Le motivazioni d’appello sull’omicidio di Ciro Esposito: quando uccidere un napoletano è una bravata
ccidere un napoletano è una bravata. Alla fine non poteva che essere opera di uno scrittore quale Giancarlo De Cataldo, quello di Romanzo Criminale, estensore della sentenza di appello di Daniele De Santis, ribaltare la realtà come in un romanzo.
Una bravata: questo il termine sparso nelle motivazioni della sentenza d’appello per l’omicidio di Ciro Esposito, che ci riporta a quel 3 maggio 2014, dentro quell’Olimpico dove si giocava la finale di Coppa Italia in un clima surreale che già gridava forte una sola, italianissima, certezza, come scrivemmo fin dal primo giorno: faremo di tutto affinché, alla fine, la colpa sia sempre la vostra, napoletani!
E così eccola la sentenza d’appello (pubblicata dal Corriere) quella che ha eliminato le aggravanti per De Santis riducendo la sua pena da 26 a 16 anni e che, di fatto, ha ribaltato le motivazioni dell’omicidio di Ciro: «Insofferente della presenza dei tifosi napoletani in quello che considera il proprio territorio di ultra De Santis attua una “bravata” lanciando oggetti contro un pullman»». Insomma nessun agguato o meglio un agguato presunto. E i botti, le bombe carta, i fumogeni e i sassi dai quali i napoletani sarebbero bersagliati, sarebbero anche quelli presunti, frutto di suggestione collettiva ricostruita ex post (e poco importa che nei video di quel giorno si sentano i botti e i rumori delle bombe carta, poco importano i testimoni, siamo tutti vittime di allucinazioni collettive, non hanno dubbio i magistrati!): ” L’agguato ai danni dei tifosi napoletani, di cui hanno riferito numerosi testimoni, è solo «presunto»: «Non se n’è rinvenuta traccia – si legge nelle motivazioni – Sono il frutto della suggestione collettiva, di una ricostruzione ex post».
La corte presieduta da Andrea Calabria dice chiaramente che «botti e fumogeni vi erano sicuramente stati e vi sarebbero stati ancora. Ma l’esplosione di botti e il lancio di fumogeni andavano avanti da tempo, ben prima che De Santis mettesse in atto la sua tragica bravata». Bravata, di nuovo. E di nuovo: «De Santis attua una bravata lanciando oggetti contro un pullman di tifosi napoletani». «Quando Genny (‘a carogna, ndr) transitano per Tor di Quinto, De Santis non si è ancora reso responsabile della bravata. È solo quando si sparge la voce della predetta bravata che matura la decisione di inseguire De Santis e dargli una lezione».
Insomma Ciro Esposito, che sarebbe poi morto dopo lunghi giorni di sofferenza, se la sarebbe andata a cercare. De Santis non fece da esca: «Se i tifosi napoletani si posero all’inseguimento dell’ultra ciò accadde per la decisione della vittima». E da qui anche le motivazioni per cui non c’è l’aggravante per futili motivi: «Se futili furono sicuramente i motivi che indussero De Santis ad attuare la provocazione contro i tifosi napoletani, non altrettanto può dirsi quanto alla condotta omicida, dal momento che essa conseguì al precipitare degli eventi e non all’astratta volontà di riaffermare il proprio odio nei confronti dell’avversa tifoseria».
E la memoria torna a quelle prime ore dopo l’incidente, quando si parlava, da subito, anche nelle telecronache di agguato premeditato e criminalità estranea al calcio. Perché la sentenza era già scritta da quando Hamsik, scortato da polizia e dirigenti azzurri, andò quel giorno sotto la curva a parlare coi suoi tifosi e Cerqueti non perse occasione per definire il fatto vergognoso. Noi non dimentichiamo le narrazioni tossiche che questa vicenda ha generato fin da subito, fin da quanto gente come Concita De Gregorio definì “trattativa Stato – Mafia” quel colloquio sotto la curva come se i rappresentanti delle istituzioni italiane avessero dovuto chiedere al tifoso delinquente, rappresentante di un’altra banda di criminali come lui, il permesso per giocare una partita macchiata del nostro sangue. Era già stata scritta quando all’Olimpico, quella sera, si spararono quattro fumogeni che scatenarono l’indignazione dei cronisti. Era già scritta quando si parlà di “inciviltà” e “vergogna” da parte dei napoletani perché avevano fischiato l’inno nazionale. Era scritta quando si assurse Genny La Carogna, reo di scavalcamento delle transenne, di rappresentare la camorra e il volto peggiore di Napoli (e il volto cattivo di quel giorno resta il suo, non quello dell’assassino de Santis). Era scritta quando i vertici delle forze dell’ordine di allora, nonostante il caos fuori l’Olimpico e l’incapacità di gestire l’ordine pubblico, rimasero al loro posto senza dimettersi nè essere dimessi. Era scritta quando le responsabilità ricaddero sui “delinquenti che comandano il tifo” come scrisse subito Saviano naturalmente. Era scritta quando dal primo minuto si disse che si era giocato perché lo avrebbe deciso la camorra e che si era sparato per lo stesso motivo. Era scritta quando si coprirono i complici, 4 o 6 a seconda delle ricostruizioni, di Daniele De Santis, a sua volta coperto da amicizie che contano nella destra istituzionale, i cui nomi non sono mai usciti, mai. Era scritta quando la curva romanista inneggiò a Danielino, senza che nessun moto di indignazione si muovesse sulle pagine dei quotidiani nazionali. Era scritta quando si parlò addirittura di legittima difesa da parte di De Santis, depositario di chissà quale scomoda verità e comodamente carcerato nell’ospedale di Viterbo ancora oggi.
Era scritta, insomma, quella sentenza, fin dal primo istante, quando nei salotti tv, nei titoli di tg e giornali, nelle analisi sociologiche da quattro soldi sciorinate ovunque, si tentò di dimostrare che il napoletano è geneticamente predisposto al crimine anche se fa semplicemente il tifo per la propria squadra e che, in puro stile lombrosiano, certe facce e certi tatuaggi sono sinonimo inequivocabile di malavita, camorra, crimine.
Insomma era già tutto previsto. Perché chiamare bravata quanto successe all’Olimpico quel 3 maggio 2014, lo dice anche la mamma di Ciro, Antonella Leardi, significa non solo uccidere Ciro due volte ma colpire tutti noi, di nuovo, e confermare quello che qui sottolineammo subito e che si può riassumere in una frase da striscione: “Lo Stato italiano ce l’ha insegnato: uccidere un napoletano non è reato”.
Lucilla Parlato
fonte identitainsorgenti.com