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Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (IV)

Posted by on Ago 20, 2019

Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia (IV)

Mentre il nord, dopo gli avvenimenti del 1898 mette le ali, il sud diventa sempre più sud e la Sicilia sempre più Sicilia. (1898-1900)

Il quadro generale degli avvenimenti nel Regno d’Italia

Dopo le dimissioni di Crispi, avvenute nel 1896, fu gioco forza per il Parlamento orientarsi verso una soluzione di destra: infatti, una parte della sinistra costituzionale, facente capo al senatore Giuseppe Saracco, si era troppo compromessa, appoggiando l’ultima, squalificata ed impopolare esperienza governativa di Crispi, mentre l’altra componente, guidata da Zanardelli e Giolitti, oltre ad essere malvista dal Re, era bloccata dal veto incrociato della destra democratica e della sinistra crispina. La presidenza del Consiglio toccò alla fine ad un altro siciliano, Antonio di Rudinì, che possiamo definire un “moderato di centro”, non particolarmente vicino alla corona, la cui dote politica più importante consisteva nell’essere un avversario di Crispi. Di Rudinì impostò la propria azione di governo su una linea di “raccoglimento e di economia”. Tentò di porre un freno all’avventura coloniale, di varare una politica prudente e di realizzare qualche forma di pacificazione sociale, concedendo l’amnistia ai condannati politici.

Il modello sociale cui si ispirava era quello di una “democrazia conservatrice” a base agraria, in cui fossero garantiti sia la supremazia della grande proprietà terriera nella politica locale, attraverso l’attuazione del cosiddetto “decentramento conservatore” (una riforma dell’ammi-nistrazione comunale che prevedeva l’elettività del sindaco anche nei comuni minori), sia il primato del potere esecutivo su quello legislativo. Furono altresì varate una serie di riforme, come l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni nell’industria e l’istituzione della Cassa Nazionale di Previdenza per l’Invalidità e la Vecchiaia.

Al progetto Di Rudinì se ne contrapponeva un altro, più autoritario, diretto a provocare una vera e propria riforma del sistema costituzionale, proposto da Sonnino in un articolo pubblicato nel 1897, dal titolo Torniamo allo Statuto: in esso si suggeriva di salvare l’integrità dello Stato, minacciato secondo l’autore dall’azione convergente dei socialisti (i “rossi”) e dei cattolici (i “neri”), sottraendo prerogative al Parlamento e tornando ad affidare il pieno potere al re, secondo il modello imperiale tedesco.

In realtà, la linea politica proposta dal Sonnino, una vera e propria svolta autoritaria, mirava a rassicurare la classe dominante dalla preoccupazione di non riuscire più a controllare le tensioni emergenti nella società italiana.

L’avanzata dell’estrema sinistra alle elezioni del marzo 1897, le violente agitazioni sociali della primavera del 1898, i moti contro il carovita, e in particolare contro l’aumento del prezzo del pane provocato dai cattivi raccolti del 1897, avevano infatti segnato una vera e propria frattura nella vicenda politica di fine secolo.

Le masse contadine vennero a trovarsi in una spaventosa condizione di miseria e ben presto si unirono alle proteste delle classe industriale urbana, acquistando un carattere sempre più politico. Iniziati nel centro-sud e in Sicilia con le rivolte di Troina e Modica, i moti dilagarono in tutto il paese tra marzo e maggio del 1898 quando, per effetto dell’aumento dei noli marittimi in conseguenza della guerra ispano-americana, il prezzo del pane salì alle stelle.

Ovunque forni, mulini, magazzini del grano furono presi d’assalto e furono organizzate manifestazioni di protesta sotto i palazzi dei Comuni, le esattorie, i tribunali e le abitazioni degli aristocratici e dei grandi proprietari. Si richiedeva a gran voce l’abolizione del dazio del grano e la gestione municipale dei forni. Il culmine si raggiunse a Milano, il 6 maggio 1898, quando la protesta assunse decisamente carattere politico. Fu allora che l’intero fronte conservatore, con la scusa di sedare i tumulti, decise di ricorrere alla repressione dura contro ogni forma di opposizione organizzata, vuoi dagli anarchici o dai socialisti, come dai radicali o dagli stessi cattolici. Di Rudinì, non esitò, il Re consenziente, a inviare a Milano il generale Bava Beccaris, che le represse nel sangue, usando i cannoni contro la folla, e che per questo fu insignito da Umberto I di una medaglia e nominato senatore.

