La verita sugli uomini e sulle cose del Regno d’Italia
La verita sugli uomini e sulle cose del Regno d’Italia / rivelazioni di J.A. agente segreto del conte Cavour; a cura di Elena Bianchini Braglia; presentazione di Walther Boni. Sulla copertina l’autore risulta essere Filippo Curletti; mentre per A. Savelli in Archivio storico italiano,1911,p. 222, l’opera è frutto della collaborazione di Curletti e Griscelli.
Questo testo (pubblicato dopo il 1860, è molto illuminante. Dovrebbe essere letto e meditato dai tanti “storici” che pullulano nelle nostre patrie università,dai rappresentanti delle Istituzioni che parlano a vanvera,e anche dai nostri politici da strapazzo, uomini culturalmente molto a digiuno.
Filippo Curletti, rifugiato in Svizzera e condannato in contumacia quale mandante di una banda di malviventi piemontesi, per vendetta scrive un memoriale (in francese). Il poliziotto racconta lo svolgimento dei plebisciti a Modena: ”Per quel che riguarda Modena, posso parlarne con cognizione di causa, poiché tutto si fece sotto i miei occhi e sotto la mia direzione. D’altronde le cose non avvennero diversamente a Parma ed a Firenze.” “Ci eravamo fatti rimettere i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori. Preparammo tutte le schede per le elezioni dei parlamenti locali, come più tardi pel voto dell’annessione. Un picciol numero di elettori si presentarono a prendervi parte: ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti. Non è malagevole spiegare la facilità con cui tali manovre hanno potuto riuscire in paesi del tutto nuovi all’esercizio del suffragio universale, e dove l’indifferenza e l’astensione giovavano a maraviglia alla frode, facendone sparire ogni controllo» “….In alcuni collegi, questa introduzione in massa, nelle urne, degli assenti, – chiamavamo ciò completare la votazione, – si fece con sì poco riguardo che lo spoglio dello scrutinio dette un numero maggiore di votanti che di elettori inscritti“.
Nelle altre regioni: In Toscana una pressante campagna di stampa dichiara “nemico della patria e reo di morte chiunque votasse per altro che per l’annessione. Le tipografie toscane furono poi tutte impegnate a stampare bollettini per l’annessione: e i tipografi avvisati che un colpo di stile sarebbe stato il premio di chi osasse prestare i suoi torchi alla stampa di bollettini pel regno separato. Le campagne furono inondate da una piena di bollettini per l’annessione. Chiedevano i campagnuoli che cosa dovessero fare di quella carta: si rispondeva che quella carta dovea subito portarsi in città ad un dato luogo, e chi non l’avesse portata cadeva in multa. Subito i contadini, per non cader in multa, portarono la carta, senza neanche sapere che cosa contenesse”.
La propaganda savoiarda racconta di un re democratico e disinteressato che rispetta la volontà dei popoli. Prima dello svolgimento dei plebisciti nell’Italia meridionale, Vittorio Emanuele II si rivolge ai Popoli dell’Italia meridionale con il seguente proclama: «Le mie truppe si avanzano fra voi per raffermare l’ordine: Io non vengo ad imporvi la mia volontà, ma a fare rispettare la vostra. Voi potrete liberamente manifestarla: la Provvidenza, che protegge le cause giuste, ispirerà il voto che deporrete nell’urna». Forte del favorevolissimo risultato plebiscitario, il 7 novembre 1860 il Re dichiara: «Il suffragio universale mi dà la sovrana podestà di queste nobili province. Accetto quest’alto decreto della volontà nazionale, non per ambizione di regno, ma per coscienza d’italiano».
Su queste farse nacque il regno d’ Italia (tratto da “Non mi arrendo“,05/24/2010).
