LE DUE SICILIE – Spagnoli
I Vespri aprono uno spossante ciclo di lotte, senza vincitori né vinti. L’avventura siciliana si rivela al di sopra della potenza militare della Corona Aragonese, incapace di cacciar via gli Angiò dalla parte continentale del Regno. Gli Angioini, per altro verso, accusano un sensibile indebolimento della propria posizione geopolitica.
Giacomo II d’Aragona tenta una mediazione col Trattato di Anagni, sotto gli auspici della Santa Sede. Propone di restituire l’Isola agli Angioini alla sua morte, ma trova la fiera opposizione dei Siciliani, recalcitranti alla sola prospettiva di un ripristino del dominio francese. La mossa tattica dell’aragonese è infelice. La nobilita siciliana guarda a suo fratello, Federico III, come al possibile nuovo Re. Il clima è aspro, il conflitto ha una recrudescenza, l’ambiente si spacca, si divide ancora tra forze aragonesi e autonomiste. Il malcontento ha intanto ripreso a serpeggiare, per il ripristino di un’elevata pressione fiscale e l’arrivo di un’aristocrazia feudale spagnola, che riceve terre siciliane dal Re, in cambio di prestazioni militari.
Tutto è ovvio, col beneficio della retrospettiva. I siciliani odiavano i governanti pro tempore – chiunque fossero – e auspicavano e favorivano l’arrivo di un nuovo invasore, sperando in un miglioramento, per rimanere poi invariabilmente frustrati al permanere delle stesse questioni, degli stessi problemi. Ogni nuovo padrone, del resto, voleva rientrare delle spese, eliminare i potenziali nemici, rendere profittevole il proprio intervento. A ogni occasione, inevitabilmente, si innescava un nuovo ciclo di ribellioni e vendette, di divisioni di città o di singole famiglie, per difendere i privilegi, acquisirne di nuovi, far valere l’interesse privato, trarre vantaggi personali.
Angioini e Aragonesi rifiatano per la prima volta dopo vent’anni, il 31 agosto 1302, con la Pace di Caltabellotta.
Il Regno è diviso in due: Regnum Siciliae citra Pharum – spesso tradotto, erroneamente, in Regno di Napoli – e Regnum Siciliae ultra Pharum, formalmente Regno di Trinacria, con la Sicilia e le isole circostanti. L’accordo è la sostanziale riproposizione, questa volta fruttuosa, di ciò che non era riuscito a Giacomo II d’Aragona col Trattato di Anagni. La monarchia angioina, ormai in declino, acconsente al distacco dell’Isola a favore degli Aragonesi, che s’impegnano a rendere i territori occupati sulla parte continentale. Carlo II d’Angiò acquisisce il dominio sul neonato Regno di Sicilia Citrafaro; Federico III d’Aragona è nominato Re di Trinacria, con l’impegno a restituire definitivamente l’Isola agli angioini alla sua morte, a fronte della corresponsione di centomila once d’oro.
L’accordo esprime però solo una tregua, non un’autentica pacificazione. Federico III vuol solo dar respiro a un Regno stremato dal conflitto e intimamente non contempla alcuna ipotesi di cessione della Corona. Getta il patto alle ortiche già nel 1313, e condivide il suo titolo di sovrano col figlio Pietro, per di più nominandolo Re di Sicilia. La reazione angioina è inevitabile. Il conflitto è riaperto – sul piano diplomatico e militare – e si trascinerà senza tregua per oltre mezzo secolo, sin quando l’angioina Giovanna I di Napoli e Federico IV d’Aragona, con la mediazione di Papa Gregorio XI – i nuovi protagonisti ora sulla scena – siglano il Trattato di Avignone, il 20 agosto 1372.
Il Trattato statuisce la separazione de facto tra il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia – tra la Sicilia citeriore e il Regno di Trinacria, con l’esatta nomenclatura – e ne ridisegna i rapporti istituzionali come un vassallaggio del secondo, assegnato a Federico, nei riguardi del primo, nelle mani di Giovanna. Il Regno di Trinacria è perciò un grazioso dono della Regina Giovanna alla controporte aragonese, che le giura fedeltà e s’impegna a versarle un tributo di tremila once sin quando sarà in vita. Il costo dell’intermediazione papale non è tra i più leggeri: entrambe le parti si riconoscono sudditi del Pontefice, i due Regni sono assimilati a feudi della Chiesa. Una discendente angioina di Giovanna s’impegna poi a sposare Federico, rimasto vedevo, e tutte le clausole trovano soddisfazione in un sol colpo, durante la cerimonia nuziale a Messina, quando Federico giura fedeltà al Papa, che rimuove la scomunica all’Isola.
Era iniziato tutto con Federico II, lo Stupor Mundi, restio a sottomettere il Regno all’autorità papale, trascinando in un dirupo la casata Sveva, per proseguire con Federico III d’Aragona, allineato sullo stesso atteggiamento, per arrivare infine a un altro Federico, “il Semplice”, finalmente disposto a chinare la testa davanti al Pontefice.
Il Trattato di Avignone chiude un capitolo di storia – la Rivolta del Vespro – aperto novant’anni prima, e lo fa quando ormai le due dinastie si sono estinte e i partiti dissolti. Sicilia e Napoli sono per la prima volta Regni formalmente separati, vi sono ora due distinti Stati Siciliani, il Regno di Sicilia e il Regno di Napoli, con sorti che pur restano intrecciate, con complessi problemi di successione tra eredi designati, non più detentori del potere in linea diretta.
