LA TESTIMONIANZA DI UNA GIORNALISTA NAPOLETANA CERTAMENTE NON “BORBONICA”
All’indomani della morte di Francesco II, avvenuta ad Arco di Trento il 27 dicembre 1894, vi fu un compianto generale, non solo nella piccola cittadina trentina, dove tutta la gente aveva conosciuto ed amato questo gentile “signore”, che era sempre affabile con tutti, ogni mattina preciso alla celebrazione della Santa Messa, e la sera per il Santo Rosario e la Benedizione Eucaristica, ma in ogni parte d’Italia. Nonostante l’oblio e le dicerie su questo giovane Re, sconfitto da una guerra ignobile e dal tradimento, la sua fama di vero galantuomo era conosciuta ovunque, e la generosità e carità, come le sue certe virtù, non erano nascoste ai buoni.
Ne ebbe grande dolore, certamente, tutto il mondo cattolico e la Santa Sede, conoscendo la pia vita e l’amore al Romano Pontefice di questo “buon cattolico”. Ma grande rimpianto si ebbe a Napoli e in tutto il Sud, per la morte di questo Re, che per amore del suo popolo aveva messo da parte se stesso, i suoi interessi, la sua stessa vita.
Forse con una buona ricerca si troveranno senz’altro articoli e testimonianze di tanti su di lui, ma significativa ed importante quella della giornalista napoletana Matilde Serao. Nessuno può accusare questa giornalista di essere di parte, essendo nata e cresciuta in un ambiente liberale ed antiborbonico. Ella stessa non nega le sue simpatie per certe tendenze moderne e liberiste, ma allo stesso tempo, come giornalista onesta ed eticamente ineccepibile, non poteva nascondere una verità che era nel cuore e sulle labbra di tutti. Inoltre, fondatrice e direttrice del Mattino, conosceva bene la situazione di Napoli e di tutto il mezzogiorno, dopo la fatidica ”unità d’Italia”, fatta dalla menzogna, dalla violenza e dalla corruzione. Certamente anche lei aveva dovuto constatare quando sia costato al Regno delle Due Sicilie, la conquista e la colonizzazione del proprio territorio.
Ebbene andiamo a leggere e riflettere insieme questa importante testimonianza. Matilde Serao scrisse in prima pagina un articolo dal titolo « Il Re di Napoli », in cui diceva:
«Don Francesco di Borbone è morto, cristianamente, in un piccolo paese alpino, rendendo a Dio l’anima tribolata ma serena. Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza silenziosa e la dignità di Francesco II. Colui che era stato o era parso debole sul trono, travolto dal destino, dalla ineluttabile fatalità, colui che era stato schernito come un incosciente, mentre egli subiva una catastrofe creata da mille cause incoscienti, questo povero re, questo povero giovane che non era stato felice un anno, ha lasciato che tutti i dolori umani penetrassero in lui, senza respingerli, senza lamentarsi; ed ha preso la via dell’esilio e vi è restato trentaquattro anni, senza che mai nulla si potesse dire contro di lui. Detronizzato, impoverito, restato senza patria, egli ha piegato la sua testa sotto la bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo… Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe, ecco il ritratto di Don Francesco di Borbone».
Non era dunque estranea al mondo la vita cristiana e dignitosa di Francesco di Borbone, che nel suo esilio, anche se carico di prove e sofferenze, è rimasto sereno e fiducioso, ponendo tutta la sua speranza in Dio.
Dignità, silenzio e coraggio, questo è stato il percorso della sua esistenza. Formato al culto della Verità, non volle mai compromettersi con la corruzione e il tradimento dei suoi valori. Preferì la calunnia, la povertà, la vita semplice, piuttosto che venire meno al suo giuramento di re e di cristiano.
La giornalista parla di avversità, che lo portarono alla sconfitta. A molti parve che quel suo chinarsi passivo alla sorte dei vinti fosse segno di debolezza, e su questo luogo comune si è andata a costruire tutta una leggenda nera sulla sua figura. Ancora oggi tanti, non profondamente addentrati nella conoscenza della sua figura, si fermano a quelle dicerie, e ancora guardano a lui come a “Franceschiello”, un debole, fatalista, incosciente, il quale non era in grado di saper governare, ne deridono la memoria.
Invece in questa anima nobile e reale, la giornalista legge la verità. Egli è stato un uomo giusto, leale, che cosciente del suo retto agire, e certo che la giustizia di Dio è più forte di quella dei potenti e del giudizio della storia, accettò con rassegnazione e coraggio il destino dei vinti, accogliendo silenziosamente la sorte che sarebbe capitata al suo popolo: la calunnia, l’esilio, la povertà, la persecuzione, il martirio.
Non un lamento, nessuna recriminazione, nessun odio, nessuna vendetta, solamente il coraggio dei forti, che si fonda sulla fede in Gesù Cristo. Non temete: Io ho vinto il mondo!
Senza perdersi nelle disquisizioni del giudizio umano, resosi conto dell’amara realtà a cui erano stati condannati i suoi sudditi, realtà che lui con lucidità e intelligenza aveva previsto, cosciente che lui come re era padre della sua gente, si preoccupò di distribuire i suoi pochi ducati al suo popolo. “Io sono Re, e come tale debbo, fino all’ultima goccia di sangue e all’ultimo ducato, tutto quello che ho al mio popolo”.
Questa è la coscienza retta di chi sa ben governare. Un vero Re galantuomo, che non ha bisogno di lugubri monumenti che ne dimostrano la forza, ma di azioni concrete di carità. Un esempio per chi governa oggi le nazioni, perché egli aveva compreso dal Vangelo, che è sempre stato il suo libro della vita, che governare non è comandare, ma servire.
Per questo il ritratto che gli ha fatto Matilde Serao è una testimonianza importante, perché ella aveva saputo vedere la grandezza di questo “galantuomo come uomo e gentiluomo come principe”, e quindi il vero valore della sua esistenza, il valore di un uomo vissuto nella fede, che non ha mai perso la sua speranza, fatto coraggioso e forte dalla carità, il ritratto di un grande santo.
don Massimo Cuofano
fonte
Avete fatto bene a riportare lo scritto della Serao e l’articolo di Don Cuofano… rileggeremo anche la stupenda e commovente lettera di addio di questo giovane e grande Re rivolta al suo popolo prima di imbarcarsi alla Mouette verso il suo esilio… la grandezza e la dignità di un re che ridotto all’impotenza ha l’unico scopo di non aggravare ulteriormente la situazione a danno del suo popolo… e rimane a disdoro e condanna dell’esercito invasore e dei suoi comandanti l’aver poi continuato l’opera di distruzione lanciando dal largo sulla città di Gaeta le micidiali bombe solo per dar sfoggio della potenza dei cannoni a lunga gittata, ultima invenzione della scienza bellica di cui si erano forniti.. e questa è e fu una strage gratuita e perciò imperdonabile… la tristezza di oggi è che la gente se l’è dimenticata…caterina ossi