Contemporaneamente Di Rudinì cercava di mantenere in vita il governo, in crisi per il rifiuto dell’assemblea dei deputati a rendere permanenti i provvedimenti repressevi assunti in via provvisoria. Di Rudinì propose al re lo scioglimento della camera e l’esecutività del nuovo bilancio per decreto regio. Se il re avesse accettato, si sarebbe trattato di un vero e proprio “colpo di stato” e si sarebbe compiuto il progetto di rifondazione autoritaria delle istituzioni, vagheggiato da Sonnino, e sostenuto da buona parte della classe dirigente.

Ma il re, dissuaso da Farini, non osò sfidare apertamente la legalità costituzionale, per cui Di Rudinì fu costretto alle dimissioni e il 29 giugno 1898, il generale Luigi Pelloux fu incaricato di costituire il nuovo governo. Il re intendeva tuttavia continuare di fatto la precedente politica. Infatti, il generale continuò l’azione repressiva, senza però suscitare particolare clamore. Quando però tentò di dare veste legislativa alle restrizioni delle libertà statutarie e di ripristinare, in pratica, i “provvedimenti politici” già approvati dal Di Rudinì, si scontrò con l’opposizione della sinistra parlamentare (socialisti e repubblicani), contraria all’ipotesi di un governo forte sostenuto dalla Destra, dal centro sonniniano e dalla sinistra crispina, mentre i liberali di Giolitti assunsero un atteggiamento di prudente attesa.

Lo scontro divenne aspro quando l’estrema sinistra passò all’ostruzionismo, prolungando all’infinito il dibattito parlamentare con interventi lunghissimi e paralizzando in tal modo l’attività legislativa. Pelloux, per tutta risposta fece promulgare, con provvedimento illegale e lesivo delle prerogative del Parlamento, il “decreto del 22 giugno” che limitava pesantemente la libertà di stampa e di manifestazione. La lotta per le libertà costituzionali divenne allora il fatto preminente della politica italiana, finché il 6 aprile 1900 il governo fu costretto a ritirare il decreto e pochi giorni dopo, sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. Il Pelloux era stato indebolito anche dagli errori commessi in politica estera, come l’inutile tentativo espansionistico perseguito dalla diplomazia italiana in Cina, e dalla nascita, all’interno del blocco dominante, di una componente più moderna e dinamica, in polemica con le forze più conservatrici del fronte, costituito, come al solito, dalla proprietà terriera meridionale e dall’industria pesante del nord.

Il risultato elettorale del giugno 1900, fu un grande successo per l’estrema sinistra. Tale rafforzamento convinse la componente più avanzata della borghesia della necessità di dare una svolta radicale alla politica italiana. Pelloux dovette dimettersi nel giugno 1900, si aprì una fase travagliata e il governo fu affidato, provvisoriamente a Giuseppe Saracco. Nel frattempo, il 29 luglio, venne ucciso, a Monza, il re Umberto I dall’anarchico Bresci che voleva vendicare i morti di Milano. Salì al trono Vittorio Emanuele III. A Genova venne sciolta la Camera del Lavoro, ma poi Saracco revocò lo scioglimento e si dimise. Il re a questo punto affidò il governo a Zanardelli che prese con sé Giolitti, rimasto in prudente attesa per tutto questo tempo.

Questo il quadro generale degli avvenimenti nel Regno d’Italia in quell’ ultimo scorcio del secolo XIX.

Il Regio Commissario Civile Straordinario per la Sicilia

Intanto in Sicilia fin dal 5 aprile 1896, per decreto, era stato inviato il Regio Commissario Civile Straordinario per la Sicilia nella persona di Giovanni Codronchi-Argeli. Il Commissario Civile (così chiamato per distinguerlo dal Commissario militare voluto da Crispi) venne investito dei “poteri politici e amministrativi che spettavano ai Ministeri dell’Interno, delle Finanze, dei Lavori Pubblici, dell’Istruzione, dell’Agricoltura, dell’Industria e Commercio”.Con il Commissario si cercò di superare la militarizzazione voluta da Crispi in risposta alle lotte operaie e contadine e, contemporaneamente di salvaguardare gli interessi delle classi sociali dominanti, sostituendo lo strumento militare con un più efficiente governo delle istituzioni locali. La speranza era di risanare e riordinare le finanze locali mantenendole però sotto il controllo del governo di Roma.

I poteri del Commissario erano teoricamente molto vasti sul piano dell’autorità e della rappresentatività dello Stato, ma limitati sul piano finanziario. Il che vuol dire che, in pratica, il potere era molto limitato. Le eventuali spese, infatti, dovevano essere autorizzate per decreto dal governo centrale. Inoltre, la nomina del commissario era a tempo determinato tempo: solo per un anno, troppo poco per realizzare qualunque riforma. Non si trattava quindi, come avevano sperato i socialisti, di un decentramento del potere statale.