Sul versante siciliano, la dinastia aragonese è alle battute finali. Maria di Sicilia, figlia di Federico IV, s’impossessa della Corona alla morte dal padre, sebbene non fosse contemplata la successione in linea femminile. Sposa Martino “il Giovane”, nel 1392, che per i siciliani è però un usurpatore, perché l’unione matrimoniale è l’esito di una congiura, che vede addirittura il rapimento di Maria. La Regina muore nel 1401, senza eredi, e con lei si estingue il ramo siciliano della dinastia aragonese. Cinque monarchi – Federico III, Pietro II, Ludovico, Federico IV e Maria – tutti nati in Sicilia, a eccezione di Federico, e tutti, incluso Federico, cresciuti, vissuti, morti e sepolti in Sicilia.
Martino I succede al trono, rinnega il Trattato di Avignone e governa la Sicilia in autonomia, svincolandosi dal vassallaggio verso il Regno di Napoli. A Martino I segue suo padre, Martino I d’Aragona, che si insedia in Sicilia col numerale “II”, ma l’inversione nella fisiologia delle cose – un padre che succede al figlio – conduce alla fine della dinastia, nel 1410, per mancanza di altri eredi.
La Sicilia entra in un biennio di interregno, di disordine politico, inscritto in un vuoto di potere più ampio, pericoloso e destabilizzante.
Il 31 maggio 1410 tutti gli Stati della Corona d’Aragona sono senza un Re, non solo la Sicilia, ma anche l’Aragona, la Catalogna, Valencia, Maiorca e la Corsica. Martino “il Vecchio” ha semplicemente risposto sì, in punto di morte, alla richiesta di autorizzare la ricerca di un successore, in mancanza di una discendenza naturale. Il processo è lento, intricato e imprevedibile, perché privo di regole codificate. Lo stesso Martino l’aveva intuito, nel nominare una Commissione per consigliarlo sulla strada da intraprendere, e l’unica conclusione unanime dei dieci dottori, prima della morte del Re, era stata l’inibizione alle donne delle redini del Regno. Poi, a fatica, le Corti d’Aragona, Valencia e Catalogna – ignorando signorilmente i rappresentanti di Maiorca, Sicilia e Sardegna – raggiungono un compromesso – a Caspe, il 24 giugno 1412 – che porta la Corona d’Aragona al casato castigliano dei Trastamara di Ferdinando el de Antequera e di suo figlio Alfonso.
Aragonesi – Casato di Barcellona
Pietro I – Costanza II (1282-1285)
Giacomo I (1285-1296)
Federico III (1296-1337)
Pietro II (1337-1342)
Ludovico (1342-1355)
Federico IV (1355-1377)
Maria (1377-1401), Martino (1392-1401), re consorte
Martino I (1401-1409)
Martino II (1409-1410)
Sul versante continentale tiene banco Giovanna “la Pazza”. La sua bizzosa oscillazione nella scelta dell’erede – tra Alfonso di Sicilia e gli Angiò – trasforma Napoli nell’agone di una lotta serrata tra Angioini e Aragonesi.
Alfonso è in un ginepraio di intrighi. L’opposizione mascherata di Papa Martino V, quella palese del Duca di Milano, l’insofferenza della Regina Giovanna, e mettiamoci pure la gelosia del potente favorito di Giovanna, Sergianni, timoroso d’esser scavalcato dai catalani, tutto concorre a una lotta – prima sotterranea, poi aperta – tra le fazioni aragonese e angioina, che per Alfonso si risolve in ripetute e pesanti sconfitte, prima nel 1423, poi nel 1435, quand’è addirittura catturato nella battaglia navale all’isola di Ponza.
La guerra per il trono di Napoli parla con accento francese, anche grazie a un largo appoggio militare e finanziario – dallo Stato Pontificio alla Firenze Medicea, dalla Repubblica Veneziana al Duca di Milano – ma un fatto inspiegabile dà una direzione inaspettata al al corso degli eventi. Proprio il Duca di Milano, che tiene in custodia Alfonso, cambia casacca e lo libera – pur dietro pagamento di trentamila ducati – mettendogli a disposizione la sua potenza di fuoco.
Il 12 giugno 1442 – dopo sette anni di guerra e ripetuti successi militari su Renato d’Angiò, ultima designazione di Giovanna – Alfonso entra finalmente a Napoli, a culminare un assedio iniziato nel novembre del 1441. E’ una battaglia vinta che costa quanto una guerra persa, nell’esclamazione dello stesso Alfonso, che fotografa le sue tribolazioni e il tempo necessario per aver ragione di una città a un tratto percepita inespugnabile. “O città, quanto mi costi, per grande mia sfortuna! Tu mi costi duchi e conti e uomini di gran valore; tu mi costi un fratello ch’io tenevo come un figlio; tu mi costi ventidue anni, il fiore della mia vita; che, in te, sulle guance mi spuntò la barba, in te, mi s’è fatta canuta“.
L’ingresso in città è romanzesco – attraverso il pozzo di Santa Sofia, già utilizzato novecento anni prima dagli invasori bizantini – ma ancor più d’effetto sarà il teatro messo in piedi per impressionare la fantasia popolare e gli ambasciatori degli Stati esteri, a conquista ormai avvenuta.
Alfonso inscena un’entrata fantasmagorica nella capitale, nello stile dei trionfi dell’antica Roma, tramandata dai cronisti del tempo. “Alli 1443 alli 26 del mese di Febbraio di Martedì alle 15 hore entrò lo Re Alfonso d’Aragona col Carro Trionfale, et entrò per la porta del Mercato, e prima lo suo entrare fece rompere, et abbattere tante canne delle mura della detta Città di Napoli trionfando come l’antichi sovrani. Sopra lo detto Carro, Sua Maestà sedeva con lo scettro“.