Andando indietro nel tempo, rileviamo che il Regno delle Due Sicilie (dizione a me non gradita, ma debbo rispettare la storia. Io lo chiamerei Regno di Napoli, come è più comunemente riconosciuto e come si chiamava all’epoca di re Carlo di Borbone. La Sicilia ha connotato col suo nome quel Regno, a sproposito, perchè si tratta di una Regione che ha sempre rivendicato la sua autonomia, in ogni epoca, tanto da offrire la corona ad altri, pur di disancorarsi dalla stato a cui apparteneva. Quindi mi sta particolarmente indigesta questa denominazione adottata da Ferdinando IV [poi I] nel 1816 soltanto per motivi di opportunità politica) fu pioniere in Italia e, a volte, anche in Europa di numerose innovazioni per andare incontro alle esigenze del popolo.
L’intuizione solidaristica di Ferdinando I e di Ferdinando II
Per comprendere ciò che fece il giovane re Ferdinando IV di Borbone (terzogenito di re Carlo VI di Borbone-Napoli,a cui successe nel1759 sul trono di Napoli) è doveroso andarsi a leggere un’opera contemporanea,scritta da Piero Pierotti,Imparare l’ecostoria,:note per il percorso di storia dell’urbanistica, SEU, Pisa, 1991.
“Lo Statuto di San Leucio o Codice leuciano, firmato nel 1789 da Ferdinando IV di Borbone, è una raccolta di leggi che, nel Regno di Napoli, regolamentavano la Real Colonia di San Leucio, sorta sulla omonima collina acquistata, nel 1750, da Carlo III di Borbone e adibita alla lavorazione su scala industriale della seta. Il codice, secondo alcuni scritto dalla consorte Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, fu edito dalla Stamperia Reale del Regno di Napoli in 150 esemplari. Il testo, in cinque capitoli e ventidue paragrafi, rispecchia le aspirazioni deldispotismo illuminato dell’epoca a interpretare gli ideali di uguaglianza sociale ed economica, e pone grande attenzione al ruolo della donna” (da Wikipedia,sub voce lo statuto di san leucio).
Da p.145 a p.148 questo studioso,con rapide e precise pennellate,ci dice di come Ferdinando sia stato precursore del socialismo,della legislazione sociale-previdenziale e del principio di sussidiarietà oggigiorno tanto sbandierato (questo principio,fondato su una visione gerarchica della vita sociale, afferma che le società di ordine superiore devono aiutare, sostenere e promuovere lo sviluppo di quelle minori).
Si tratta di un concetto proprio della Dottrina sociale della Chiesa,elaborato gradualmente nel tempo,che ho avuto modo di studiare in Etica sociale quando ho frequentato il corso quadriennale di Scienze religiose presso la Pontificia Università Lateranense di Roma,e poi da me riversato nell’insegnamento di questa disciplina nel Corso di diploma presso la Scuola per Assistenti sociali.
Lo Statuto,chiamato subito Codice,fu immediatamente tradotto in greco,tedesco e francese,e divulgato in tutta Europa.Ma fu la sua traduzione in lingua latina,eseguita dal prof.Abate Vincenzo Lupoli(1737-1800),teologo della Città di Napoli,nella cui Regia Università occupava la Cattedra delle Decretali e quella di Diritto ecclesiastico ottenute per concorso,a divulgare il Codice negli ambienti culturali europei.Il Lupoli (nato a Frattamaggiore) nel 1791 fu consacrato Vescovo e resse la Diocesi di Telese e Cerreto.Va opportunamente rilevato che il commento all’edizione latina ai vari capitoli era corredato non solo da richiami alla Binbbia,ma anche al diritto,ai filosofi greci e latini,con riferimenti agli Enciclopedisti francesi,a Voltaire,a Pufendorf,a Grozio,a Montesquieu,a Rousseau,con richiami ad antiche edizioni dei testi (cfr.A.Gentile,L’Abate Vincenzo Lupoli da Frattamaggiore e il Codice borbonico di S.Leucio,Istituto di Studi Atellani,NN.86-87,Anno XXIV,luglio-dicembre 1997,pp.136-40).
Questo era il Regno di Napoli nell’epoca illuministica,quando il Piemonte pensava – tanto per cambiare! – alle solite guerre e a come potersi mangiare il carciofo Italia foglia a foglia.Capito Napolitano? capito Lucio Villari? capito Piero Angela? capito Ernesto Galli della Loggia? capito Giuliano Amato? E potrei continuare,perchè sono in tanti a non voler capire e a continuare a menarcela con odiose menzogne sul Regno del sud,sulle sue condizioni di arretratezza,sulla negazione di Dio,inventata da Gladstone(che poi nel 1876 la smentì!).