Dopo aver affossato il progetto di Riforma Agraria pensato dal Crispi, Di Rudinì si preoccupò soprattutto di mantenere da una parte una politica repressiva nei confronti del movimento sindacale siciliano, vietando la ricostituzione dei Fasci siciliani, e dall’altra di risanare i bilanci delle amministrazioni locali, considerati la fonte principale del malcontento. Infatti, per soddisfare le loro “clientele”, i comuni continuavano da un lato ad elargire prebende ai notabili e dall’altro imponevano crescenti tributi alle classi meno abbienti.

Il compito di Codronchi non era facile. La repressione crispina aveva accentuato il malcontento non solo nei ceti lavoratori, ma anche nei ceti medi e piccolo borghesi delle città e delle campagne, rovinati dallo sviluppo del capitalismo settentrionale e dalla politica protezionistica del governo centrale.

Non poco, inoltre, influì sull’impoverimento l’errata progettazione ed esecuzione della rete ferroviaria. Palermo, ad esempio, non fu collegata con Messina se non dopo il 1895. Lo sviluppo di estesissime contrade della Sicilia centro-occidentale fu privato del concorso ferroviario. Malumore e insoddisfazione colpirono i settori più disparati: dai braccianti ai sarti, dai fornai ai minatori delle zolfatare.

Nella città di Palermo all’incertezza ed alle inquietudini di una massa artigiana che si impoveriva sempre più, si aggiunse il problema della disoccupazione. Da questa necessità nacque il progetto, caldeggiato da Ignazio Florio, di costruire un cantiere navale e non soltanto di ampliare il bacino di carenaggio. [1] Codronchi ne coglie immediatamente l’importanza per le conseguenze sociali e politiche di cui può essere foriera. Ma, come vedremo, questo grande progetto non riuscirà a risollevare le sorti della Sicilia, quasi l’isola soffrisse di un deficit politico e morale che, come un cancro, rodesse (e che ancora oggi corrode) la dirigenza politica municipale e provinciale. Codronchi aprì una serie di inchieste, segnalò i guasti ma non pose alcun rimedio, né poteva farlo. Allo scadere del mandato il Commissario lasciò la Sicilia e tutto tornò come prima.

L’inizio dell’emigrazione di massa

È in questo periodo che inizia l’emigrazione transoceanica,che coinvolse tutte le regioni meridionali, divenendo il fenomeno più imponente della condizione del Mezzogiorno. Nel giro di pochi anni più di un milione di siciliani abbandonò l’isola, più di due milioni di meridionali “continentali” erano andati a cercar fortuna in America. Una volta messa in crisi la sinistra come forza di governo, cessò lo sviluppo virtuoso che vi si era accompagnato o che, almeno, si era tentato di intraprendere (come, ad esempio, nel caso dei feudi dei conti di Modica dati in enfiteusi ai contadini). Sembrò che la Sicilia ed il Meridione avessero raggiunto il punto di saturazione demografica che le strutture economiche-sociali potessero consentire. Secondo Napoleone Colajanni, l’emigrazione siciliana “è il prodotto di una densità eccessiva (114 abitanti per km quadrato) della popolazione e delle sue cattive condizioni economiche e riesce perciò benefica anche astraendo dalla elevazione dei salari e dal beneficio grande delle rimesse… Naturalmente in tema di emigrazione, come del resto in tutti i fenomeni sociali, il bene si trasforma in male al di là di certi limiti.” (N. Colajanni, Prefazione a Giuseppe Brucculeri, La Sicilia di oggi. Appunti economici. Roma, Atheneum, 1923).

Il fenomeno della grande emigrazione contribuì all’affermarsi di una potentissima realtà: la formazione di una mafia intercontinentale. Il milione di emigranti siciliani concorse a modernizzare la mafia ed a renderla più efficiente come delinquenza organizzata. A discolpa dei siciliani e dei luoghi comuni che vogliono sia stata l’emigrazione a portare la mafia in America, dobbiamo ricordare che il crimine organizzato per diffondersi e affermarsi negli USA non aveva certo atteso l’arrivo dei mafiosi siciliani o dei camorristi napoletani. Molti storici americani collocano la nascita delle organizzazioni criminali attorno al 1830 e altri ancora prima, con il prosperare della tratta degli schiavi, a dispetto dell’abolizione formale avvenuta nel 1808, e che coinvolgeva addetti alle dogane del sud e marittimi del nord. Non fu pertanto l’Italia ad esportare la mafia, ma indubbiamente vi fu un fondersi e un proficuo (per loro) scambio di esperienze e di metodi.

