Lettera del Cav. Griffi uno dei 12 Eletti del Minicipio di Napoli nel 1860…..al Barone Commendatore Ferdinando Malvica.»
Roma 27 Maggio 1863
«Egregio Signor Barone
«Ella, non ha guari, diè alle stampe un libretto
intorno ad una Federazione italiana. Sa ciascuno com’ella abbia animo retto e
leale; epperò dove altri sentisse diversamente da lei, non ne andrebbe punto
offuscata la sua fama. Accoglierà per Unito benignamente una mia protesta
contro certe linee del suo scritto, dettata piuttosto dal dovere, che da
pensiero di contradirla.
A pagina 80,ella dice:
«In Napoli eran cento mila soldati ed avvenne Io stesso miserando spettacolo,
ed assai più turpe ancora. L’ugual mena agiva da per tutto, ed il……….
Ma usciamo una volta da questo lezzo d’iniquità o d’ipocrisia chè non ci regge
l’animo a durarvi più lungamente.
Esso non è stato messo all’aperto che per una piccola parte; giacché, come ci fa sapere l’Opinione di Torino (n.143,24 Maggio), la prudenza vieta di scoprire le carte, mentre il giuoco non è terminato.
Ma per coperte che restino coteste
carte, esse tuttavia per quel poco che n’è
«Garibaldi entrava nella città capitale del Napoletano reame, ove sono mezzo
milione d’uomini, invitato dal Municipio, che gli va incontro, gli apre
iniquamente le porte, ed ei col frustino in pugno percorre le pubbliche Vie,.
plaudendolo, e salutandolo il popolo: ecc.»
«Qui ella, certo senza volerlo, dà in più storici errori, cui la malignità dei nostri nemici mise innanzi per fingere al mondo il Garibaldi desiderato, e invitato da’ nostri popoli; errori ripetuti da chi v’aveva interesse, e dal volgo ignaro, ma che ora ridetti da lei potrebbero per avventura accreditarsi, e mandarsi ad insozzarne la storia delle nostre sventure.
«Io che nel 1860, aveva l’onore
d’essere uno dei dodici Eletti, e però parte del Municipio di Napoli, sono nel
debito dichiararle, che non mai quel Municipio si disonorò in nulla, ne mai
invitò il Garibaldi.
Il Reame delle due Sicilie non ebbe già cento mila soldati, ma poco meno; ed
essi dai loro Generali traditi e sbandati, in cinque mesi di vane pugne e
disagi, andarono in gran parte disciolti.
Al Re restavano appena quaranta mila uomini, quando ingannatori consigli spinsero il buon Monarca ad uscire dalla sua città per non insanguinarla.
Allora, ritrattosi al Volturno, ei lasciava in Napoli non cento mila soldati, come ella dice, ma sei mila nelle Castella; cioè il nono ed il sesto Reggimento di linea, quello di marina, e due Battaglioni, uno di Gendarmi e l’altro tredicesimo cacciatori; con ordine di non far fuoco, se non aggrediti, e stare nei forti a difesa.
«In Napoli era concorso quanto aveva di settario il mondo, tutti annali; v’era la stampa rivoluzionaria; la Guardia Nazionale scelta rivoluzionari» da traditori Ministri; questi stessi Ministri legati al Garibaldi; insomma la rivoluzione irta d’armi, ed il popolo inerme, atterrito per la non più vista catastrofe, cui non s’era lasciata altra libertà, che quella di plaudire allo straniero col titolo di liberatore.
Dovrà la storia narrare le arti di quei Ministri traditori, che costrinsero Napoli a vedere quel turpe spettacolo; ma la Città non avea difesa di sorta; non di cento mila, com’ella dice, ma neppure di un soldato solo.
«lo noterò il fatto del Municipio:
«Questo per legge del 12 Dicembre 1861 era rappresentato dall’intiero corpo di
Città, cioè dodici Eletti ed il Sindaco Presidente; sicché il solo sindaco non
era il Municipio.
