La’ndrangheta e i briganti – Due storie separate in casa
Le aree dei due fenomeni non coincidono.
In Sila i contadini occupavano le terre. Ai picciotti l’Aspromonte
Corrado Alvaro nel 1925 scriveva che «i forestieri, quando si ricordano della Calabria, parlano sovratutto dei briganti. Ma, per la verità, pochi sanno che cosa sia stato veramente il brigantaggio e come sia nato». Oggi un forestiero che si dovesse ricordare della Calabria parlerebbe della strage di Duisburg dove furono uccise sei persone di San Luca, il comune dov’ era nato Alvaro, o della riunione di ‘ndrangheta svoltasi nel settembre 2009 sempre a San Luca sotto la statua della Madonna della Montagna nel santuario di Polsi, nel cuore dell’ Aspromonte, santuario e Madonna sacri per gli ‘ndranghetisti. Molti sono convinti che la ‘ndrangheta sia una filiazione del brigantaggio, che i picciotti siano i figli legittimi, gli eredi naturali dei briganti. E’ così? Per rispondere dobbiamo andare indietro di 150 anni e vedere cosa successe nei primi anni dopo che l’Italia fu unita. Garibaldi sbarcò in Calabria all’alba del 19 agosto 1860 a Melito Porto Salvo, a due passi da Reggio Calabria. Senza bisogno di combattere, perché l’esercito borbonico si liquefece come neve al sole, attraversò la regione come un fulmine. Poco prima di arrivare in Basilicata, il 31 di agosto, a Rogliano emanò un decreto di poche righe: «Gli abitanti poveri di Cosenza e Casali esercitino gratuitamente gli usi di pascolo e di semina nelle terre demaniali della Sila. E ciò provvisoriamente sino a definitiva disposizione». Era arrivato preceduto da buona fama per quello che aveva fatto in Sicilia con il decreto del 2 giugno con il quale aveva stabilito che i combattenti per la libertà avrebbero ricevuto in compenso quote di terra del demanio pubblico. I contadini calabresi accolsero Garibaldi sventolando le bandiere tricolori. Speravano in un cambiamento delle loro condizioni di vita e Garibaldi, con il decreto di Rogliano, pareva aver compreso il problema.
Il decreto era un compromesso perché conteneva il dissenso contadino emergente senza toccare l’essenza della questione della proprietà delle terre. Da parte loro i proprietari, i baroni della Sila, erano in allarme. A Savelli, prima ancora dell’arrivo di Garibaldi, il 16 agosto, i contadini avevano invaso le terre comunali sospinti dal suono delle campane del Santissimo crocifisso. Donato Morelli, che Garibaldi aveva posto a governatore della Calabria Citra, l’attuale provincia di Cosenza, a distanza di cinque giorni emanò un decreto di interpretazione che di fatto annullò l’efficacia di quanto aveva stabilito Garibaldi. Morelli apparteneva a una famiglia accusata di aver usurpato terreni in Sila, e insieme ad altri grandi usurpatori come i Berlingieri, i Barracco, i Lucifero, gli Albani si era schierato contro i Borbone perché tutti ne temevano la politica silana. In provincia di Cosenza avevano dato vita a un comitato liberale che era a tutti gli effetti un «comitato di usurpatori», com’ebbe a scrivere lo storico Antonino Basile. «Gli usurpatori della Sila sono ladri in giamberga». Così li aveva bollati Vincenzo Padula, il prete di Acri che fu tra i primi a sollevare i temi di quella che sarebbe stata chiamata da lì a poco questione meridionale. I proprietari terrieri avevano paura dei «comunisti », di quei contadini analfabeti che, pur non avendo letto una riga del Manifesto di Marx ed Engels, avevano occupato le terre nel 1848 rivendicandone la divisione, il possesso, la messa a coltura di quelle abbandonate. La questione della terra era stata per lungo tempo sollevata da contadini ridotti in miseria ed abbrutiti. Diomede Pantaleoni, inviato in Calabria, nel 1861 scrisse al ministro dell’Interno Marco Minghetti parole chiare sulla Sila dove esisteva «uno stato sociale che colpendo di povertà soverchia una classe la spinge al delitto e al brigantaggio». C’erano dei rimedi a tutto ciò e li indicava: «un saggio governo debbe operare una riforma sociale ad evitare una rivoluzione sociale». I nuovi governanti non ascoltarono Pantaleoni, preferirono affrontare con le armi i contadini e li bollarono come briganti, un marchio infamante. Fu un tragico errore perché le ragioni del brigante diventarono le ragioni del popolo che aiutò i briganti in tanti modi. Li aiutarono anche borbonici e clericali. Era la seconda volta; già dopo l’invasione francese a inizio secolo la Calabria era stata teatro di un vastissimo brigantaggio che diede filo da torcere ai francesi.
