Alta Terra di Lavoro

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LETTERA A VITTORIO EMANUELE II-In difesa di Francesco II

Posted by on Apr 5, 2023

LETTERA A VITTORIO EMANUELE II-In difesa di Francesco II

Sire!

Si è detto, e si ripete ancora in Europa, che il giovane ed infelice monarca delle Due Sicilie deve la sua rovina, l’esilio e le sventure tutte che lo colpirono, alla sua politica, alla sua indolenza, ed al non cale[1] in cui esso tenne i consigli benevoli dalla Maestà Vostra prodigatigli per salvarlo.

È una impudente menzogna, o Sire, anche questa. Che nello imprendere a favellarvi (a parlarvi) oggi di Napoli, giustizia vuole che io per la prima qui smascheri, e per la prima severamente percuota. Menzogna!

Il giovane re delle Due Sicilie cadde, o Sire, non ostante i consigli della Maestà Vostra, e fu bombardato spietatamente a Gaeta dai cannoni del vostro esercito e della vostra flotta, non ostante la leale e generosa arrendevolezza dell’animo suo verso quei consigli.

Conservate voi copia delle lettere che scrivete? Rileggiamole, o Sire. Io le ricordo, e le ricordano meco [con me] l’opinione pubblica e la storia, che non s’ingannano.

– Maestà, mio carissimo cugino!

– Noi tocchiamo ad un’epoca in cui l’Italia deve dividersi in due stati potenti, uno settentrionale e l’altro meridionale; i quali coll’adottare una politica conforme, avranno per compito di dare il loro concorso alla grande idea, che predomina oggi nella Penisola, l’idea unitaria!

– Uniamo, caro Cugino, i nostri sforzi per una nobile impresa; uniamo i nostri rispettivi stati con vincoli di amicizia reale, dai quali per certo nascerà la grandezza della nostra patria.

– Date ai sudditi vostri una costituzione liberale; chiamate intorno a voi quelli uomini, che sono in maggiore considerazione, perché maggiori dolori hanno sofferto per la causa della libertà. Dissipate i sospetti del vostro popolo, ed una alleanza eterna si cimenti fra i due più potenti stati della Penisola a far sì che la patria nostra possa essere.

– Aspetto con ansietà una risposta soddisfacente col mezzo del corriere medesimo confidenziale, che è incaricato di rimettervi la presente».

Questa lettera, o Sire, è vostra, e la scriveste voi al reale vostro cugino di Napoli il quindici aprile 1860. Essa è più di una lettera. È un vero programma politico, che voi gli tracciavate, per salvarlo, come oggi si dice, dalla imminente ruina, che minacciava il trono dei suoi maggiori.

Ha egli disprezzato i consigli che gli porgeste? Ha re Francesco II disconosciuta la lealtà dell’animo dell’augusto suo consigliere e paren­te?

Poteva, o Sire, senza punto disconoscere, ed offendere la lealtà dell’animo vostro, ma dubitando solamente, e con diritto, dell’onestà e della rettitudine del vostro governo, ringraziarvene semplicemente e graziosamente, siccome praticasi fra cavalieri e scettrati. Poteva, ed io, lo dico schiettamente, non avrei esitato un solo istante a consigliarglielo. Che già, o Sire, parlavasi pubblicamente in quei giorni delle ambiziose e disoneste mire del governo vostro. Già buccinavasi [si parlava] d’armi e d’armati, che segretamente apprestavansi a Genova ed in Torino per uno sbarco d’estrania gente in Sicilia. E fino il condottiero additavasene in un Generale del vostro esercito, e gli eccitatori, i sussidiatori plaudivansene [quelli che applaudivano, che approvavano erano] nei consiglieri del vostro trono. Io Francesco II sarei caduto, ma sarei caduto, o Sire, bombardando Napoli e mitragliando i ribelli. Facendo precisamente, quello, che avete fatto voi con Genova ribelle nel 49 e quello che farete domani, se taluno si attenta ritogliervi le corone, che oggi cingete.

Io mi glorio, o Sire, di essere anzitutto conservatore del mio buon diritto. E per conservarmelo, mitraglio.

Il re Francesco II, o Sire, si mostrò d’animo più mite. Ei credette invece che i cospiratori e i rivoluzionari perdonino a chi li perdona. Ei credette per un momento con voi che essi cospirassero davvero nei caffè e nelle locande di Torino per la libertà dei loro concittadini, per la indipendenza e per la gloria della loro terra natia. E rispose cortese alla vostra lettera.