Alfonso ha una tendenza innata alla spettacolarizzazione. Vi è in lui il desiderio di cristallizzare le sue vittorie in atti di grande valore simbolico. Distrugge il simbolo del potere degli Angiò, per farlo ricostruire con un magnifico arco marmoreo, sovrastato da una statua di fattezze maschili che lo rappresenta (giudicato all’epoca il più insigne monumento civile delle arti rinnovate e ancor’oggi uno degli esempi più belli dello stile rinascimentale).
Alfonso regna ora su Palermo e Napoli, formalmente ha riunificato il territorio dell’antico Stato svevo-normanno, e ne assume la corona col titolo di Rex Utriusque Siciliae, Re delle Due le Sicilie, anche se nei fatti i due Regni sono separati, come testimoniano le due distinte investiture papali.
Proprio le relazioni col Papato sono un punto controverso. Alfonso ha conquistato militarmente il Regno Napoli, sconfiggendo pretendenti angioini sistematicamente sostenuti dalla Chiesa, perciò non ha alcuna soggezione verso il Papa, non accetta di ridurre il Regno a un feudo del Papato. Per altro verso, tuttavia, l’investitura del Papa non è solo una formalità. La soluzione del contrasto è il trionfo delle diplomazie – pontificia e aragonese – che perfezionano tutta una serie di atti simbolici, ma suscettibili di mediare tra le diverse istanze. Alfonso riceve la legittimazione da Papa Eugenio IV, nel giugno del 1443, e l’anno successivo lo stesso Papa emana una bolla per tutelare i diritti di successione del figlio illegittimo Ferrante, nato da una delle molteplici liaison del Re.
Re Alfonso – I di Napoli – fissa nella città partenopea la sede del suo governo, affida alla moglie Maria di Castiglia i domini d’Aragona e per la Sicilia nomina il Viceré Giovanni II d’Aragona – I di Sicilia, particolarmente gradito al popolo – avviando per l’Isola un lunghissimo periodo di vicereame.
I territori e i popoli sotto la sovranità aragonese non formeranno mai un vero amalgama. Assomiglieranno piuttosto a un’unione ideale – nella persone del Re – di compagnie marcatamente diverse sotto i profili giuridico, politico e economico, una federazione di Stati sotto un vincolo di comune dinastia.
Alfonso detta le disposizioni per la successione nel 1458, poco prima della morte. La Sicilia è assegnata al fratello Giovanni II, Napoli va al figlio Ferrante. I due Regni, di Napoli e Sicilia, tornano a separarsi, o forse non erano mai stati riuniti, sul piano istituzionale, ma solo nella persona del Re.
Ferrante è incoronato il 4 febbraio 1459, col nome di Ferdinando I, ma la nomina non è pacifica, non segue il copione prestabilito. Papa Callisto III dei Borgia è mal disposto verso il nuovo Re. Adombra le sue incerte origini, risolleva la questione del vassallaggio, rifiuta la convalida della successione al trono, sobilla i baroni napoletani, auspicandone la ribellione. Le asprezze durano lo spazio di un mattino. Callisto passa oltre, gli succede Pio II, che approccia la situazione con maggior finezza. Chiede e ottiene la restituzione di Benevento e Terracina – enclavi pontificie sul territorio del Regno – e l’impegno a pagare la chinea, il tributo feudale, offrendo in cambio il riconoscimento del titolo regale.
Le incertezze nella successione al trono, e il conseguente clima di tensione, hanno comunque solleticato la mai sopita ambizione di Giovanni D’Angiò, figlio di Renato, di riconquistare il Regno dei suoi avi, per restaurare il dominio angioino. Napoli subisce una nuova invasione francese e inizia una nuova guerra, con continui capovolgimenti di fronte, risolti infine a favore dell’aragonese. Per il Regno si apre finalmente un ventennio di prosperità, pur segnato da episodi critici, tra tutti le reiterate congiure dei baroni e l’invasione ottomana.
Nel 1494 Re Ferrante consegna il suo nome alla storia e la corona al figlio Alfonso II, che però abdica velocemente, a favore di Ferrante II, detto Ferrandino.
Il tourbillon sul trono ha un motivo preciso, un nome preciso: quello di Re Carlo VIII di Francia, pronto a scendere verso Napoli, per rivendicare il territorio in nome degli antenati angioini.
L’attacco sarà respinto, ma non senza strascichi. La spedizione francese ha scosso gli equilibri politici e mutato le alleanze. Francia e Spagna si fronteggiano per la supremazia in Europa e nel nuovo mondo, e chi sta in mezzo parteggia ora per l’una ora per l’altra, pur di preservare le briciole di potere nel proprio orto. “Franza o Spagna, purché se magna“, dirà il Guicciardini, abituato a palleggiare con le due corti, un’espressione poi entrata nel costume popolare, a testimoniare l’acquiescenza delle masse, se non toccate in alcune, piccole prerogative, psicologicamente acquisite.
Nel Meridione italiano va in scena un episodio di parenti-serpenti, con Ferdinando “il Cattolico”, già Ferdinando II di Sicilia, che sradica il ramo aragonese innestato da Alfonso e divenuto “napoletano” con Ferrante, e rimarrà sul trono per oltre cinque lustri.
