LE DUE SICILIE – Fine di un Regno
Ogni popolo è condotto alla rivolta da un nucleo politico e militare, organizzato su figure mitizzate, che coagulano il consenso intorno a parole semplici e di grande impatto emotivo.
Poi, raggiunto l’obiettivo, i miti passano agli archivi e la forza imperiosa della cose mostra una realtà più scabra e cruda. Il passaggio dalla poesia alla prosa, dagli ideali alla vita di ogni giorno, sconta inerzie e frizioni, per l’opposizione di chi recalcitra a integrarsi, di chi non riesce proprio a sentirsi parte della nuova realtà. Il rifiuto può assumere il carattere di una nuova lotta armata, una coda sanguinosa al processo storico, che pur domata lascia questioni sociali gravi e di straordinaria persistenza.
D’altra parte the winner takes it all, dicono gli inglesi, i vincitori scrivono la storia, diciamo in Italia. Nella prospettiva del vincitore, se non tutto giusto, quasi niente fu sbagliato di ciò che accadde per conquistare la vittoria; e a suonare la campana degli sconfitti, per contro, si rischia di cedere a un tono piagnucolante, di incappare in narrazioni affettuose, simili alle biografie stilate per le persone care e venerate.
Quid est veritas?
La Storia non è una ridda di date, numeri, eventi e personaggi. Questi sono semplicemente i fatti, e la Storia si fa con i fatti come una casa si fa coi mattoni, ma un cumulo di mattoni non è una casa. I fatti per sé sono muti, non parlano né di Storia né di altro, e ricevono significato solo dal nostro sguardo.
La tradizione letteraria conforta. “No, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni“, scrive Nietzsche. “Un fatto è come un sacco, vuoto non si regge. Perché si regga, bisogna prima farci entrar dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato“, fa dire Pirandello a uno dei suoi personaggi in cerca d’autore.
La selezione dei fatti, la disposizione in sequenza – logica prima ancora che cronologica – e poi la loro concatenazione e interpretazione, l’intonazione e la colorazione, i cosiddetti nessi di causa-effetto, tutto questo fa la Storia o, con più precisione e meno enfasi, una delle storie possibili. Non c’è mai la verità storica da scoprire, ma esiste soltanto una possibile verità, da inventare e raccontare secondo standard dichiarati e condivisi.
Chi vuol capire ilRisorgimento sarà obbligato come minimo a tenere un doppio registro, a orientarsi tra le veline ufficiali e il revisionismo, a scendere a patti con l’ucronia, a immaginare un passato revocabile come il futuro, a destreggiarsi tra vuoti di memoria e perdite di informazioni, improvvise resurrezioni e possibili rielaborazioni. Perché nessuna storia è scritta una volta per tutte; perché se i soldati e le armi sono i protagonisti delle battaglie militari, poi il conflitto si sposta sul piano delle idee, si trasforma in una guerra di parole; perché il linguaggio è il manifesto della propria posizione ideologica, del sentimento politico; perché i contendenti scelgono vocaboli diversi per rivelare visioni opposte sulla concezione di vita, sulla storia dei popoli.
Ma quando si riacquista il ventaglio delle possibilità, quando ci si rimpossessa dello spettro delle alternative, quando si guarda a ciò che è accaduto semplicemente come a uno dei possibili esiti, allora giusto e sbagliato si scoprono categorie ambigue e sfuggenti, difficili da codificare. Il confine tra buoni e cattivi diventa sottile, attenuato, appare e scompare, spesso non si sa più dire dove sia, come nel “Bombarolo” di De Andrè.
“… il mio Pinocchio fragile parente artigianale
di ordigni costruiti su scala industriale
di me non farà mai un cavaliere del lavoro.
Io sono di un’altra razza, son bombarolo…
… per strada tante facce non hanno un bel colore
qui chi non terrorizza si ammala di terrore…
… profeti molto acrobati della rivoluzione
oggi farò da me, senza lezione.
Vi scoverò i nemici, per voi così distanti
e dopo averli uccisi sarò fra il latitanti,
ma finché li cerco io, i latitanti sono loro,
ho scelto un’altra scuola, son bombarolo…
Potere troppe volte delegato ad altre mani,
sganciato e restituitoci dai tuoi aeroplani.
Io vengo a restituirti un po’ del tuo terrore,
del tuo disordine, del tuo rumore…“
La partenza dallo scoglio di Quarto, lo sbarco a Marsala, la battaglia di Calatafimi, la conquista della Sicilia, l’approdo nella parte continentale del Regno, l’entrata a Napoli di Garibaldi e la ritirata di Re Francesco II, il plebiscito, la battaglia del Volturno e l’assedio di Gaeta, il brigantaggio e la questione meridionale.
