L’enorme business dell’immigrazione
ci occupiamo spesso di geopolitica, che è l’unica cosa che muove la politica globale e anche il potere economico ne è succube, ed oggi affronto di nuovo il problema dell’immigrazione che lo diventa per colpa dei poteri che lo gestiscono per arricchimenti personali di seguito un articolo pubblicato da sussidiario.net e un altro articolo pubblicato dal blog montefamoso sulla situazione libica.
fonte sussidiario.net
C’è anche un altro risvolto, oltre a quanto ho già scritto (qui), nella patetica gestione europea dell’immigrazione, un risvolto che parte da lontano quasi come un peccato originale: ammantare di umanitarismo ciò che per molti è soltanto un business e pagare poi il prezzo quando la situazione sfugge di mano. È il caso della Svezia. Sapete infatti chi è la principale beneficiaria delle politiche di accoglienza svedesi? Ica Bank, una banca che lo scorso novembre ha presentato alla Swedish Migration Agency una bella fattura da 8 milioni di dollari per aver fornito ai migranti carte pre-pagate. Per ogni prelievo di contanti, Ica Bank prende una commissione di 2 dollari e per ogni carta pre-pagata attivata qualcosa come 21 dollari. Ma c’è di più: l’istituto ha infatti vinto l’appalto per il servizio in regime di monopolio, senza bando di gara e il contratto con la Swedish Migration Agency è stato prolungato fino al marzo 2017. Accidenti, ma non è lo stesso Paese che ha annunciato 80mila espulsioni?
In Svezia l’accoglienza è un business gestito prevalentemente da operatori privati che fanno profitti faraonici: nel 2015, la 30 aziende più grandi che forniscono un tetto ai migranti hanno fatturato alla Swedish Migration Agency per circa 109 milioni di dollari: il tutto, finanziato dai soldi dei contribuenti svedesi. Nel novembre dello scorso anno, inoltre, la Swedish Migration Agency ha pagato 174 milioni di dollari per un periodo di 11 mesi di permanenza di migranti presso proprietari di immobili del settore privato. Buzzi in stile Ikea, magari senza Carminati ma il concetto è quello. Molte delle aziende che offrono accoglienza ai migranti hanno infatti ampi margini di profitto, spesso superiori al 50%: la Defakon Renting del 68%, la Nordic Humanitarian AB del 58% e la Fastigheterna på Kullen AB del 50%.
L’azienda più grande e conosciuta è la Jokarjo AB di proprietà di Bert Karlsson, più conosciuto nel suo Paese per essere stato direttore di un’etichetta discografica. Un vero esempio di coerenza, perché agli inizi degli anni Novanta fondò un partito, Nuova Democrazia, che chiedeva la riduzione dell’immigrazione in Svezia e con tale finalità sedette anche in Parlamento tra il 1991 e il 1994. Sapete quanto ha fatturato la sua azienda alla Swedish Migration Agency nel 2015? Qualcosa come 23,9 milioni di dollari. La ricetta del suo successo è semplice: «La mia idea è che bisogna fare le cose meglio e più a buon mercato di chiunque altro». Concetto quest’ultimo ottimamente espresso con le azioni, visto che nelle sue strutture i migranti devono comprarsi da soli la carta igienica, ad esempio, mentre nel contratto con la Swedish Migration Agency si parla chiaramente di fornitura gratuita di carta igienica, pannolini sanitari e per bambini. Insomma, la Swedish Migration Agency paga Karlsson con soldi pubblici per servizi che lui non eroga. E stiamo parlando dell’azienda più grande del settore, operatori minori cosa faranno?
C’è poi il business dei bambini migranti non accompagnati, i quali in base alla legge svedese devono vedersi assegnato un tutore legale che diviene responsabile del comportamento e della salute del bambino. Nel dicembre del 2015, la stampa svedese rendeva noto che da dati ufficiali vi erano tutori legali con in carico 29 migranti minorenni: quanto rendeva loro questo servigio? Più di 7mila dollari al mese, il tutto a fronte di un servizio di fatto non reso o reso male, perché appare difficile poter curarsi contemporaneamente di 29 bambini senza genitori e per di più stranieri. Il tutto, a fronte di un numero sempre crescente di piccoli profughi che spariscono nel nulla.