La solenne risposta, o Sire, di re Francesco porta la data del 25 giugno 1860; ed è un pubblico decreto, che io trovo concepito nei seguenti termini:

– Desiderando noi dare agli amati nostri sudditi un attestato della nostra sovrana benevolenza, ci siamo determinati di concedere gli ordini costituzionali e rappresentativi nel regno, in armonia coi principii italiani e nazionali; in modo da guarentire [garantire] la sicurezza e la prosperità in avvenire, e da stringere sempre più legami, che ci uni­scono ai popoli che la Provvidenza ci ha chiamati a governare.

A quest’oggetto (proseguiva quel decreto) noi siamo venuti nelle seguenti determinazioni. E sapete quali erano queste determinazioni del re di Napoli? Le vostre.

Voi, o Sire, gli consigliavate di richiamare gli uomini, che più avevano sofferto per la causa della libertà. E il vostro reale cugino proclamava infatti:

– Articolo primo. Accordiamo una Generale amnistia per tutti i reati politici sino a questo giorno.

Voi gli consigliavate di dare una costituzione liberale al suo popolo.  E il re Francesco II dichiarava:

– Articolo secondo. Abbiamo incaricato il nuovo Ministero di compilare nel più breve termine possibile gli articoli dello statuto, sulla base delle istituzioni rappresentative italiane e nazionali.

Voi gli progettavate un’alleanza eterna, un’amicizia reale col regno vostro. E il figliuolo di Maria Cristina di Savoia candidamente sanzionava:

– Articolo terzo. Sarà stabilito con sua Maestà il Re di Sardegna un accordo per gli interessi comuni delle due Corone in Italia».

Voi infine gli raccomandavate, o Sire, di uniformarsi e di modellarsi in tutto secondo l’esempio del vostro stato. E il giovane prence [principe] delle Due Sicilie adottavane persino la bandiera e i colori, proclamando:

– Articolo quarto. La nostra bandiera sarà d’ora innanzi fregiata dei colori nazionali italiani in tre fasce verticali, conservando nel mezzo le armi della nostra dinastia.

Si poteva desiderare di più? Si, o Sire! Si poteva desiderare ancora un articolo, che io avrei soggiunto a quel decreto, concepito a un dipresso nei seguenti termini:

– Articolo ultimo. E se non ostante queste mie ampie e liberalissime concessioni, io mi accorgo che qualcuno da oggi mi tradisce, o che prosegue a cospirare a danno del mio trono per favorire le ambizioni di qualche straniero, sappiasi egli che io lo faccio costituzionalmente impiccare.

E avrebbe dovuto farli impiccare davvero quelli scellerati, che invece di applaudire alle generose concessioni del giovine loro re, invece di aiutarlo nella nobile impresa di assodare le libertà della patria, lo tradirono infamemente, e infamemente stesero la mano sopra una corona, che li avea tratti dal fango, che li avea sempre pasciuti, e quasi tutti splendidamente beneficati e arricchiti. Bricconi!

Troverà forse taluno questo mio parlare severo. Lo trovi pure. Io parlo a voi, cui sono ignote le mezze misure, quando si tratta di conservare. A voi, che allora quando un pugno di audaci poteva cimentare le sorti dell’ingrandito vostro regno, ci deste la famosa giornata d’Aspromonte,[2] e faceste Generale l’uomo che avea tirato sul Garibaldi.

Arrivato a questo punto, io mi immagino, o Sire, una vostra interrogazione naturalissima. Se il giovane prence delle Due Sicilie, mi domanderete, si arrese, come voi dite, e come non vi ha dubbio, volentierissimo a tutti i benevoli miei desideri e consigli, per quale arcano ha egli dunque perduto trono, patria, fortuna, e sin le ceneri dei cari?

Per quale arcano? Chiedereste voi alla rivoluzione, perché non ha dessa inghiottito la microscopica repubblica di S. Marino? Facile, o Sire, è la risposta. Napoli cadde per quel venticello funesto ai re ed alle nazioni, come a qualunque altro misero mortale, che è la calunnia. Cadde perché più bella, più ricca, più dotta e più cattolica del Piemonte vostro.

Quando i cannoni del vostro esercito e delle vostre navi finirono di mitragliare e di scoronare il vostro reale Cugino sulle roventi e insanguinate macerie della immortale Gaeta, voi, o Sire, le percorreste trionfante le popolose contrade di quel vasto regno. Ditemi: le ritrovaste voi quali pingevale [le descriveva] la malnata setta, che da molt’anni si affaticava a distruggere la secolare dinastia dei Borboni?