Il codice, secondo alcuni scritto dalla consorte Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, fu edito dalla Stamperia Reale del Regno di Napoli in 150 esemplari. Il testo, in cinque capitoli e ventidue paragrafi, rispecchia le aspirazioni del dispotismo illuminato dell’epoca a interpretare gli ideali di uguaglianza sociale ed economica, e pone grande attenzione al ruolo della donna” (da Wikipedia, sub voce lo statuto di san leucio).
Fu quindi il sovrano borbonico a volere, nel 1789, la Colonia della Manifattura delle sete di San Leucio ed un apposito codice per regolamentarne la vita associativa e predisporre sostegni “assicurativi” per gli operai. Già nel 1756 gli operai addetti alla costruzione dell’acquedotto Carolino progettato per portare l’acqua alla Reggia di Caserta, avevano scioperato a lungo a causa di un mortale incidente sul lavoro.
Quindi già prima del 1789 qualcuno aveva intuito ch’era il momento di portare a fioritura il germoglio della solidarietà: Ferdinando IV, Re di Napoli (poi Ferdinando I, Re delle Due Sicilie).
La “Legislazione di San Leucio”,nell’intrattenersi sui criteri della organizzazione del lavoro della“Manifattura di sete grezze e lavorate”, si occupa della stessa vita di relazione dei componenti di quella Colonia alla stregua di un vero codice comportamentale e presenta avanzati spunti di carattere economico, sociale e previdenziale,assurgendo così a precursore dei tempi.
Il Cap. III (“Degli impieghi”) disciplina il subentro, in caso di morte di un tessitore, di un nuovo “impiegato” che prenderà “la metà del soldo del defunto quello lasci la vedova… alla quale si darà l’altra metà”. Se la vedova è sola o con figli già in grado di guadagnare “due carlini al giornociascuno”, le resterà un “terzo, ed il rimanente si darà al nuovo impiegato” che poi lo riceverà tutto intero “alla morte della vedova”.
Come può notarsi, la ripartizione del “soldo” avviene, in caso di decesso, secondo princìpi di giustizia perequativa ancora oggi applicati per l’attribuzione diquote di pensione previdenziale o di rendita infortunistica ai superstiti dell’operaio, con l’ovvia notazione che nei nostri giorni non il “soldo”, ma la pensione o la rendita vengono ripartite in quote (il Bimestrale di informazione dell’Inail,maggio/agosto 2003,n.3-4).
A questo punto mi corre l’obbligo di fare una diversione,parlando di Gaetano Filangieri (1752-17888). Questo principe napoletano, di orgine normanna, è una gloria della cultura napoletana,dell’Illuminismo napoletano.Si laureò in legge nel 1774 e in quello stesso anno pubblicò le “Riflessioni politiche“,con cui mirava ad eliminare gli arbitri del ceto forense,difendendo una disposizione di re Carlo,e stabiliva l’obbligo della motivazione delle sentenze! Ma l’opera che lo ha reso immortale è la “Scienza della legislazione“,in sette volumi,di cui furono pubblicati soltanto cinque a causa della morte prematura dell’autore.Pubblicata dal 1780,fu tradotta in inglese,francese,tedesco,spagnolo,russo e svedese.Ad essa si ispirò Benjamin Franklin per la Costituzione americana(fu in corrispondenza col Filangieri) e poi i rivoluzionari francesi.Napoleone Bonaparte ricevette la vedova,riparata a Parigi dopo i moti del 1799,tenendo in bella mostra sulla scrivania un esemplare dell’opera del Filangieri,di cui disse:”Questo giovane è stato maestro di tutti noi“! Fu visitato anche da Goethe(che da lui apprese il pensiero del Vico).I rivoluzionari napoletani del 1799 si ispirarono a lui. Ovviamente i suoi libri furono messi all’ndice dalla chiesa di Roma e banditi dal Regno(perciò la moglie dovette chiedere indulgenza alla regina Maria Carolina e poi riparare a Parigi).Le idee di questo studioso erano rivoluzionarie per l’epoca e antesignane di un nuovo sviluppo del diritto,come poi è avvenuto negli stati moderni.Infatti Filangieri “affermava l’esigenza di una codificazione delle leggi e di una riforma progressiva dalla procedura penale“.L’unico luogo in cui ciò allora non poteva andare bene fu il Regno delle Due Sicilie di Ferdinando I,dove era stato accantonato il ministro pisano riformatore voluto da Carlo di Borbone,il grande Bernardo Tanucci(1698-1783),e il figlio Ferdinando IV(poi I) fu costretto ad asseconndare la volontà della moglie, Maria Carolina d’Asburgo(figlia di Maria Teresa e sorella minore di Maria Antonietta)che volle l’inglese lord Acton come primo ministro.Quindi a Ferdinando restò solo il limitato esperimento di San Leucio,di cui abbiamo detto.