L’industria dell’immigrazione è un business enorme a spese dei contribuenti, a Roma come in Svezia. Lo dimostrano le cosiddette “foster homes”, le case affido per rifugiati non accompagnati: pochi giorni fa, infatti, è emerso che uno dei responsabili della Swedish Migration Agency è anche titolare di una compagnia, la Starkfamn Familjehem AB, la quale casualmente fornisce proprio “foster homes”. Quindi, non solo un business per i privati ma anche per funzionari pubblici furbi. Vedremo se l’accordo con la Turchia scongiurerà nuovi afflussi di massa, ma, in moltissimi casi, il danno è già stato compiuto con anni e anni di gestione allegra e clientelare di un fenomeno che non è meramente demografico ma anche di sicurezza sociale. Ne sanno qualcosa in Germania e anche nella Svezia del welfare universale voluto da Olof Palme negli anni Settanta.
Se per caso si arrivasse davvero a un conflitto in Libia, prepariamoci però a una nuova invasione che sarà tutta italiana, visto che i barconi che partiranno verso il Mediterraneo saranno di competenza nostra: come agiranno al riguardo i partner europei? Alzeranno muri e ci tratteranno come hanno trattato la Grecia finora o si faranno carico delle loro responsabilità? Anche perché io temo che, concentrati come sono sull’esistente e sull’emergenza, i Paesi europei stiano sottovalutando un possibile nuovo fronte di immigrazione di massa, ovvero quel Libano che accoglie nei campi profughi palestinesi quasi 2 milioni di siriani e che è sull’orlo di una crisi economica gravissima e di un possibile, nuovo conflitto interno. Se davvero si arrivasse a una nuova guerra civile, l’ondata migratoria sarebbe biblica. E purtroppo c’è chi avrebbe interesse a destabilizzare il Libano in chiave anti-iraniana, vista la forza di Hezbollah che è anche nel governo di Beirut, ora che Assad sembra inamovibile dal potere a Damasco: Arabia Saudita in testa, la quale l’altro giorno ha massacrato 119 civili (tra cui 22 bambini) con un raid aereo su un mercato in Yemen, ma continua a guidare il Comitato per i diritti umani dell’Onu.
In Libano, infatti, sembra riacutizzarsi la cosiddetta “crisi della spazzatura” scoppiata nell’agosto dello scorso anno, quando il governo fu incapace di rinnovare il contratto per la gestione dei rifiuti con la Sukken e in pochi giorni larghe parti del Paese si trasformarono in vere e proprie discariche a cielo aperto, scatenando le proteste di piazza della gente. Per giorni le strade di Beirut ribollirono di rabbia popolare, con la gente che accusava il governo di malagestione e corruzione e ponendo le basi a quella che molti dipinsero come una possibile nuova “rivoluzione dei cedri”. Dopo il picco estivo, le proteste calarono di intensità, ma la situazione è rimasta molto seria, vista l’emergenza sanitaria perenne che vede moltissimi libanesi colpiti da virus legati a liquami e immondizia. La scorsa settimana, poi, la decisione del governo di rinviare l’apertura di tre impianti per il sotterramento dei rifiuti è stata letta dalla popolazione come l’ennesimo esempio di incapacità e corruzione, tanto che il gruppo di pressione We Want Accountability ha messo in guardia rispetto a misure di sorpresa. Nuove proteste in arrivo?
