duca- ti venticinque mensili in sotto, crescerà con moderate proporzioni per le classi ascendenti, e se parrà grave per gl’impiegati e pensionisti che trovansi alla sommità, in risultato la somma che loro rimane non sarà certo
(…) Considerando che le pensioni di giustizia possono esser tassate colla stessa proporzione de’ soldi, e quelle di grazia possono soffrire un peso maggiore. Considerando che nell’alleviamento promosso a’ nostri sudditi l’imposta sul macinato richiama le Nostre prime cure, essendo quella grave è per sua natura alla classe più bisognosa e più povera. Sulla proposizione de’ Nostri Ministri Segretarj (…) Abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:
Art. 1. Sono abolite le cumulazioni tutte di soldi con soprassoldi, pensioni ed altri averi per qualsiasi titolo conceduti, e sotto qualsivoglia denominazione, la cui somma riunita oltrepassi i Ducati venticinque per me- se, di modo che restino conservati per tutte le diverse spettanze predetti venticinque mensuali. Sono da que- sta disposizione eccettuati i soprassoldi ed indennità di alloggio e di mobilio de’ militari, del pari che le indennità di scrittojo.
- I soldi e le pensioni di giustizia che non oltrepassano Ducati venticinque mensuali, saranno esenti dalla nuova ritenuta, a’ termini dell’articolo 1, la quale per le classi
- ascendenti da Ducati venticinque ed un grano verrà regolata giusta la seguente tariffa: da mensuali Duca- ti 25 ed 01 a Ducati 50, al 2,50%, da Ducati 50 ed 01 a
- Ducati 100, al 5%, da Ducati 100 ed 01 a Ducati 150,
- al 7,50%, da Ducati 150 ed 01 a Ducati 200, al 10%,
- da Ducati 200 ed 01 a Ducati 300, al 15%, da Ducati
- 300 ed 01 a Ducati 400, al 20%, da Ducati 400 ed 01 a
- Ducati 500, al 25%, da Ducati 500 ed 01 a Ducati 700,
- al 30%, da Ducati 700 ed 01 innanzi, al 40%.
- Le ritenute sulle pensioni di grazia (osservate le prescrizioni dell’articolo 1) saranno fatte al doppio della tariffa contenuta nell’articolo precedente.
- Sarà ritenuta una seconda decima sulle spese di ma- teriale.
- Il decimo che in atto si paga sulle pensioni e su’ soldi, ed in generale sugli esiti tutti della tesoreria, continue- rà a ritenersi. Le ritenute sopraindicate sono approssi- mativamente calcolate per Ducati 474.032 i quali uniti a’ Ducati 113.500, avanzo precedente, formano la som- ma di Ducati 587.532.
- Il dazio sul macinato imposto a’ termini degli ar-
- ticoli 7 e 8, capitolo III del decreto de’ 28 di maggio 1826, calcolato allora per Ducati un milione trecento- ventimila, ma che dà effettivamente Ducati un milione dugentocinquantatremila, è diminuito per la metà, seguendosi la ripartizione fattane in esecuzione del ci- tato Real decreto.
- Essendo l’importo della metà del dazio sul macinato che si sopprime in Ducati seicentoventiseimila cinque- cento, la somma che manca in Ducati trentottomila no- vecentosessantotto sarà prelevata dalle economie che nel corso dell’anno si eseguiranno da’ Nostri Ministri ne’ rispettivi dipartimenti. (…)
- Firmato FERDINANDO.
- In tutta sincerità, ritengo che le parole usate per esprimere concetti e metodologie operative rendano inutile ogni mio ulteriore commento! Ritengo inve- ce opportuno chiarire il concetto di “pensione” che all’epoca era in uso. Normalmente il “trattamento di ritiro”, sinonimo di pensione, poteva essere di due tipi: di “grazia” o di “giustizia”. La prima veniva accorda- ta dal Sovrano come “vitalizio”, solitamente a fonte di
- particolari servigi che l’interessato aveva svolto nell’arco della sua vita. La seconda era concessa a fronte del rag- giungimento di determinati requisiti anagrafici.
- Francesco I, durante il Regno, aveva concesso molti vita- lizi senza badare a quanto ciò avrebbe comportato per il bilancio pubblico, con il passare degl’anni. Un primo assestamento fu dato con il Real Decreto detto poc’anzi ma non risultò sufficiente. Fu così che Ferdinando II di Borbone, il 1° giugno del 1842, firmò un Real Decreto con il quale intese regolamentare definitivamente la ma- teria. Emblematici sono le parole ed i concetti che sono inseriti in questo dispositivo di legge.
- “Decreto n° 7405 … Veduto il Real Decreto de’ 3 di mag- gio 1816. Considerando che le pensioni di ritiro hanno per unico oggetto di accordare agl’impiegati ne’ diversi uffizii dello Stato, ed agli uffiziali di terra e di mare una onorata sussistenza, quando o l’età, o gravi infermità impediscono loro di proseguire il servizio dello Stato. Considerando avere una triste esperienza confermato che spesse volte questo benefizio si rivolge in un calcolo di particolare interesse, privando lo Stato di coloro che sono ancora in grado di prestare utili servizi. Essendo dovere del Governo porre un termine a tale abuso. (…) Abbiamo risoluto decretare e decretiamo quanto segue. Art. 1. A contare dalla pubblicazione del presente Decre-
- to rimane vietato di accogliersi domande di pensioni di ritiro, se prima non giustifichi di essersi oltrepassata l’età di anni sessantacinque per gl’impiegati civili, e di anni sessanta pe’ militari.
