La tratta degli italiani
Alla fine degli anni ’60 vi erano ufficialmente, sparsi attraverso il mondo, 6 milioni di individui in possesso di passaporto italiano.
Di questi, oltre 2,4 milioni vivevano in Europa: 900 mila in Francia, 700 mila
in Svizzera, 400 mila in Germania, 250 mila nel Benelux, 150 mila in Gran
Bretagna. In realtà, il numero degli italiani all’estero era allora
sensibilmente superiore alla cifra ufficiale, in quanto da essa erano stati
esclusi tutti coloro che, nel corso degli anni, avevano rinunciato o dovuto
rinunciare alla propria cittadinanza originaria. Innumerevoli quindi sono stati
gli italiani costretti a prendere la via dell’esilio per cercare, all’estero,
quel pane che veniva loro negato in patria.
Ciò avvenne precisamente da quando, conquistato dai piemontesi il Regno delle
due Sicilie, cominciò in nome dell’Unità d’Italia, il pesante saccheggio del
più vasto, più potente e più ricco Stato della Penisola; di quello Stato che
poteva vantarsi di un’amministrazione pubblica modello e di un patrimonio aureo
di poco inferiore al mezzo miliardo di lire oro, più che doppio di quello
complessivo degli altri Stati d’Italia. Stato pacifico che, tra l’altro, non
conosceva la coscrizione obbligatoria e la leva in massa, e che si era posto
all’avanguardia del progresso tecnico; a esso i Borboni avevano dato la prima
ferrovia in Italia, la prima nave a vapore, il primo telegrafo elettrico (sia
pure sperimentale) e, alla sua capitale, l’illuminazione a gas, con 10 anni d’anticipo
sulle altre città della Penisola. Stato dove non attecchì la grande usura, che
vide anzi fallire il ramo dei Rothschild che si era stabilito a Napoli.
L’Unità d’Italia, per il Meridione, significò il crollo della sua agricoltura e
quello delle sue industrie -già più sviluppate e floride di quelle del Nord –
con conseguenze che si fecero sempre più gravi e tragiche per le popolazioni.
L’Unità portò anzitutto alla completa rovina dei contadini, considerati sino
alla conquista legalmente inamovibili dalle terre feudali, ecclesiastiche e
comunali da loro coltivate, nonché proprietari di quelle coloniche; contadini
praticamente esenti da doppie imposizioni e tributi, e da qualsiasi servitù
militari.
L’incameramento di queste terre, in ossequio ai nuovi principî, da parte del
demanio piemontese, la loro messa in vendita, il loro acquisto, furono il
trionfo degli speculatori, degli usurai, dei manipolatori di ogni specie,
locali e piovuti dal Nord, i quali – sotto la protezione di un esercito di occupazione
forte di 120 mila uomini e che, in 10 anni, bruciando paesi e paesani, massacrò
20 mila contadini in lotta per il pane, gabbandoli per briganti -diventarono,
con l’ausilio di leggi non meno infami di coloro che le applicavano, i padroni
inesorabili del contadino.
Questi, messo nell’impossibilità materiale di pagare le tasse e i balzelli
imposti da un Piemonte in eterno disavanzo finanziario, si vide portare via le
scorte, gli attrezzi, la capanna, il campo; e ciò non da un feudatario
“spietato”, ma dal borghese “liberale”.
Così il contadino dell’ex reame delle Due Sicilie, il quale dal 1830 al 1860
aveva fruito di una condizione economica assai migliore di quella dei
lavoratori della terra del resto della Penisola, si vide con l’Unità depredato
addirittura anche del lavoro.
E questo in quanto i nuovi proprietari della terra – introducendo colture
industriali (agrumi e ulivo) in sostituzione di quelle che coprivano il
fabbisogno alimentare e tessile delle popolazioni locali, contadine e cittadine
– non ebbero che una preoccupazione: quella di realizzare sempre maggiori
profitti finanziari, pure a totale scapito del lavoro (l’industrializzazione di
quei tempi!).