Il brigantaggio fu un fatto di popolo che interessò metà della Calabria, dalla provincia di Cosenza alle attuali province di Catanzaro e di Crotone. E l’altra metà? L’altra metà era estranea al brigantaggio. La provincia di Reggio Calabria aveva ben altri problemi. Il prefetto Giuseppe Cornero scriveva di camorristi che tra il giugno e il luglio 1861 «infestavano in deplorevole modo questa città». Due anni dopo, da Gallico, comune di 5.000 abitanti, si seppe che uno «sparuto numero» di camorristi spadroneggiava al punto che i cittadini si sentivano «minacciati nella vita» e costretti a non parlare e a non fare denunce alle autorità. Emergeva una presenza criminale che agiva sotto traccia, che pochi valutarono nella sua pericolosità sociale perché convinti che fosse composta solo dagli strati sociali più poveri e miserabili. Non calcolarono il mutamento che sarebbe intervenuto nel giovane diventato picciotto quando, bardato dei segni esteriori del suo rango — «fazzoletto annodato al collo, solini piegati, cappellino tondo sotto le cui falde si vede il ciuffo dei bravi» —, prendeva «un’aria spavalda e provocante; e armato dell’indispensabile “mollettone”, coltello provvisto di molla a lama chiusa, e del rasoio a manico fermo, s’impone». La descrizione la dobbiamo a un medico di Reggio Calabria, Francesco Melari, che per ragioni della sua professione frequentava tutti gli strati sociali della città. Invisibili per alcuni, erano ben visibili per altri. Nel 1869 le elezioni amministrative di Reggio Calabria furono annullate per brogli elettorali dovuti a una interferenza dei mafiosi che furono utilizzati nella competizione politica. Il primo comune sciolto per mafia! In Aspromonte la ‘ndrangheta progrediva utilizzando l’immagine di uno Stato che appariva ed era lontano. Sin da allora — come le altre mafie del resto—si presentava come un’associazione capace di governare territori e di selezionare le classi dirigenti o condizionandole oppure eliminando fisicamente quelli che non s’adeguavano. Le zone di brigantaggio e quelle di mafia non coincidono, sono diverse, non sono sovrapponibili. Sono fisicamente distanti. Nella Sila e nelle terre del latifondo ci furono briganti oppure contadini che occupavano le terre, ma non c’era ‘ndrangheta. In Aspromonte ci furono picciotti non briganti, tranne la meteora di Giuseppe Musolino che giganteggiò a fine secolo e fu chiamato «u rre d’Asprumunti ».
Ma allora perché è nata la leggenda della relazione tra ‘ndrangheta e brigantaggio? Semplicemente perché tornava comodo agli uomini d’onore, alla perenne ricerca del consenso, ingentilire le loro origini e presentarsi come gli eredi dei briganti che nell’immaginario popolare continuano ancora oggi a godere di una rappresentazione ben diversa da quella che si trova nelle carte dei processi o di polizia dell’epoca. I briganti sopravvivono come uomini tutti d’un pezzo, coraggiosi, giovani che sanno vendicare le ingiustizie e che sanno andare alla macchia per vivere una vita libera e senza padroni. Alla fine del decennio il brigantaggio era pressoché scomparso, mentre la ‘ndrangheta spiccava il salto nel nuovo Stato dove sarebbe cresciuta con la complicità delle classi dominanti per giungere sino a noi. I briganti sono confinati nei libri di storia e nei musei, gli ‘ndranghetisti hanno invaso l’Italia e il mondo.
Enzo Ciconte
30 ottobre 2010
fonte
eleaml.org