Il problema è che in Libano la situazione è esplosiva non soltanto per la crisi dei rifiuti, visto che da un lato è in atto una vera crisi diplomatica con l’Arabia Saudita e gli alleati di Ryad e dall’altro c’è la presa di posizione internazionale contro Hezbollah, bollata come “entità terrorista” da molti governi e organismi internazionali riconosciuti. L’Arabia ha cominciato la sua destabilizzazione del Libano mesi fa, quando la decapitazione a Ryad del predicatore sciita Nimr al-Nimr scatenò una violenta reazione da parte di Hezbollah che i sauditi non gradirono affatto e utilizzarono come pretesto per dare il via a ritorsioni. Immediatamente Ryad annullò il pacchetto di aiuti da 3 miliardi verso l’esercito libanese e anche quello di 1 miliardo di dollari a supporto dell’economia: privata dei turisti del Golfo, l’economia libanese è rapidamente deteriorata arrivando alla recessione. Inoltre, sempre l’Arabia ha espulso 300mila lavoratori libanesi, i quali annualmente inviavano a casa rimesse per 4,7 miliardi di dollari, un altro colpo mortale all’economia. Se per caso altri Paesi del Golfo dovessero seguire l’esempio saudita, per il Libano sarebbe la fine e un’ondata di proteste potrebbe presto degenerare in guerra civile.
Inoltre, nel dicembre scorso il Congresso Usa ha varato una legge che vieta alle banche di operare con Hezbollah e con altre organizzazione legate alla resistenza libanese. Subito dopo quest’atto, il Consiglio per la Cooperazione del Golfo ha votato una risoluzione, approvata in seguito anche dai ministri dell’Interno e degli Esteri della Lega Araba, in base alla quale Hezbollah veniva qualificato come “movimento terroristico”. Di più, gli Usa hanno anche deciso un’azione contro la televisione libanese, Al-Manar, al fine di ridurne le capacità di trasmissione, definendo i contenuti dei programmi propagandistici per la resistenza sciita. Insomma, se una seconda guerra civile può ancora essere evitata, il rischio di una nuova invasione del Paese appare invece molto alto partendo da questi presupposti. E avendo fallito in Siria, dove proprio Hezbollah, iraniani e soprattutto aeronautica russa hanno messo la museruola alle mire di destabilizzazione sunnite nell’area, difficilmente Ryad perderà questa occasione, sfruttando oltretutto la solidarietà degli altri Paesi del Golfo, degli Usa e soprattutto di Israele, Paese per cui l’Iran resta sempre il nemico numero uno, soprattutto dopo l’accordo sul nucleare voluto da Stati Uniti e Ue.
Lo ripeto: se sarà crisi in Libano, non solo saranno i 2 milioni di siriani più i 350mila profughi palestinesi a muoversi per fuggire, ma anche la popolazione civile libanese, andando a formare un onda d’urto in un contesto già in fiamme sia in Siria che in Libia, senza contare l’Iraq e potenzialmente l’Egitto. Chissà se l’Europa dei mille vertici e delle mille emergenze starà valutando questa ipotesi prima che sia, ancora una volta, troppo tardi.
Mauro Bottarelli
fonte montefamoso.blogspot.it
Scusate se insisto, ma ritengo che, nonostante alcune, opportune precisazioni del presidente del consiglio, Matteo Renzi, non siano state del tutto fugate le preoccupazioni, le paure per un’eventuale nuova guerra (o intervento militare italiano che dirsi voglia) in Libia. Per la cronaca, è opportuno rilevare che questa eventuale guerra sarebbe la terza (dopo quelle del 1911 e del 2011) in cui l’Italia parteciperebbe, da sola o in coalizione, e che sarebbe combattuta, quasi interamente, a partire dalla Sicilia. Una guerra che né i libici né i siciliani (e gli italiani) vogliono, ma che sarebbero costretti a sobbarcarsi per via delle tanti basi militari italiane, della Nato e degli Usa dislocate sull’Isola. In questa crisi anomala e terribile, sta passando un messaggio falso che dipinge i libici come fanatici assassini. Ovviamente, vengono confusi, scambiati con le milizie dell’IS, in grandissima parte, formate da stranieri mercenari. In genere, i libici sono gente pacifica, tollerante, gioiosa perfino. Come ebbi modo di costatare nei miei viaggi in Libia, negli anni ’70 e ’80 per incarico del mio partito (Pci) o del Parlamento, quando il Paese era praticamente chiuso al mondo. Conobbi un pò da vicino il mite popolo libico, alcuni suoi dirigenti e intellettuali nei quali, nonostante il triste passato coloniale, riscontrai sentimenti di amicizia e propositi di collaborazione con l’Italia. Soprattutto con la Sicilia, dove abbiamo lavorato, per lungo tempo, unitariamente, per rafforzare la pace, per trasformare l’amicizia con l’intero mondo arabo in progetti di cooperazione economica e culturale, reciprocamente vantaggiosa.