Così le campagne del Mezzogiorno, sacrificate all’industrializzazione agricola
locale e tradite dalla politica per lo sviluppo delle manifatture del Nord, non
furono più nella possibilità materiale, come lo erano state nei secoli, di
assicurare alla popolazione del Sud, anche delle città, neppure la propria
alimentazione. E fu lo sfacelo [1]. Si interruppe in conseguenza – tra l’altro
– la corrente migratoria della mano d’opera, che sino allora si era spostata
dal Nord al Sud, mentre i contadini meridionali, cacciati per fame dalle loro
terre, furono costretti alla fuga verso il Nord e l’estero.
Fenomeno che non tardò a trasformare l’intera Penisola in una immane colonia di
sfruttamento umano, dove nuovi negrieri razziavano ogni anno, non più africani,
ma un crescente contingente di disperati bianchi, il cui numero salì
progressivamente da 107 mila – media annua del periodo 1876 -1880 – a 310 mila,
media annua del periodo 1896 -1900, a 554 mila, media annua del periodo
1901-1905, a 651 mila, media annua del periodo 1906-1910, a 711 mila nell’anno
1912, a 872 mila nell’anno 1913, anno di vigilia della prima guerra mondiale,
che troncò questa tratta, sino alla fine delle ostilità, per fornire carne da
cannone, in abbondanza, alle offensive, negazione della strategia, di un altro
piemontese.
Nessun documento meglio di queste cifre potrebbe illustrare i risultati
economici, sociali e umani della politica della borghesia italiana
“liberale” di quegli anni. Borghesia che doveva trovare in Giovanni
Giolitti il suo personaggio più rappresentativo, diventato direttamente o – per
pochi mesi – tramite i suoi luogotenenti Fortis e Luzzato, dal 1903 al marzo
1914 capo del governo e, attraverso la burocrazia e la corruzione, padrone
assoluto del Paese.
Politica che costrinse, nell’ultimo biennio dell’era giolittiana, oltre un
milione e mezzo di italiani a emigrare; più della metà dei quali oltre
Atlantico, verso l’inferno delle fazende brasiliane, delle miniere e ferriere
della Pennsylvania, dei mattatoi di Chicago, degli angiporti e dei bassifondi
di Buenos Aires e di New York; caricata per maggior utile degli armatori del
Nord, in condizioni di poco meno disumane di quelle fatte all’inizio del secolo
scorso dai negrieri agli schiavi portati sui mercati delle due Americhe.
[1] Codificato dalle leggi protezioniste del 1887 a favore delle industrie del Nord.
Fernando Ritter
fonte https://www.eleaml.org/sud/den_spada/tratta_degli_italiani.html
No, la Tratta degli italiani non fu come la tratta dei neri… in proposito ho visto una mostra documentatissima nel castello di Anna di Bretagna appena ristrutturato (ero con Gianni Salemi verso la Vandea)… con disegni, dati e illustrazioni dell’epoca sulla tratta degli schiavi dall’Africa, comprati dai mercanti francesi alle aste e stipati nelle stive e venduti nelle Americhe… ma l’esodo dalle nostre regioni dopo la forzata annessione è stata comunque una vicenda biblica. Se vi consola, la maggior percentuale di popolazione che prese la via dell’emigrazione dopo l’annessione si è riscontrata nel Veneto, nonostante l’invito dei parroci che mettevano in guardia dei pericoli di fortunose traversate… Il disegno di una unificazione violenta e forzata non è mai stato ancora indagato a sufficienza, per paura che crolli il castello di sabbia di un’Italia unita… ma sempre di sabbia è! e se ne dovrebbero vergognare tutti coloro che si sono adoperati a costruirlo… ma non ci sono più!… però anche tutti coloro che continuano per ignoranza o per interessi personali a puntellarlo, invece di prenderne atto e studiare con impegno un piano per cercare di rimediare alla violenza operata in questa martoriata penisola…caterina ossi