Aragonesi – Trastamara
Ferdinando I (1412-1416)
Alfonso I (1416-1458)
Giovanni I (1458-1479)
Aragonesi – Trastamara
Ferdinando II (1479-1516)
La scomparsa di Ferdinando “il Cattolico” è un punto e a capo per le dominazioni del casato di Barcellona e della dinastia castigliana dei Trastamara. Napoli e Sicilia, unite, ricadono ora direttamente sotto la corona di Spagna, retta da Carlo V d’Asburgo, e nei fatti amministrate da due Viceré, nell’ambito più generale di una Federazione Spagnola in cui i vari Stati – tra cui la Sicilia – preservano una notevole autonomia dal potere centrale del Regno di Spagna, pur sotto un vincolo di comune dinastia.
Due secoli di vicereame, con dentro malcontenti, ambizioni e speranze, in un intreccio di alleanze, tradimenti, tiri mancini, intrighi, matrimoni d’interesse, voltafaccia, crudeltà, pesti e carestie, che terranno occupati Re e Regine, Baroni e Principi, in un valzer di guerre, guerricciole, invasioni e ritirate, che segneranno questo lunghissimo periodo della storia delle Due Sicilie.
Serve arrivare al 1713, per registrare un autentico strappo.
Il Trattato di Utrecht chiude la Guerra di Successione Spagnola e di rimando ne risente la geopolitica della penisola italiana. La Spagna rimane il più vasto impero, ma subisce un visibile ridimensionamento, che passa anche per la cessione dei territori di Napoli e Sicilia.
Il lunghissimo vicereame spagnolo – dal 1516 al 1713 – è improvvisamente al capolinea.
I Re di Spagna
Carlo IV (1516-1566)
Filippo I (1556-1598)
Filippo II (1598-1621)
Filippo III (1621-1665)
Carlo III (1655-1700)
Filippo IV (1700-1713)
Giovanna II di Napoli è Giovanna la dissoluta, la cacciatrice d’uomini, l’insaziabile, la donna dai cento amanti, focosa e violenta, assetata di sesso e sangue, schiava dei suoi orgasmi.
L’alcova della Regina è un luogo maledetto, dove si trova il piacere e si perde la vita.
Entrano in tanti, di ogni estrazione sociale, nobili e lazzaroni, figli del popolo e aristocratici,
purché belli e forti, prestanti e resistenti.
Entrano in tanti, nel letto di Giovanna, ma in pochi ne escono, se ci riescono.
Ogni amante deve sparire, dopo l’amplesso regale, per non spargere voci insolenti, per non compromettere l’onore della Regina, per evitare imbarazzi insostenibili.
Nell’attico del Castello del “Maschio Angioino”, dove Giovanna riceve i suoi amanti, c’è una botola che scaraventa gli spasimanti in un dedalo di cellette, spuntoni, trabocchetti e lame, oppure in pasto a un leggendario coccodrillo arrivato dall’Africa attraverso il Mediterraneo, e nell’immaginario collettivo trasfigurato niente meno che in un mostro marino.
Giovanna precetta i pastori più aitanti della zona, ma ordina di darli in pasto ai lupi, se la loro prestazione la lascia delusa, se non la soddisfa a sufficienza.
Dispone la distruzione di Satrianum, un antico centro lucano, perché a Satrianum è stata rapita la sua dama preferita, in viaggio verso Napoli, ma forse anche per sfogare la collera per il rifiuto del baronetto di cui si è invaghita, che non ricambia, già sedotto proprio dalla damigella della Regina.
Benedetto Croce ne parla nelle sue “Storie e leggende di Napoli”, enfatizzando i risvolti boccaceschi del personaggio:
“Più tardi ascoltai particolari più giovenaleschi: la regina che andava in giro per le scuderie a godere l’un dopo l’altro di tutti i palafrenieri; la legge che ella, nuova Semiramide, comandò di bandire nel suo regno, facendo lecito il libitio; la sua orrenda morte da Pasifae in abbracciamenti non già con un toro, ma con un cavallo, del quale, sazia degli uomini, si era bestialmente innamorata; e colsi sulla bocca del popolo la frase non elogiativa, detta di qualche donna di sfrenate voglie:
E’ come la regina Giovanna”.
Giovanna II di Napoli è Giovanna “la Pazza”, che Re Giacomo di Borbone rinchiude nella torre più alta del maniero, dopo averla dichiarata folle per il reiterato “peccato di lussuria”.
Ancor oggi riecheggiano lamenti, gemiti e pianti, nei luoghi frequentati all’epoca da Giovanna; vi si avverte il peso dell’apprensione, la presenza di spiriti irrequieti, le anime di chi tra le braccia della Regina trovò un piacere sfrenato e una morte violenta.
Giovanna stessa vagherebbe ancora tra le mura della Rocca di Arquata del Tronto, la sua residenza estiva per quindici anni, nella forma di un fantasma che emana sospiri e ululati di piacere.
Quelli di una Regina assetata di vita, non rassegnata alla morte: stanca sì, sazia mai!
Giovanna II d’Angio-Durazzo, figlia di Carlo III di Napoli e di sua cugina Margherita di Durazzo, nata a Zara il 25 giugno 1373, deceduta a Napoli il 2 febbraio 1435.
Regina di Napoli dal 1415, per designazione del fratello Ladislao, Re di Napoli e d’Ungheria.
Donna gaudente, mondana, famosa più per la vita licenziosa e la rilassatezza di costumi, che non per i suoi meriti politici o per l’arte di governo.
C’è però un eccesso di folklore intorno al suo nome, che porta addirittura a confonderla, se non a fonderla, con Giovanna I, anch’ella ape regina.
Clamorose le ciarle intorno al monumento noto ai più come “Piazza della Vergogna”, già Piazza Pretoria, nel centro storico di Palermo.
