L’AMICO GARRUBARDU E LE COLPE GRAVI DEI NAPOLETANI
Garibaldi arrivò a Napoli comodamente seduto in treno il 7 settembre 1860. Si sistemò a Palazzo Doria D’Angri, un edificio molto raffinato che separa la strada centrale della via Toledo e via Sant’Anna dei Lombardi. La risalita per la penisola era stata un trionfo di battaglie “inspiegabilmente” vinte! Un crescendo indomito di azioni fulminee e di atti di eroismo come era già nella mente dei futuri cantori della mitica epopea dei “Mille” che nel frattempo, prima che il mito iniziasse erano già diventati circa quarantamila ed erano state presentate più di cinquantamila domande di pensione per la “campagna della bassa italia”.
Dal balcone del palazzo, il nizzardo annunciò l’annessione delle Due Sicilie al Piemonte. Le settimane precedenti all’arrivo di Garibaldi a Napoli c’erano state trame di palazzo e di famiglia (reale). Generali, dignitari e uomini di governo si erano vigliaccamente schermiti e uno a uno, sottratti alle richieste incessanti del giovane re. La ragione di questo fenomeno sono i soldi, sporchi guadagni frutto del tradimento e della delazione. Una cosa così vastamente diffusa ha però anche un duplice aspetto: la prima è che in centoventicinque anni di regno, la dinastia borbonica non era mai stata avvezza a guerre, congiure e aggressioni ad altri regni.
Se si eccettuano poche campagne di fiancheggiamento, agli Stati italiani, il Regno delle Due Sicilie, non conosceva guerre né aggressioni. Aveva sì, una scuola di eccellenza e di specializzazione militare come la “Nunziatella! Le guerre però si fanno con le masse in armi. Con la coscrizione obbligatoria, che il regno non aveva. Poi ci penseranno i Savoia a far conoscere il servizio di leva, durissimo, inumano e insopportabile per contadini e operai. La guerra offensiva non era la sua vocazione. Infatti, nel regno, da sempre erano presenti contingenti a pagamento stranieri. Tutto questo aveva determinato nello Stato Maggiore duo siciliano un concetto pressoché sconosciuto del servizio alla corona, se si eccettuano pochi importanti casi di onestà, coraggio e lealtà, come il comandante Giosuè Ritucci, Ferdinando Beneventano del Bosco e il sergente Pasquale Domenico Romano, si tradiva per il semplice fatto di sentirsi parte di un apparato burocratico e non di una elite scelta a guardia della dinastia e dello Stato.
Tuttavia, la truppa aveva un ottimo addestramento e disciplina, era adatta alla difesa del regno, era molto ben articolata sotto l’aspetto organizzativo e logistico e infatti, si era distinta più volte per coraggio e valore. Anche quando fronteggiò i garibaldini fu sempre superiore e vincente, ma dovette soccombere per decisioni e defezioni di molti dei suoi comandati. Emblematico fu l’episodio dell’uccisione da parte dei suoi soldati del generale Fileno Briganti, che si rese responsabile di errori tattici e decisioni lesive per gli esiti delle battaglia in Calabria, tanto da far sospettare la truppa di tradimento. Non è certo ma, alcune fonti, lo vogliono in combutta già con i piemontesi nei giorni della battaglia. In una situazione simile, si faceva carriera quasi per inerzia.
Nessun alto ufficiale aveva da mostrare vere medaglie guadagnate sul campo di battaglia se si fa eccezione per Carlo Filangieri, quindi, il corpo dello Stato Maggiore non fu mai all’altezza (e bastava poco) nella conduzione dignitosa delle operazioni di difesa. La seconda ragione è l’attinenza della dinastia borbonica a trattare i vari traditori, i cospiratori e i semplici incapaci con una certa indulgenza e umanità. In altri regni simili a quello borbonico, c’era la morte per un alto ufficiale macchiatosi di tradimento o la corte marziale per un disastro colpevole in battaglia. Ufficialmente per qualcuno scattava la pena di morte ma era sempre prevista l’amnistia e il reintegro. Infatti, molti uomini, militari e non, coinvolti nei fatti dell’estate 1860 furono amnistiati e reintegrati, come Liborio Romano. Ferdinando II padre di Francesco, era indulgente a dispetto della sua immagine di uomo duro e inflessibile. L’ultimo comandante importante messo a morte, fu l’ammiraglio Caracciolo nel 1799, per alto tradimento e anche questa condanna, fu voluta e ottenuta ma anche eseguita dagli inglesi. Una ventina d’anni dopo l’Unità, alcuni studenti ascoltarono queste parole dal loro rettore Luigi settembrini, poeta e liberale antiborbonico: “«Figli miei, bestemmiate la memoria di Ferdinando II, è sua la colpa di questo!». «Professore, come c’entra quello lì?» «Sì c’entra; se egli avesse impiccato noi altri, oggi non si starebbe a questo; fu clemente, e noi facemmo peggio».
Secondino Tranquilli