La legislazione di San Leucio fu nel secolo seguente applicata,migliorandola, dal nipote Ferdinando II ai lavoratori del polo siderurgico calabrese, di cui la ferriera di Mongiana rappresenta il centro più importante.
Il regolamento per le miniere del ferro dei Reali Stabilimenti di Mongiana, datato 13 aprile 1845, è un documento abbastanza raro, poiché in molte nazioni, riguardate oggi come più progredite, spesso non esisteva alcun regolamento e le condizioni di lavoro dei minatori non erano sicuramente invidiabili. La giornata lavorativa era già di sole otto ore, ben lungi dalle sedici applicate in altre nazioni(es.l’Inghilterra,la Germania e gli USA)ed inferiore alle dieci-undici vigenti nel Regno.Per i compiti più disagevoli questo limite poteva essere ulteriormente ridotto. Esisteva una cassa di previdenza per gli infortuni sul lavoro. A partire dal 1840 fu destinato a Mongiana un chirurgo, ma dai documenti non si evince che abbia avuto particolarmente da fare.A parte l’epidemia di colera del 1848, che non investì, comunque, la sola Mongiana,non vi è traccia di malattie epidemiche,né risulta che la popolazione risentisse delle malattie tipiche della maggior parte delle imprese industriali dell’epoca.Da rilevare, poi, la pressoché assoluta assenza di alcolismo.Manca totalmente lo sfruttamento delle donne, mentre il lavoro minorile è limitato a funzioni gregarie,con orari di lavoro molto miti.Oltre al chirurgo,risiedeva a Mongiana stabilmente un farmacista con funzioni di medico,nonché alcuni insegnantiche istruivano i figli degli operai all’intemo della Fabbrica di armi.La Mongiana conquista all’Esposizione industriale di Firenze (1861) una medaglia con diploma; l’anno successivo ghisa, ferro,lame damascate,carabine di precisione,sciabole ed armi varie prodotte dalla ferriera calabrese sono premiate all’Esposizione internazionale di Londra.Le miniere di Pazzano vengono abbandonate subito dopo l’Unità, le gallerie degradate dall’abbandono saranno chiuse (all’ingresso oggi sorge una discarica), anche se le analisi sul minerale consiglieranno di non abbandonare l’impresa.La Mongiana, lasciata senza mercati, privata dei suoi più brillanti tecnici, assisterà impotente al proprio disfacimento,rea di essersi opposta all’annessione.Con legge 21 agosto 1862 n. 793 la Mongiana viene inclusa tra i beni demaniali da alienare;undici anni dopo, con legge 23 giugno 1873 verrà sanata definitivamente la vendita dello stabilimento.A nulla valgono le ripetute suppliche al governo della comunità mongianese che fa un ultimo disperato tentativo con una delibera del consiglio Comunale del 28 novembre 1870, on cui viene chiesta la ripresa dei lavori per rimettere in funzione lo stabilimento,dando conto delle ragioni che la giustificano.È un documento molto bello, dai toni accorati, ma dignitosi e pieni di orgoglio per un passato da non dimenticare. Il linguaggio è decisamente non burocratico, anzi appassionato ed è l’intera comunità che chiede allo Stato di non essere abbandonata e di poter trovare “un mezzo di sussistenza a tanti operai di tutti i mestieri i quali con le rispettive famiglie vennero costretti, attesa la mancanza di lavoro, a provar quanto è cosa dura morir per fame”: un disperato appello che, purtroppo, cadrà nel vuoto.Probabilmente è anche l’ultima possibilità, che il Governo non saprà cogliere, di riconciliazione con quanti sono stati defraudati dei loro diritti di cittadini. Purtroppo,non solo il governo non si farà minimamente turbare da queste petizioni (altre ne seguiranno il 23 ed il 27 aprile 1872,ma ormai i giochi sono fatti);nessuna richiesta dei mongianesi verrà accolta e nessuna commessa per l’esecuzione di alcun lavoro arriverà mai più allo stabilimento. Tutto è già stato deciso: Mongiana deve morire.A Catanzaro, sul banco del banditore,prima che la candela si spenga,Achille Fazzari,ex sarto,ex garibaldino carbonaro,deputato,si aggiudica tutto il complesso.