La fontana fu progettata dal fiorentino Francesco Camillani, per abbellire la villa toscana del Viceré di Napoli, e riproduce figure mitologiche e allegoriche senza veli.
Il figlio del Viceré, oppresso dai debiti, ne dispose la vendita e il Senato Palermitano gettò cuore e denari oltre l’ostacolo, ventimila scudi, ottomila onze, pur di averla.
Quella spesa, in un’epoca di miserie, fece gridare al popolo “vergogna, vergogna!”, assai più che la nudità delle statue, che pure concorsero a creare storie leggendarie, come quella delle suore che ne danneggiarono le parti intime, giudicandone sconveniente l’esibizione.
Tra i secoli XVII e XIX il popolo identificò le statue con i personaggi di spicco della politica
e per alcuni la donna voluttuosa, lascivamente distesa accanto al cavallo, era proprio Giovanna.
La fantasia completò l’opera, sostenuta dall’ambiguità del nome – Cavalli – di un famoso architetto di corte.
Della Regina si disse che, annoiata dagli uomini, avesse appagato le sue voglie con uno stallone, che tuttavia la lasciò ancora insoddisfatta, facendole esclamare inviperita “stanca sì, sazia mai”, a rievocare la provocazione che fu già di Messalina (“lassata viris, nondum satiata, recessit”: stanca, ma non sazia, smise).
Giovanna era sicuramente una personalità dominante, altrimenti non sarebbe stata Regina, in un mondo di figure maschili scaltre e profittatrici, dove servivano solo forza e astuzia, dove ogni contrasto si risolveva col pugnale o col coltello.
Subì però uno spiazzamento, con ogni probabilità.
Salì tardi al trono a quarantatré anni, senza alcuna pratica di governo, avendo trascorso una vita da principessa, tra svaghi di corte e amori vari.
Arrivò tardi al potere, impreparata a regnare, su un Regno instabile e vacillante, mal giudicato dai contemporanei e dagli storici, sino a Benedetto Croce:
“Napoli e il Regno avevano allora aspetto guerriero: tutti attendevano alle armi, che erano principale cura di quella società impegnata in varie e continue lotte”.
Più il desiderio di protezione e l’orgogliosa tutela del Regno, che non i suoi presunti incontrollati impulsi sessuali, l’obbligarono a destreggiarsi tra uomini capaci di aiutarla concretamente, di sorreggerla emotivamente, appoggiandosi ora all’uno ora all’altro, consigliere, condottiero, successore, per intrecciare trame e alleanze, tra complotti e tradimenti.
Sicuramente Giovanna subiva il fascino maschile, sicuramente finì tra le braccia di una nutrita schiera di amanti, e diverse sue relazioni amorose andarano di pari passo con l’attribuzione di ruoli di potere.
Rimane ammaliata dalla prestanza di Bartolomeo Colleoni, un capitano di ventura bergamasco, molto più giovane di lei, approdato a Napoli, per l’assalto dei pirati durante la sua navigazione verso la Francia.
I due intrecciano una relazione, lui entra nelle fila dell’esercito reale, e al suo congedo la Regina gli concede di fregiarsi delle sue insegne, i gigli d’oro degli Angiò, che il Colleoni aggiunge subito al suo stemma personale.
Rimane vedova di Giovanni d’Austria e il suo nuovo favorito, Pandolfello Alopo, secondo alcuni uno stalliere, per altri di buona famiglia, prima coppiere poi Gran Camerlengo, la persuade a risposarsi col francese Giacomo II di Borbone, uomo di nobili origini e pochi scrupoli.
Giacomo sequestra e decapita l’amante, poi segrega la Regina a Castel Nuovo, e serve un’azione di forza, nel 1416, per ribaltare una situazione scappata di mano.
I fedelissimi della Regina assediano il castello, col sostegno del popolo, restituiscono la libertà e potere a Giovanna e costringono Giacomo alla fuga.
Ben presto Giovanna trova un nuovo amore, padrone del suo cuore e del Regno.
Giovanni Caracciolo, detto “Sergianni”, sin allora oscuro notaio, e ora, anno 1417, Gran Siniscalco e vero detentore del potere a Napoli.
La singolare condotta di Giovanna, il potere allegramente elargito ai suoi amanti, la rende invisa a larghi strati della nobiltà napoletana.
Scatena pure le ire del Papato, quando, mal consigliata da Sergianni, gli rifiuta la corresponsione dell’usuale contributo finanziario in segno di fedeltà.
Ne approfitta Luigi d’Angiò, per candidarsi al trono della cugina, col sostegno e l’approvazione di Papa Martino V, nel 1419.
L’esercito invade la Campania, assedia Napoli, sembra avere la meglio, quando il Papa si sfila, timoroso dell’eccessivo rafforzamento dell’angioino.
Prendono avvio complesse trattative diplomatiche, tutte infruttuose, per la caparbietà di Giovanna nel non cedere un passo nei suoi diritti regali.
Consigliata ancora da Sergianni, la Regina invoca nel 1421 l’aiuto di Alfonso V d’Aragona, il Re di Sicilia, prospettandogli l’eredità di Napoli, per assicurarsi la sua fedeltà.
Inizia una lotta serrata tra Angioini e Aragonesi, che scaraventa Napoli nell’anarchia.
Alfonso arriva a Napoli nel settembre del 1421 e, pur con lentezza, scaccia le milizie di Luigi, lasciandogli infine solo la Calabria.
Attende poi l’abdicazione di Giovanna, ma l’attesa è vana, e culmina nella rabbia.
Giovanna ritratta la promessa, istigata ancora da Sergianni, e muove guerra al disconosciuto alleato spagnolo.