Questi sono i fatti, ma i fatti non parlano, sono muti. I fatti rispondono solo alle domande. La chiave della scienza – di tutte le scienze, inclusa la Storia – è il punto di domanda.
E’ possibile liberare il dibattito sul Risorgimento dalla tensione emotiva e dai preconcetti, dagli schematismi ideologici e dall’intolleranza, da linee interpretative inadeguate alle complessità – sociali, economiche, culturali – che poi sfociarono nell’unità d’Italia?
Se Garibaldi è stato uno straordinario eroe italiano, Cavour un genio politico, Vittorio Emanuele II un grande Re, e se Mazzini è stato… Mazzini e tanto basta, perché negare che erano pur sempre uomini, per ciò stesso imperfetti e condannati a sbagliare?
Perché mai mostrare i lati oscuri e meno nobili del Risorgimento vorrebbe dire sminuirlo o ridurlo d’importanza?Se pure fosse fuorviante e semplicistico immaginare l’arresto del movimento unitario a un Regno d’Alta Italia, come potè avvenire che un pugno di uomini, votati più alla morte che al successo, riuscisse a invadere la Sicilia in poche settimane, e in appena quattro mesi un intero Regno che contava sette secoli di storia?
E’ lecito parlare di plebiscito, quando il voto – nel Regno delle Due Sicilie e non solo – coinvolse una frazione ridicola della popolazione, per di più in un clima intimidatorio?
Se “una nazione è un principio spirituale, il risultato di complicazioni profonde della storia“, se per tenerla unita occorre “una ricca eredità di ricordi e l’oblio dei principi divisivi“, se “serve un ‘plebiscito quotidiano’ in merito alla volontà di convivenza” – nello smagliante discorso di Ernest Renan – possiamo noi oggi definire nazione la nostra Italia?
5-6 maggio 1860:
Giuseppe Garibaldi e un migliaio di volontari
s’imbarcano sui piroscafi “Lombardo” e “Piemonte”, della Compagnia Rubattino,
in una versione letteraria addirittura rubati,
ma più probabilmente messi a disposizione dall’armatore genovese, amico di Cavour.
La truppa è fortemente eterogenea, per provenienza geografica:
Milano, Brescia, Pavia, Venezia,
e soprattutto Bergamo, poi ribattezzata “Città dei Mille”,
e ancora Calabria, Sicilia e Napoli.
11 maggio 1860: I “Mille” sbarcano a Marsala.
Il giorno prima l‘ammiragliato inglese aveva ordinato ai piroscafi bellici “Argus” e “Intrepid”
di spostarsi da Palermo a Marsala, con la motivazione di proteggere i sudditi inglesi in Sicilia.
La “Spedizione” approda davanti al Consolato inglese e alle fabbriche “Ingham” e “Whoodhouse”,
e la presenza della flotta britannica accanto alle proprie rappresentanze
ostacolerà di fatto i colpi di granate dello “Stromboli”, l’incrociatore napoletano.
Garibaldi occupa Salemi il 13 maggio
e si proclama Dittatore della Sicilia, in nome di Vittorio Emanuele II, Re d’Italia.
Le Camice Rosse marcano la prima vittoria il 15 maggio, nella Battaglia di Calatafimi.
L’esito del conflitto è un autentico miracolo garibaldino, nelle narrazioni convenzionali,
ma è più prosaicamente spiegabile, se non col tradimento del Generale borbonico Landi,
sicuramente con una sua serie di decisioni tattiche imbarazzanti.
La “Spedizione” entra a Palermo il 27 maggio, e il 20 luglio è nella piana di Milazzo,
rafforzata lungo il cammino sia di uomini che di armi.
Il 24 luglio capitola Messina, ultima roccaforte borbonica.
Il 19 agosto la “Spedizione” sbarca in Calabria.
La storiografia ufficiale dipinge la spedizione garibaldina
con i colori vivaci di un’avventura epica, quasi cinematografica.
Appena mille uomini, salpati all’improvviso da nord e sbarcati rapidamente a sud,
pronti a combattere valorosamente, con ripetuti successi, contro un esercito molto più numeroso,
per risalire poi la penisola sino a Napoli, capitale di un Regno liberato da una tirannia oppressiva,
e pacificamente consegnato a un nuovo Re, in nome dell’ideale patriottico di un’Italia unita.
La patina “hollywoodiana” svanisce, però, per quel poco che si ampli l’angolo visuale.
La spedizione non fu spontanea e improvvisata,
ma ben architettata e e pianificata in ogni dettaglio.
I mandati furono le stesse figure apparentemente spettatrici,
o addirittura indignate per l’azione piratesca,
ma nei fatti direttamente interessate al buon esito dell’operazione:
Re Vittorio Emanuele II e Camillo Benso Conte di Cavour.