Peggio non poteva andare. Fazzari non è un imprenditore, anzi è assolutamente incompetente: Mongiana è completamente abbandonata; Ferdinandea diventa un’oasi privata dove il deputato ospiterà l’intellighenzia del momento e sarà effettivamente quel “luogo di villeggiatura” che invece con Ferdinando II non fu mai tale.
Ai mongianesi non rimane altra scelta che emigrare: i più fortunati troveranno lavoro a Terni nella fabbrica d’armi aperta in quella città nel1884; altri meno fortunati (e saranno tanti) aspetteranno sulle banchine del porto di Napoli il proprio turno per imbarcarsi sui piroscafi diretti verso Stati Uniti, Argentina, Canada, Australia.
I loro figli e nipoti oggi tornano, di tanto in tanto, al loro paese, nessuno di loro, però, ne conosce la storia; qualcuno sa, a mala pena, che un tempo i loro antenati erano stati più ricchi ed il loro paese aveva vissuto tempi migliori”Le Ferriere del Regno:il polo siderurgico delle Calabrie,Università Federico II,Napoli,2002.QUANDO IL NORD D’ITALIA ERA NEL SUD.LA VERGOGNOSA ED IGNOBILE VENDETTA DEI SAVOIA AFFAMA E RIDUCE IN POVERTÀ IL SUD COLPEVOLE DI FEDELTÀ AGLI AMATI BORBONI. .(da Mariolina Spadaro,Le Ferriere del Regno:il polo siderurgico delle Calabrie,Università Federico II,Napoli,2002.QUANDO IL NORD D’ITALIA ERA NEL SUD.LA VERGOGNOSA ED IGNOBILE VENDETTA DEI SAVOIA AFFAMA E RIDUCE IN POVERTÀ IL SUD COLPEVOLE DI FEDELTÀ AGLI AMATI BORBONI.(da “Archeologia industriale“,tema trattato per la classe V ginnasiale,Sezione B,del Liceo classico “Ivo Oliveti” di Locri,dalla prof.Ester Iero in collaborazione con la prof.Maria Carmela Spadaro,avvocato calabrese,ricercatrice presso l’Università Federico II di Napoli ed autrice di numerosi saggi sulla storia del Regno delle Due Sicilie, a partire dall’epoca spagnola).
Al termine di questa esposizione sento l’obbligo di riportare l’immagine di tre grandi re della Casa Borbone-Napoli: Carlo VII; suo figlio Ferdinando I e il suo trisnipote Ferdinando II.Quest’ultimo avrebbe meritato,come il suo trisavolo Carlo VII (poi Carlo IIIdi Spagna) che la sua statua fosse esposta al pubblico nell’ultima nicchia fuori il Palazzo Reale di Napoli.Invece in quel posto il re Umberto Ifece collocare la statua di suo padre,Vittorio Emanuele II,quello che nel 1860 andò di persona a invadere il Regno delle Due Sicilie,tradendo la fiducia e la buona fede del giovane re Francesco II di Borbone.Possiamo tranquillamente chiamarlo l’Usurpatore.
fonte italozamprotta.net