L’eruzione del Vesuvio del 1631 vista da un soldato spagnolo
un altro bellissimo articolo di Historiaregni,it
Nel 1631 Alonso de Guillén Contreras, soldato spagnolo di stanza a Nola, descrisse la tremenda eruzione del Vesuvio. L’eruzione del 1631 è forse la più devastante della storia del vulcano dall’evo antico. La testimonianza, presente in una relazione fatta al Vicerè di Napoli, don Fernando Enriquez d’Afán de Ribera y Enríquez, III duca di Alcalá de los Gazule, VIII conte di los Morales e V marchese di Tarifa, è di grande interesse storico e merita di essere riportata per interno non solo per il realismo degli elementi descrittivi e cronachistici ma anche per l’importanza di chi scrive. Alonso de Guillén Contreras, fu infatti soldato in Italia, nelle Fiandre e nelle Antille, corsaro nel Mar Mediterraneo e governatore, per un certo periodo, dell’isola di Pantelleria. Fu pure amico di Lope de Vega, che gli dedicò la sua commedia “El rey sin reino”, ed autore di un manoscritto di memorie, redatto a Palermo nel 1633, e scoperto solo nel Novecento.
Da Madrid mi diedero l’ordine di partire per Napoli, dov’era il Viceré il Conte mio signore, il quale, non appena arrivai, mi propose il comando di una compagnia di fanteria spagnola. Gli dissi ch’ero stato comandante di compagnia per quattro volte: egli insistette, ed io accettai; la mia compagnia ebbe poi l’incarico della sua guardia personale. Di lì a due mesi mi mandò di guarnigione nella città di Nola, e sul più bello che io me ne stavo lì, una mattina, martedì 16 dicembre, si vide gran pennacchio di fumo sulla montagna di Somma, che altri chiamavano Vesuvio ed a mano a mano che il giorno avanzava, il sole si oscurò e cominciò a tuonare ed a piovere bruna cenere ardente. Fu quella una notte così orrenda, che non c’è l’uguale neanche nel di’ del grande giudizio; e non solo cenere cadeva a pietre infuocate come le scorie che i fabbri cavano dalle fucine, grandi come una mano. Nella notte violente scosse che fecero crollare trentasette case e i cipressi e gli aranci si squarciavano come fossero partiti da un’ascia di acciaio. E tutti gridavano: “Misericordia!” tanto che faceva enorme pena udirli. Il mercoledì non si ebbe quasi giorno, e fu necessario tener sempre la luce accesa. Uscii dal quartiere con una squadra di soldati e portai con me sette moggi di farina e feci fare pane per la povera gente che non aveva più casa e beni e si era accampata all’aperto. I soldati della compagnia furono sul punto di ammutinarsi perché ormai il fuoco era a noi vicino. Passammo il giorno all’oscuro, una pena che non so dirvi era vedere la poca gente rimasta scarmigliate le donne, ed i bambini che correvano urlando di qua e di là, mentre da una parte bruciava una casa e dall’altra ne cadevano due e chi voleva scappare non sapeva dove andare, perché affondava nella cenere e nella terra infocata il giovedì mattina caduta. Al fuoco e alle ceneri che non cessavano di piovere si aggiunse lurida anche l’acqua, precipitando dalla montagna un torrente così impetuoso che il solo rumore grande infondeva terrore. Di tal furioso torrente un braccio investì due cascinali, e via li trascinò come formiche, con il bestiame, e pecore e buoi. Il venerdì volle il Signore che piovesse acqua dal cielo frammista con terra e cenere; e nera una melma si formò così compatta e dura impossibile da rompere anche con zappe e picconi. Il sabato cadde tutto il quartiere dove alloggiava la compagnia e i soldati preferivano stare all’acqua e alla cenere in piazza e tutt’al più si rifugiavano in chiesa che ritenevano sito più sicuro, nonostante traballasse per continue scosse. Alla domenica partimmo per Capua e facevamo proprio pena, così sfigurati che sembrava venissimo dall’inferno; scalzi e sporchi erano i soldati vestiti e corpo bruciacchiati. Otto giorni colà ospitati lì passammo il santo Natale, e il Vesuvio continuava a vomitar fuoco.
Alonso de Guillén Contreras
fonte historiaregni.it