No, o Sire, esclamerò pur io colla sdegnata penna di quel robusto intelletto, che portò i suoi cari Napoletani al cospetto delle nazioni civili.  No: il reame delle Due Sicilie, dalla stampa rivoluzionaria cotanto [tantissime volte] nei passati anni calunniato, non era secondo a nessuna nazione in civiltà. Basta dare uno sguardo alle semplici Guide dei Forestieri per tutto comprendere il valore immenso dei monumenti, delle strade, delle città, degli acquedotti, dei manicomii, dei lazzaretti, dei ponti, degli arsenali, degli opifici, dei quartieri, dei ginnasii, dei porti, dei fari, del commercio, dell’agricoltura, delle industrie, delle arti, che abbellivano quelle contrade felici.

Poste le proporzioni di ampiezza, di numero e di condizioni, è un fatto, o Sire, che niun altro paese al mondo si avea maggior somma totale di beni, a più buon prezzo, più opportuni e meglio distribuiti, del regno delle Due Sicilie.

Interrogate, o Sire, i numerosi viaggiatori, che colà traevano inna­morati del suo eterno sole, e tutti ad una voce vi confermeranno, che il reame, di cui rivendico l’oltraggiato onore, avea negli ultimi sessanta anni appunto di questo secolo accresciuta di un terzo la sua popolazione. Eppure esso ebbe guerre, uragani, tremuoti, eruzioni vulcaniche e colera! Vi confermeranno, se onesti, che in proporzione vi erano meno accattoni a Napoli, che a Parigi e a Londra; che le statistiche dei delitti eran tenuissime; che il suo debito pubblico, fatto per la massima parte a causa di rivolte, scemava notevolmente ogni anno, ed era giunto a tanto, che con esempio unico ed invidiabile nelle nazioni, avea toccato il centoventi per cento!

Vi confermeranno, o Sire, se voi l’interrogate, che la pubblica ricchezza del regno siculo era salita a grado eminentissimo, e che pel suo buon governo le imposte erano in esso le più lieve d’Europa tutta. Che bastavano non pertanto a pagare ricche liste civili ai principi; a tenere in piedi un naviglio, che.era il primo d’Italia; a sostentare un esercito di centomila uomini di tutte le armi; e a spendere ogni anno cinque milioni di ducati in sole opere pubbliche e di universale utilità. Vi confermeranno in ultimo, che tutto ciò non ostante, per la operosa parsimonia governativa con oltre a 30 milioni di ducati contavano le casse pubbliche, quando gli avidi e feroci avvoltoi della rivoluzione vi piombavano.

Tutto, o Sire, questo bene di Dio vedea la setta, e l’agognava. Come arraffarlo? Mentendo, bestiemmando, ingannando, affilando sempre nell’oro la velenosa lama del tradimento e della calunnia. Il governo di Napoli è il governo della negazione di Dio. Con questo motto, o Sire, preso dai drudi [amanti] della rivoluzione italiana alla più svergognata meretrice d’Europa, tutto in Napoli e nelle Due Sicilie, il re, la magi­stratura, l’amministrazione, l’esercito, la nobiltà, il clero, gl’ingegni furono immorali, ed atei giudicati. Nove milioni d’anime vivevano nel pensiero negativo della Divinità; re, governatori, amministratori, giudici, capitani, maestri, vescovi, preti e monaci, tutti negatori di Dio, aggravavano la mano diabolica sulle corrette popolazioni.

Fu, o Sire, su questo metro che la stampa rivoluzionaria d’Italia e fuori iva [andava] compiangendo ogni giorno la ignoranza di un paese, il quale pago e tranquillo della sua sorte, era invece in cima alla civiltà italiana.

E lo era in cima di tutto. Perocché [perché] il regno delle Due Sicilie avea, o Sire, in proporzione dei suoi abitanti, più templi, più oratori, più poeti, più filosofi, più economisti, più reggie, più commercii, più arti, più industrie, più uomini insomma d’ingegno, in toga ed in armi; che non tutto il resto della Penisola, il Piemonte vostro compreso, che io non credo e non crederò italiano d’anima giammai.