Alfonso è un guerriero, non un filosofo, e non la prende con filosofia.
Ordina l’arresto dell’infido consigliere e assedia la sovrana traditrice.
La diplomazia permette il rilascio di Sergianni e la fuga della Regina ad Aversa.
Qui Giovanna riallaccia i legami col cugino angioino, rinominato nuovamente erede.
I suoi soldati rientrano a Napoli nel 1424, prevalgono sulle milizie aragonesi e Alfonso batte in ritirata, richiamato anche dai problemi dei fratelli in Castiglia.
La vita di Giovanna rimane tormentata.
Sergianni esercita ormai un potere tirannico e incontrollato, al punto da provare a segregare la Regina in Castel Capuano.
Muore però in una congiura di palazzo, nel 1432 (“Morto è lo purpo e sta sotto la preta, muorto è Sergianni figlio de poeta”, canta il popolo per strada, per celebrare a suo modo quest’uomo potente e temuto) e Giovanna, con una nuova giravolta, adotta nuovamente Alfonso, che non ha più tempo e voglia di attendere e si rimpossessa della Corona.
Altro giro, altra richiesta di aiuto, e Giovanna non esita a invocare Luigi, che però esce dal teatro di Napoli e della vita nel 1434.
“Femines non sunt ut homines viriles”, le donne non hanno la virilità degli uomini, annotò il fiorentino Doppo degli Spini a proposito di Giovanna, che, se non pazza, fu sicuramente una sovrana volubile e capricciosa, ma anche intuitiva e assennata, generosa e caritatevole.
Morì nel 1435, seppellita con semplicità sotto l’altare della Chiesa dell’Annunziata, andato però distrutto in un incendio, nel 1757.
Con lei si estingue la casata degli Angiò-Durazzo e definitivamente la dinastia degli Angioini.
Alfonso V d’Aragona, I di Napoli, già Re di Sicilia, primogenito di Ferdinando Trastamara, Re di Sicilia, e di Eleonora d’Aragona.
La sua conquista di Napoli fu un evento doloroso.
La città ne uscì devastata, la popolazione decimata e terrorizzata, la situazione generale – sociale e economica – era avvilente.
I militari aragonesi tennero un atteggiamento sprezzante, verso il popolo napoletano:
uccidevano, rubavano, saccheggiavano, lasciavano macerie al loro passaggio.
Alfonso condannò severamente ogni prepotenza, ogni abuso, sino a contemplare la pena capitale, ma la sua fermezza, pur apprezzata, non bastò a lenire l’astio partenopeo verso i catalani e la parola stessa “catalano” rimase a lungo sinonimo di “nemico”, anche perché il Sovrano aveva assegnato a suoi connazionali i posti di prestigio, e lasciato ai napoletani semplici cariche onorifiche (salvo poi raccomandare al figlio Ferrante, nelle disposizioni testamentarie, di sostituire i funzionari spagnoli con rappresentati locali).
Alfonso rimase sempre uno “straniero”, a stento capace di intendere la lingua del luogo,
e tuttavia meritò pienamente l’appellativo di “Magnanimo”, per la sua prodigalità nel dare a Napoli le vesti eleganti di una grande capitale.
Bonificò le zone paludose dei borghi, restaurò l’acquedotto e le reti fognarie, pavimentò le strade, costruì una biblioteca imponente, ristrutturò i moli del porto, abbellì gli edifici pubblici, e spesso a scapito delle finanze del suo Regno d’origine.
Napoli diventerà un’icona di raffinatezza, acquisterà celebrità per lo splendore della sua corte, l’apertura alle novità culturali, il mecenatismo del Sovrano.
Alfonso sarà perciò ricordato come un Re generoso e illuminato, superiore persino a Lorenzo “il Magnifico”, nel panorama del Rinascimento italiano.
Lucrezia D’Alagni è la “favorita” della corte napoletana di Alfonso, il grande amore del Sovrano, che siede alla sua destra in ogni occasione, ribaltando ogni etichetta, temuta e rispettata tanto dai popolani quanto dagli aristocratici, la vera Regina di Napoli, capace di rivaleggiare con la legittima consorte, e con ogni probabilità ispiratrice per oltre un decennio della politica aragonese nel Mediterraneo.
Incontra il Re casualmente, il 23 giugno 1448, alla vigila della festa di San Giovanni Battista,
in cui per tradizione le ragazze “da marito” offrono in pegno d’amore una pianta d’orzo o di grano e raccolgono offerte per dare solennità alla processione e alla festività.
Lucrezia consegna la pianta ad Alfonso, che la ripaga con una borsa colma di monete d’oro.
La ragazza si schernisce, ne trattiene solo una e restituisce il resto.
Il Re ne resta ammaliato.
Diciotto anni lei, oltre cinquanta lui, non sono un argomento, e sarà solo per lei che lui rimarrà a Napoli per il resto della vita, senza più tornare in terra iberica.
Alfonso l’avrebbe sposata, semmai fosse deceduta la moglie Maria di Castiglia, o se più pragmaticamente il Papa gli avesse concesso l’annullamento del matrimonio, che gli fu invece pervicacemente negato, perché il Pontefice non voleva “finire all’inferno insieme alla cortigiana del Re”, come ebbe a confessare ad alcuni funzionari della Curia Romana.
I cronisti di Corte provano a frenare le malelingue:
magnificano Lucrezia, ne esaltano la purezza, arrivano a definirla “una vergine incontaminata”, propagandando un legame squisitamente spirituale con Sua Maestà
(ma non manca il controcanto di chi si dice sconvolto davanti a un Regno retto da una cortigiana).