Perciò, questa nuova, eventuale guerra ci disturba assai. Anche perché la Libia è vicina, pericolosamente vicina alla Sicilia. Lo dico- se mi è consentito- muovendo dal punto di vista del popolo siciliano ossia di 5 milioni e 300mila persone (quanti gli abitanti della Libia) separate dalla costa nordafricana solo dalla linea dell’orizzonte marino. Desidero anche ricordare ai guerrafondai che la prima guerra alla Libia (1911) fu presentata dal governo Giolitti come una “passeggiata” che, poi, durò più di vent’anni e fu conclusa con un genocidio ordinato dal regime fascista e attuato, con ferocia, dal generale Rodolfo Graziani il quale, per piegare la resistenza delle diverse tribù libiche, ricorse alle stragi, alle deportazioni, all’uso di gas letali. Una brutta pagina per la storia italiana, una macchia che i libici ancora ricordano. Da qui, anche, la loro contrarietà a un nuovo intervento militare italiano e/o della Nato. Per altro, c’è da notare un particolare curioso: delle prime due guerre furono protagonisti due ministri siciliani, entrambi originari di Paternò. Casualità, mera casualità, s’intende, ma così andarono le cose, come ho cercato di ricostruirle nel seguente articolo: (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/05/13/ministri-di-paterno-in-guerra-con.html) e nel libro “Nella Libia di Gheddafi” del quale accludo il capitolo XII, relativo alle relazioni (storiche e recenti) fra la Sicilia e la Libia. Il primo fu il senatore Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano, ministro degli Esteri di Giolitti (dal 1910 al 1914), il “principe Consalvo Uzeda di Francalanza” de “ I Vicerè” del grandioso romanzo di Federico De Roberto. Il San Giuliano legò il suo nome all’ occupazione coloniale italiana della Libia e delle isole del Dodecaneso, pattuita con Francia e Gran Bretagna. Memorabile rimase l’ultimatum (del 27/9/11) con il quale s’ingiungeva al governo ottomano di abbandonare il Paese entro 24 ore e senza condizioni, affinché «giunga a fine lo stato di disordine e di abbandono in cui la Tripolitania e la Cirenaica sono lasciate dalla Turchia…» Insomma, buoni propositi e cattive maniere: l’ Italia occupò la fascia costiera della tripolitania per far rispettare l’ ordine pubblico. Il San Giuliano, ritenendo (a torto) di avere “conquistato” l’immenso territorio desertico libico, annunciò alla Camera, e al mondo, il “nuovo ordine” mediterraneo, ridefinendo, in forma tutto sommato passabile, l’espressione “mare nostrum”, coniata ai tempi di Giulio Cesare: “Nessuno, d’ora in poi, avrà il diritto di chiamare il Mediterraneo “mare nostrum”. Esso è, e deve restare, libera via delle genti, delle quali, però, niuna deve averne il dominio; e tutte devono averne il godimento, e tra le quali uno dei primi posti è stato conquistato e sarà conservato dall’Italia.” (Atti Camera Deputati, 22/2/1913) A cento anni esatti, nel 2011, ecco avanzare sulla scena bellica e mediatica un altro prode paternese: l’ onorevole Ignazio La Russa (ex MSI) , il quale, da ministro della Guerra, pardon della Difesa, dell’ultimo governo Berlusconi, definì la Sicilia “portaerei del Mediterraneo”, mettendola a disposizione dei micidiali (e politicamente inconcludenti) attacchi della coalizione Nato che ha vinto la guerra ma- come vediamo- ha perduto il dopoguerra. Altri tempi, altri uomini. O forse no. A mio parere, fra la guerra del 1911 e quella del 2011 la differenza sta in un “neo”, nel senso che la prima fu una guerra coloniale, mentre la seconda è stata di stampo neo-coloniale. La terza… speriamo non accadrà mai! (21 marzo 2016)
Agostino Spataro