La rivoluzione, o Sire, proseguiva sempre nella sua calunnia spietata. Concorrevano ad aiutarla, come sempre accade, pochi avvocati tristi, che nelle magistrature e nelle leggi antiche trovavano argini alle cupidità loro inoneste. Parecchi lettori di romanzi, giornalisti, poetastri, e sollecitatori di affari, che per non soddisfatte ambizioni o per fraudi impedite, aspiravano a novità e fortuna. Taluni funzionari pubblici, che per sognate ingiustizie, e per invidie turpi, anelavano a vendetta, o vagheggiavano promozioni. Negozianti falliti o senza capitali, medici senza ammalati, studenti senza libri, proprietari vanitosi o repressi nelle loro prepotenze. Qualche prete tenuto a freno dal Vescovo, e qualche frate ghiotto del talamo; proletari svogliati dalla fatica, camorristi, commessi viaggiatori, politicastri di bettole, avanzi di galera, servidorame[3] a spasso, e ribaldaglia[4] simile irrequieta, che sperando, o promettendo l’età dell’oro, cariche, pecunia [denaro] e onori, reclutavano negli ergastoli, assoldavano nelle taverne ed arruolavano nei lupanari, per conto ed a spese del quartier Generale della rivolta, che si attendava in Torino.

L’oro, la corruzione, il tradimento, la frode, si allearono colla calunnia, e vinsero. Vinsero, e la dinastia Borbonica disparve. Disparvero i Borboni, e fra gli applausi e i brindisi anche le Due Sicilie si piemon­tizzarono. Sono oggi felici? Sono contente? No, o Sire. Esse piangono oggi rapine e stupri; piangono devastazioni e saccheggi; piangono incendii, fucilazioni e patiboli. Balordi! Che vi pentite a torto, e non lagrimate a ragione.

Quando il Piemonte agognava la Lombardia, esso almeno dicevale: Insorgi, e non ti calpesterà più lo straniero. Quando facea la caccia ai Ducati, esso almeno inebriavali, lamentandone la piccolezza e magni­ficandone l’ingrandimento. Quando voleva impadronirsi dei dominii Pontificii, esso almeno ubbriacava le plebi, promettendo i beni del clero e le ricchezze dei monasteri. E quando finalmente incitava alla rivolta i toscani, iva esso almeno ipocritamente adulandoli, esclamando: Oh bella! Oh gentil parte dell’Italia mia! Io mi dirozzerò [affinerò] alla tua civiltà vetusta, io m’italianizzerò alla tua dolce favella [lingua], m’inspirerò al genio della tua arte, mi riscalderò alle ceneri del tuo Michelangiolo e del tuo Macchiavello.

Ma quando il Piemonte s’innamorò di te, o sventurata Partenope, dimmi che cosa ti ha promesso egli mai, che tu non avevi? Forse l’insulto, con che oggi ti appella un popolo di briganti, di canaglia, d’ignoranti, di superstiziosi, di traditori e vili?[5]


[1] È il verbo calere; significa: non curarsene, non darsi pensiero di qualcosa. In questo caso vuol dire: Si è detto che Francesco II non tenne in conto dei consigli di Vittorio Emanuele.

[2] Il 29 agosto 1862, quattro giorni dopo lo sbarco, Garibaldi con circa duemila volontari fu attaccato dal Colonnello Pallavicini con milleottocento bersaglieri. Dopo due ore di combattimento, l’eroe rimase ferito; il figlio Menotti, lo stato maggiore e i volontari in parte si sbandarono, in parte si arresero. Rimasero sul campo dodici morti e duecento feriti fra volontari e regi. La Gazzetta ufficiale del 6 ottobre 1862 scrisse che la spedizione costò al regno 40 milioni di debiti contratti da Garibaldi, che furono rimborsati dal Ministero Ricasoli solo dopo “l’acquisto” di Venezia.

[3] Massa di persone servili e adulatrici.

[4] Moltitudine di persone scellerate; furfanti, mascalzoni, malfattori;

[5] Documento estratto da Vincenzo Giannone, La Garibalditei, Aleliographic, Scafati 2020, pp. 929-935.

Stefano San Pol

inviato da Vincenzo Giannone

1 Comment

  1. Mi rimane ovviamente una curiosità… tale lettera ovviamente e’ postuma, ne’ la stessa ne’ analoga fu mai inviata!?… o il Savoiardo sul trono fu a sua volta succube e si accontento’ di stare a guardare… parente infingardo, ahimè!… e il destino fece poi giustizia… e purtroppo lascio’ a noi postumi un’eredità amara che ci fa tutti scontenti e dolenti… Alziamoci in piedi e restituiamo dignità a tutti noi insoddisfatti di quanto ci siamo trovati a subire per disegni di altri, massoneria in testa… Nel segno della verità e della giustizia, organizziamoci dando luogo ad una ‘Confederazione’ … e saremo solo allora orgogliosi di essere insieme a costruire il futuro di questa nostra splendida penisola chiamata Italia… caterina

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