Ogni Eletto aveva due Aggiunti per gli affari amministrativi, i quali non aveano toga, né rappresentanza. Ora de’ 24 Aggiunti, soli quattro (giovanetti) osarono dimandare al Sindaco che il Municipio si presentasse al Garibaldi; ma fur cacciati via.
«Il Municipio il dì stesso che il Re si partiva, deliberò unanime di non aderir punto alla rivoluzione. Venuta la sera, il sindaco solo fu segno a tutte insidie.
Chiamato dal ministero in casa del presidente, cominciavano discussioni sul da farsi, quando arrivò il Villamarina Ministro sardo, che pretendeva ad ogni costo si aderisse a Vittorio Emanuele prima ch’entrasse il Garibaldi, ed assicurava avere egli tutti i poteri per pigliare le redini del Governo, e che farebbe scendere i sardi dalle navi per mantenere l’ordine.
Il ministero per iscansare la
manifesta infamia, rispose si rivolgesse al sindaco presente.
Costui si negò recisamente; ma alle minacce del Villamarina, che sorgerebbero
barricate per le vie, e seguirebbero zuffe tra piemontisti e garibaldini, si
risolse andare incontanente al generale Desauget, comandante della guardia
nazionale per provvedere alla quiete.
Credeva così ubbidire agli ordini del Re, il quale nella sua ultima proclamazione aveva raccomandato ad esso ed a quel generale di risparmiare alla patria gli orrori della guerra civile, onde avea lor concesse estese ed ampie facoltà.
Ma il Desauget, già venduto al nemico, lo atterrì, mostrandogli un certo telegramma allora giunto, che affermava il Nizzardo trovarsi con grandi forze a Salerno pronto ad entrare in Napoli ai primi albori; però unica via ad evitare sangue nella città fosse, l’andarlo a pregare di entrar solo senza seguito di armati.
E senza dar tempo a riflessioni contrarie, valendosi dell’atterrita fantasia di lui, che pingevagli la città vicina a veder sangue cittadino, preselo e menollo a Salerno, dove invece si trovò il Nizzardo senza esercito, solo in una casa.
Il sindaco accortosi dell’inganno
volea dare indietro, ma fu, con bei modi, trattenuto, ed ebbe ad accompagnarsi
col Garibaldi nel ritorno a Napoli, sebbene posato alla stazione della strada
ferrata subito s’involò.
Nessun uomo di cuore credo possa lodare quella gita a Salerno del sindaco.
Di che nascono spontaneamente due conseguenze: l’una, che una mole fabbricata su tanto fango non può essere né prosperosa né duratura; se vuolsi aver fede nella forza de’ principii morali e nella giustizia di Dio.
L’altra conseguenza è, che la
riputazione del Conte di Cavour ha ricevuto, come suol dirsi, il colpo di
grazia presso chiunque ritiene ancora un fiorellino di onestà e di decoro.
E qui è appunto dove noi sentiamo una specie di raccapriccio e di orrore;
giacché i Giornali libertini, lungi dal vergognarsi di sì fatte rivelazioni, ne
menano altissimo trionfo, come di cosa da grandemente onorarsene la memoria del
Conte di Cavour.
L’ Opinione di Torino giunge a dire
che esse varranno a crescerne sempre più il culto presso gl’Italiani .
Ciò dimostra che il senso morale in costoro è del tutto spento, esso il ripeto
non era il municipio, né ne avea ricevuto mandato di sorta.
Il municipio anzi con anche il sindaco lasciò l’uffizio, né fe’ pur l’atto di chiedere la dimissione all’usurpatore, il quale per primo suo atto ebbe a nominarne altro quel giorno stesso.
«Ella, signor barone, prenderà, ne
son certo, in buon grado questa mia, e spero anzi rettificherà l’errore, perché
niuno se ne valga a snaturare la storica verità, che nuda e bella svelerà ai
posteri i turpi garbugli della rivoluzione.
«Mi creda per sempre……..
Dilio Amico e Servo
C. Filippo Patroni Griffi
All’Egregio Signore
Il Sig. Barone Commendatore
Ferdinando Malvica.»