Il giudizio in retrospettiva degli storici è meno poetico.
Tessitrice di complesse trame politiche o soltanto amante passionale di Alfonso?
Probabilmente l’una e l’altra, col secondo ruolo, di animale da letto, strumentale al primo, per influenzare le scelte politiche e aver favoritismi, per lei e per amici e parenti
(che in effetti riceveranno titoli, incarichi e possedimenti).
Alfonso le conferisce il feudo di Ischia, caposaldo della difesa del Regno, che Lucrezia utilizza più come luogo di svago che non come presidio militare, affidandone l’amministrazione al cognato Giovanni La Torella.
I due aspettano e sperano la dipartita dell’anziana, malata e pur coriacea Regina, e a morire è invece Alfonso e con esso muoiono anche le fortune della bella castellana.
Allontanata dalla corte dal nuovo Re, accusata di un’alleanza segreta con i francesi; dimenticata dai falsi amici, che non potevano più trarre vantaggi; tradita dal cognato, governatore di Ischia, che la ricopre di infamia, pur di non renderle il possesso del feudo che le spetterebbe; e poi le voci insistenti sulla sua dissolutezza e i suoi sui vizi, bersaglio naturale per la schiera di tutti gli invidiosi del suo passato.
Lucrezia è sola, valuta l’idea di eclissarsi, di chiudersi in un convento.
Fugge dal Regno, prima in Dalmazia poi a Ravenna.
E’ sepolta a Roma, dove entra prepotente nel sentimento popolare, che chiama “Madama Lucrezia” un busto anonimo nei pressi di Piazza Venezia, dove Lucrezia trascorse i suoi anni romani.
Di lei, oggi, non c’è oggi più né tomba né lapide, ma ne rimane una statua nel complesso marmoreo all’ingresso del “Maschio Angioino”.
Ferrante aveva una personalità diversa dal padre.
Molto pratico, poco generoso, risoluto e determinato, duro e crudele con i nemici.
Ne diede prova nel contrastare la cosiddetta “congiura dei Baroni”, tra il 1459 e il 1462, e poi nuovamente tra il 1485 e il 1486.
I baroni vantavano all’epoca una notevole autorità, ereditata dal sistema feudale angioino e tutelata dal Papato.
Avevano accumulato privilegi, con conquiste, usurpazioni e donazioni forzate, e recalcitravano a cedere potere e ricchezza a un governo centrale, intenzionato a realizzare una riforma strutturale dello Stato, per rinnovare la vita economica e promuovere nuove classi sociali.
Già Alfonso aveva intuito quanto fosse instabile l’equilibrio, quando fu colpito da una malattia che lo ridusse in fin di vita, non appena conquistata Napoli.
La (falsa) notizia della sua morte scatenò una rivolta, e catalani e aragonesi toccarono con mano l’odio nei napoletani, al pari degli stessi napoletani colpevoli di lealtà verso il proprio Sovrano.
Alfonso guarì poi all’improvviso, miracolosamente, ma l’evento testimoniò l’incostanza del baronaggio e la volubilità dei sudditi.
Due numeri sono sufficienti a dare la dimensione del potere baronale:
su circa 1.500 centri abitati, poco di 100 erano assegnati al regio demanio, sotto il potere del Re, e tutti gli altri erano invece nelle mani dei Baroni, organizzati in grandi dinastie ramificate.
L’occasione contingente per attuare la congiura contro Re Ferrante è nelle scintille tra il nuovo Papa Innocenzo VIII e il Principe ereditario Alfonso.
Il Principe reclama le enclavi di Pontecorvo, Benevento e Terracina, il Papa gliele rifiuta,
e il Re rende esplicito il confitto con la sospensione dell’omaggio alla Chiesa e l’introduzione di severe misure fiscali verso i beni ecclesiastici.
I Baroni fanno sponda sull’antagonismo tra il Regno e la Chiesa e all’inizio del 1485 si rivolgono al Papa, nella sua veste di Sovrano feudale di Napoli, per chiedere la decadenza di Ferrante dal trono.
E’ l’inizio di un conflitto che si snoda su ogni piano possibile
– militare, politico, diplomatico, strategico, tattico – scandito da un succedersi d’inganni, falsi accordi e equivoche mediazioni, un vespaio di giochi, doppi-giochi e doppi-doppi-giochi, di aspettative tradite, precipitose fughe in avanti e clamorose retromarce.
Re Ferrante ne esce vittorioso e del trionfo vuol assaporare la punta più velenosa: la vendetta.
Il 13 agosto 1486, a oltre un anno di distanza dalla congiura-scongiurata, il Re invita tutti i Baroni al matrimonio della nipote Maria Piccolomini, un segno apparentemente distensivo, confermato da un’accoglienza in pompa magna.
Ma quando tutti i Baroni si ritrovano nella Gran Sala, il castellano li dichiara in arresto.
Un tribunale presieduto dal Principe Alfonso li processa il 3 novembre, ne convalida la prigionia e per i principali esponenti ne dispone la pena di morte.
La politica anti-baronale proseguirà negli anni a seguire, con arresti e confische a tappeto.
Le rimostranze papali “di principio” saranno tacitate “con atti materiali”: il ripristino del censo feudale, la concessione della piena autonomia nella nomina dei vescovi e alcune innocue scarcerazioni per lo più di valore simbolico.
Il Pontefice, per parte sua, riconoscerà Alfonso come legittimo successore al trono di Napoli.
Tommaso Aniello d’Amalfi, per tutti Masaniello, è il protagonista di un episodio tanto breve quanto vigoroso e carico di significati, nella storia del vicereame spagnolo.