E’ ormai acclarato il ruolo di primo piano del Governo britannico.
Il sostegno inglese alla “Spedizione” fu cospicuo, sia in termini militari che finanziari,
anche per gli interessi strategici e politici che da tempo l’Inghilterra vantava in Sicilia.
7 settembre 1860: l’entrata a Napoli.
Garibaldi arriva a Napoli in treno (!) da Salerno,
Francesco II ripiega nelle fortezza di Gaeta,
le truppe borboniche si ritirano sul Volturno.
Il Generale si affaccia dal balcone centrale del Palazzo Reale di Piazza del Plebiscito,
e tiene un discorso alla folla che lo acclama.
“Voi avete il diritto di esultare in questo giorno,
che è l’inizio di una nuova epoca non solo per voi,
ma per tutta l’Italia, della quale Napoli forma la parte migliore,
è veramente un giorno glorioso e santo,
nel quale il popolo passa dal giogo della servitù al rango di una nazione libera”.
26 settembre – 2 ottobre 1860: la Battaglia di Volturno.
E’ lo scontro decisivo del Risorgimento, il simbolo dell’intero movimento nazionale.
Lo scontro non ha un chiaro vincitore sul piano tattico,
ma sotto il profilo strategico mostra la netta superiorità di Garibaldi sui generali borbonici.
L’esercito napoletano è incapace di riorganizzarsi, prima dell’arrivo da nord dei piemontesi.
L’offensiva borbonica rimane bloccata, accusando il duro colpo morale.
“Questi voti sono una mera formalità dopo una ben riuscita invasione.
Non implicano l’esercizio indipendente della volontà della nazione”
(Lord John Russell, Ministro degli Esteri britannico, all’epoca dei fatti)
“Il plebiscito giungea fino al ridicolo,
perché oltre a chiamare a votare sopra un soggetto dove la più parte erano incompetenti,
senza tampoco accertare l’identità delle persone e fin votando i soldati,
si deponevano in urne distinte i Sì e i No, lo che rendeva manifesto il voto”
(Cesare Cantù, storico, deputato del Regno d’Italia)
“Basta che si manifesti il desiderio di votare per il mantenimento dei Borbone,
perché si venga arrestati e rinviati a giudizio,
per rispondere di attentato a distruggere la forma di Governo;
basta un semplice sospetto, perché si proceda al fermo preventivo
che impedisce ai numerosi cittadini di partecipare alle operazioni di voto”
(Tommaso Pedio, storico contemporaneo)
26 ottobre 1860: Garibaldi incontra Vittorio Emanuele II, tra Teano e Vairano Patenora.
La storia risorgimentale dà grande enfasi all’incontro
e tramanda il saluto rivolto da Generale al Sovrano:
“Ecco il primo Re d’Italia”.
L’Eroe dei Due Mondi terrà ben altra intonazione, tutt’altro ritmo,
quando parlerà di Vittorio Emanuele nel suo “Poema Autobiografico”.
“E l’Italia? E’ fatta cloaca, ai piedi del più schifoso de’ tiranni…
con libertade sulle labbra e… in cuore del coccodrillo la verace sete dell’isterminio!
A dar battaglia ei viene a chi del Mondo la prima corona pose a’ suoi piedi.
Ingrata volpe!”.
5 novembre 1860 – 13 febbraio 1861: l’assedio di Gaeta.
L’atto conclusivo della conquista del Regno delle Due Sicilie.
Re Francesco II di Borbone dispone di circa centomila uomini e quattrocento cannoni.
Il Generale Cialdini può contare su un numero doppio di soldati e almeno centocinquanta cannoni.
Sostanzialmente non vi sono scontri diretti tra le due fazioni militari.
poche sortite degli assediati, nessuna irruzione degli assedianti per aprire brecce nella città.
C’è solo un’interminabile, spaventosa sequenza di colpi di artiglieria, da un lato e dall’altro.
Cialdini è una furia e non si ferma nemmeno davanti la bandiera bianca di Francesco II.
La fazione borbonica cessa i colpi e tratta la resa, ma il Generale non dà tregua alla città.
“Sotto le bombe si tratta meglio”, è la frase rimasta tristemente storica.
In tre giorni, dal 10 al 13 febbraio, la città è rasa al suolo,
una devastazione senza misura e precedenti,
per terrorizzare la popolazione e fiaccarne la resistenza.
L’ordine è prendere Gaeta, farla capitolare, costi quel che costi, alla città e ai suoi abitanti,
al di là dell’onere militare e delle regole e dei codici di cavalleria.
fonte
https://tesoridicarta.blogspot.com/2019/05/le-due-sicilie-fine-di-un-regno.html