- 2. Coloro i quali malgrado di non esser giunti all’età so- pra enunciata, si rendessero per mali cronici incapaci di servire ulteriormente, potranno avanzare motivata domanda al Ministero da cui dipendono, il quale, pra- ticate le debite investigazioni sulla verità dell’esposto, rassegnerà la domanda alle Nostre sovrane risoluzioni, per determinarsi se abbiasi ad accordare il ritiro dispen- sando dall’età, attesa l’assoluta incapacità al servizio at- tivo, ovvero destinarsi il ricorrente ad altro impiego che richieda minore attività e lavoro. (…)
- Firmato FERDINANDO.
- Anche in questo caso, le parole utilizzate ed i concetti chiaramente espressi rendono inutile ogni mio ulteriore commento. Tuttavia, in conclusione, sento di dover pro- porvi una mia breve considerazione. L’uomo è un ani- male intelligente che impara dalla propria esperienza. L’uomo saggio impara dall’esperienza altrui. Il più sag- gio degli uomini impara dalla “storia” la quale altro non è che l’insieme delle esperienze di tutti gli altri uomini che hanno vissuto, prima di noi, su questa terra!
IL PALAZZO DELL’AMMIRAGLIATO DI NAPOLI
Il palazzo dell’Ammiragliato di Napoli nasce, in quanto immobile, nel 1300, inserito in un ampio complesso conventuale. In origine la sua morfologia era di gran lunga diversa rispetto all’attuale e, sebbene, è cambiata con il passare dei secoli, continuò a svolgere la sua originale funzione fino alla seconda metà del XVIII secolo. Infatti,
in concomitanza dell’espulsione dal Regno borbonico dei Gesuiti, attorno al 1780 fu completamente trasformato per diventare un “albergo” di lusso con il nome di “Locanda Reale”. Tale utilizzo, giustificato dall’estrema sua vicinanza alla residenza del Sovrano, proseguì per alcuni decenni. La leggenda vuole che nelle sue stanze vi abbia soggiornato anche l´ammiraglio inglese Horatio Nelson quando, reduce dal successo di Abukir, fu ospite del Borbone. Si narra che l`ufficiale inglese avesse scelto questo più “discreto” alloggio in luogo di una sistemazione nel Palazzo Reale per potersi incontrare con Lady Emma Hamilton, giovanissima e bellissima moglie dell´anziano ambasciatore inglese a Napoli, con la quale (si dice) fosse nato un audace flirt. Nel 1806, con l’arrivo dei francesi nella città partenopea, la locanda fu dapprima requisita per ospitare militari di alto rango e, successivamente, fu trasformata per accogliere degli uffici di alcuni dicasteri del neonato Regno murattiano, tra cui anche quello della Marina da Guerra. Con la restaurazione borbonica del 1815, l’edificio proseguì la sua funzione d’immobile ad uso governativo ospitando dapprima la sede del ministero delle Finanze e poi quella della Real Marina, più consona per la sua particolare vicinanza alla base navale partenopea. Nel palazzo fu sistemata anche l’abitazione del Principe di Capua, fratello del Re e responsabile dell’Armata di Mare borbonica. Quando costui fu costretto a lasciare la Corte napoletana per voler sposare la donna che amava che però non poteva vantare nobili origini, nel 1837 il suo incarico passò ad un altro fratello del Re, Luigi di Borbone, Conte d’Aquila. Costui fece subito ristrutturare intero l’edificio, inclusa l’abitazione destinata a diventare la sua residenza.
Venne così creato un appartamento di ben 1.800 mq. che non doveva sfigurare a confronto della residenza Reale. Le pareti di molte stanze, incluse quelle del salone di rappresentanza, furono impreziosite con i broccati prodotti dalle seteria di San Leucio analogamente a ciò che abitualmente si faceva per gli ambienti della Regia di Capodimonte o quella di Caserta. Il Conte d’Aquila, il 3 dicembre del 1850, fu nominato Presidente del Consiglio di Ammiragliato e, pertanto, era solito ospitare nel suo appartamento le riunioni di tale importante consesso. Per questo motivo l’immobile prese ad essere identificato con l’appellativo di “Palazzo dell’Ammiragliato”. Luigi di Borbone abitò in questo palazzo fino al settembre del 1860, cioè fino alla vigilia dell’arrivo in città di Garibaldi. Con l’Unità d’Italia, l’edificio mantenne la sua funzione militare ospitando la sede del “Ripartimento Meridionale” della Regia Marina e, con essa, l’alloggio dell’Ammiraglio comandante. Tutt’oggi il “Palazzo dell’Ammiragliato” di Napoli, ospita uffici della Marina Militare nonché l’alloggio di rappresentanza dell’Ammiraglio (italiano) comandante le Forze Navali NATO in Mediterraneo. Talvolta, nelle sue stanze si tengono incontri o ricevimenti in onore di eminenti rappresentati, militari e civili, di altre nazioni che, immancabilmente, rimangono affascinati dalla storia e dalla bellezza di questo immobile, impreziosito da numerose opere d’arte concesse in temporaneo prestito dai maggiori musei.