La storiografia ottocentesca colorerà i fatti di significati patriottici, di ribellione a una dominazione straniera,
gli conferirà valori risorgimentali, come già accaduto per i Vespri Siciliani.
Ma la causa prima è più basica e si trova nella politica della Napoli della prima metà del seicento, in cui il popolo, fatto di artigiani, mercanti, contadini, ma anche di borghesi e intellettuali, subisce le costanti prevaricazioni sociali di ben sette caste nobiliari, Principi, Duchi, Marchesi, Conti, Baroni, Patrizi e Signori,
e in special modo un’iniqua distribuzione del carico fiscale.
E’ il 7 luglio 1647.
Gli ortolani e i contadini, appena arrivati al mercato, scoprono una nuova gabella sulla frutta.
Urla, spintoni, minacce, netto rifiuto a sottomettersi a un’altra imposta.
Un sedicente rappresentante del popolo, chiamato a mediare, finisce col prendere le parti dei gabellieri, probabilmente perché corrotto.
E’ l’inizio della rivolta, al grido “Viva il Re di Spagna, mora il malgoverno!”.
Un giovane pescivendolo, con un passato da carcerato per contrabbando, anima e coagula il popolo.
E’ Masaniello, nominato Capitano Generale del Fedelissimo Popolo Napoletano giudicato l’uomo ideale per dare le parole d’ordine e gli obiettivi politici della rivolta.
Masaniello ha carisma, esercita un forte ascendente, possiede un bell’eloquio, sino a esser ricevuto a Palazzo, con sua moglie Bernardina.
L’arcivescovo Filomarino lo descrive con toni enfatici, a Papa Innocenzo X:
“Questo Masaniello è pervenuto a segno di tale autorità, di comando, di rispetto e di ubbidienza,
in questi pochi giorni, che ha fatto tremare tutta la città con li suoi ordini, li quali sono stati eseguiti da’ suoi seguaci con ogni puntualità e rigore: ha dimostrato prudenza, giudizio e moderazione; insomma era divenuto un re in questa città, e il più glorioso e trionfante che abbia avuto il mondo.
Chi non l’ha veduto, non può figurarselo nell’idea; e chi l’ha veduto non può essere sufficiente a rappresentarlo perfettamente ad altri.
Non vestiva altro abito che una camicia e calzoni di tela bianca ad uso di pescatore, scalzo e senza alcuna cosa in testa né a voluto mutar vestito, se non nella gita dal Viceré”.
Ma la grandezza di Masaniello porta con sé i germi della sua stessa distruzione.
Mangia poco e dorme meno, in compenso beve molto, e per alcuni sono per lo più “bevute di Roserpina”, un potente allucinogeno.
Il potere lo inebria, lo ossessiona.
Teme complotti e inizia a dar segni di squilibrio.
Compie azioni illogiche, ordina esecuzioni sommarie dei suoi oppositori.
L’ultimo giorno del suo “regno” è il 16 luglio, la festa della Madonna del Carmine.
E’ affacciato dalla finestra di casa, per difendersi dalle accuse di pazzia e tradimento.
“Popolo mio…”, inizia con la sua formula rituale, “… ti ricordi, popolo mio, come eri ridotto?”, a rievocare le vessazioni, a richiamare la necessità di vigilare sulle conquiste.
E’ fisicamente mal ridotto, fa gesti insulsi, arriva a denudarsi, tra fischi e risate.
Scende in strada, corre, scappa, per poi trovare rifugio nella Basilica del Carmine.
Interrompe la celebrazione e sale sul pulpito, per tenere un ultimo, farneticante discorso.
L’arcivescovo lo placa, lo fa accompagnare in una delle celle del convento.
Lo raggiungono alcuni capitani delle ottine, Carlo e Salvatore Catania, Andrea Rama, Andrea Cocozza e Michelangelo Ardizzone.
Masaniello si fida, apre la porta, e ne riceve in cambio una serie di archibugiate.
Salvatore Catania lo decapita e porta la tesa al Viceré, per provarne la morte.
Il resto del corpo è trascinato per le strade della città, gettato infine in una fogna o in un fosso, accanto ai rifiuti, in pasto ai cani randagi.
I capitani delle ottine saranno tutti generosamente ricompensati dalla Corona di Spagna, come testimoniato da diversi documenti d’archivio.
La moglie Bernardina, rimasta sola, si reinventa “fioraia”:
“vende a tutti la stessa rosa”, avrebbe detto De Andrè, in un vicolo del Borgo di Sant’Antonio Abate.
La scomparsa di Masaniello è in due numeri del giorno dopo, al mercato:
sulla palata di pane è tornata la gabella sulla farina, e il peso fissato da Masaniello, a 32 once, è stato ribassato a 30.
Il popolo realizza chi era stato Masaniello, capisce di aver perso un condottiero.
Si premura di recuperare e ricomporre le spoglie, portate in trionfo con gli onori militari tributati a un Generale, nel silenzio delle autorità spagnole, che assecondano ogni forma di devozione, temendo una nuova rivolta o altre sommosse.
La storia di Masaniello, in cui non è facile discriminare tra eventi storici e fatti rielaborati dal folklore,
avrà paradossalmente più impatto oltre i confini del Regno di Napoli e dell’Italia tutta.
Il suo mito attraverserà la Francia, l’Inghilterra, la Polonia, e dopo oltre trecento anni sarà celebrato dal cantautore napoletano Pino Daniele, nella sua “Je so’ pazzo”, ispirata all’ultimo discorso pubblico del capopopolo, per dar voce alla stessa irrequietezza di una generazione, sebbene in tempi e contesti mutati.