Questione meridionale

A cavallo tra i due secoli la situazione del Meridione si era già tanto deteriorata da indurre il Parlamento a costituire una commissione parlamentare di inchiesta, che si limitò a constatare l’insufficienza della azione governativa. Nel 1903 Francesco Saverio Nitti sostenne che la necessità di evitare la deindustrializzazione di Napoli, presentando alla Camera un programma di interventi. Non se ne fece nulla. Nel 1908 i deputati Porzio e De Nicola cercarono di insistere perché fossero affrontate le questioni più urgenti di Napoli, ma appartenendo alla destra governativa, dovettero rientrare nei ranghi e conformarsi alla politica liberista, che ormai aveva il suo radicamento nel capitalismo del nord. In quel periodo, infatti, il nord fece un decisivo passo in avanti, sia nella modernizzazione che nell’industrializzazione, potendo contare anche sul completo reinvestimento delle rimesse in valuta degli emigranti. Già allora infatti, gli istituti di credito applicavano tassi di interesse agevolati solo al nord.

Così, i politici meridionali di destra assunsero una posizione subordinata al potere capitalistico anche quando ebbero incarichi – talvolta importanti – a livello governativo. Per questioni ideologiche, non sostennero l’azione dei socialisti e del blocco popolare, che anzi trovò nei monarchici e nei cattolici i più feroci avversari. La sinistra continuò da sola la battaglia per il sud: Antonio Labriola, e poi Arturo Labriola, per esempio, si impegnarono a fondo per affrontare i problemi, ottenendo un qualche risultato non solo nella industrializzazione, ma anche nel campo dell’istruzione popolare, delle abitazioni e della riforma giudiziaria. La responsabilità storica, se tali risultati non compensavano il divario nord-sud che si stava creando, ricade pertanto in buona parte sui politici meridionali della destra allora al governo, che non seppero né vollero fare gli interessi dei territori che li avevano espressi quali propri rappresentanti in Parlamento.

Il declino di Napoli

Agli albori del XX secolo, la popolazione di Napoli era in aumento, cominciava a fiorire una nuova industria culturale, quella del cinema, di cui la città divenne la principale protagonista italiana, almeno fino a quando non sarà stroncata dal “romanismo” di Mussolini. Ma circa due terzi della popolazione viveva nella miseria, con il costo della vita che si era triplicato negli ultimi 10 anni. Anche da Napoli l’emigrazione diventò notevole.

Il Meridione era diventato “una immane colonia di sfruttamento umano, dove nuovi negrieri razziavano ogni anno, non più africani ma un crescente contingente di disperati bianchi il cui numero salì progressivamente da 107 mila – media annua del periodo 1876-1880 a 310 mila – media annua del periodo 1896-1900; 554 mila – media annua del periodo 1901-1905; 651I mila – media annua del periodo I906-191O; 711 mila – media dell’anno 19I2; 872 mila – nell’anno I913, anno di vigilia della prima guerra mondiale, che troncò questa tratta; sino alla fine delle ostilità  per fornire carne da cannone in abbondanza alle offensive, negazione della strategia […]. Nessun documento meglio di queste cifre potrebbe illustrare i risultati economici e sociali della politica della borghesia italiana “liberale” di quegli anni”.[2]

Fara Misuraca e Alfonso Grasso

Note

[1] L’anno 1897 è anche l’anno in cui il “football” arriva a Palermo grazie ai marinai dei mercantili inglesi. Si ingaggiano vere e proprie sfide con i portuali nello spiazzale fangoso del porto di Palermo. Solo tre anni dopo tuttavia, il primo novembre 1900, nasce l’Anglo Panormitan Athletic and Football Club, fondato da Ignazio Majo Pagano. I primi colori sociali sono il rosso e il blu nel pieno rispetto delle linee cromatiche della bandiera britannica. La prima uscita ufficiale della squadra è datata 30 dicembre, giorno in cui l’Anglo Panormitan Athletic and Football Club, in via Emanuele Notabartolo al giardino Inglese, affronta una formazione inglese. Il match, diretto dal cavalier Ignazio Majo Pagano, finisce 5-0 in favore degli Inglesi.

[2] Ritter F., La via mala, Milano, 1973, p. 13 e seguenti.


Bibliografia aggiuntiva della parte quarta

Di Matteo, F., Storia della Sicilia, Edizioni Arbor, 2006

Lupo Salvatore, Quando la Mafia trovò l’America, Einaudi 2008

Mack Smith, D., Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, 1971

Renda Francesco Storia della Sicilia, Sellerio Editore 2003

Betocchi A., L’evoluzione nel socialismo, Napoli, 1891.

Ritter F., La via mala, Milano, 1973.

Pozzuoli fine 800

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