L’Europa e la “Questione Napoletana” in un libro di Eugenio Di Rienzo
Quando, il 17 marzo del 1861, nacque ufficialmente il Regno d’Italia, l’ormai ex re delle Due Sicilie, Francesco II di Borbone, si trovava già da qualche settimana a Roma, ospite di papa Pio IX. Pur rattristato dalla piega degli eventi, non aveva rinunciato a battersi per cercare di rientrare in possesso di quel trono che gli era stato sottratto da un’audace operazione di pirateria. Per questo si era portato dietro un pugno di fedelissimi che, di fatto, costituirono il suo governo in esilio. Governo che subito si trovò diviso su come affrontare la “riconquista”: attraverso una incisiva azione diplomatica a livello europeo oppure servendovi della guerriglia brigantesca nelle provincie dell’ex Regno? Pietro Calà Ulloa (1801-1879), l’elemento di spicco di quel consesso, propendeva decisamente per la prima soluzione. Altri, invece, erano per intensificare la lotta armata contro il piemontese invasore. E le due linee di pensiero e di azione, almeno fino al 1864-65, marciarono parallele, anche se non produssero risultati di rilievo. Calà Ulloa, dunque, disapprovava il brigantaggio e con esso i tentativi di rinfocolare la lotta nell’ex Regno da parte della centrale legittimista capitolina? Non proprio. Era però convinto che le azioni brigantesche, nella loro limitatezza e nella totale mancanza di coordinamento, da sole, non avrebbero conseguito alcun risultato. Azioni inutili, quindi, e solo velleitarie? No, esse anzi erano utili a dimostrare all’opinione pubblica del vecchio continente che quella sabauda era stata una mera occupazione militare e che le genti dell’ex regno borbonico non volevano sottostare ad uno spietato regime poliziesco. Ma mantenere nella parte meridionale dello Stivale acceso il fuoco della rivolta popolare non era di per sé sufficiente. Serviva, nel contempo, una azione diplomatica forte ed autorevole che convincesse le potenze europee a condannare quel misfatto, ad intervenire (anche se non si era più ai tempi del Congresso di Vienna) ed a restituire il maltolto al suo legittimo propietario ossia al re Borbone. Secondo Calà Ulloa, insomma, per cullare qualche speranza di successo, la “questione napoletana” doveva abbandonare il suo asfittico contesto nazionale, o italiano che dir si voglia, per essere posto al centro del dibattito europeo. Una visione a più ampio respiro, frutto di una mente brillante, che trovava più o meno consenziente lo stesso Francesco II il quale, pur continuando ad incoraggiare (e sovvenzionare) i briganti, in cuor suo (al contrario della regina consorte) era fermamente convinto che soltanto un congresso internazionale, all’uopo convocato, potesse restituirgli quel regno che gli era stato così brutalmente sottratto. Alla fine, come si sa, non se ne fece niente. E se pian piano i rigurgiti briganteschi andarono a spegnersi, l’azione diplomatica di Calà Ulloa non raggiunse alcun obiettivo concreto, al di là di generiche promesse di intervento che poi finirono per rimanere solamente tali. Anche se la manovra di spostare la “questione napoletana” su un più ampo scenario, è un risultato che deve essere ascritto alla caparbia intelligenza del ministro di Francesco II. E a dimostrazione di ciò basti qui ricordare il serrato dibattito che, a più riprese, si sviluppò nel Parlamento inglese su ciò che stava accadendo nell’ex Regno di Napoli, dopo l’occupazione sabauda. E non tutte le voci che si levarono furono favorevoli al nuovo stato di cose che si era andato a determinare. Per approfondire questo argomento, assai poco dibattutto dalla storigrafia sia recente che passata, giunge quanto mai opportuno un bel libro di Eugenio Di Rienzo, ordinario di Storia Moderna presso la facoltà di Scienze Politiche dell’università “La Sapienza” di Roma, nonché direttore della “Nuova Rivista Storica”, dal titolo “L’Europa e la ‘Questione Napoletana’ 1861-1870” (pp. 158, euro 12,00) edito nel novembre del 2016 da D’Amico Editore, che costituisce il primo volume della collana “Svelamento”. Testo impreziosito dalla pubblicazione, in appendice, del discorso alla Camera dei Comuni di Lord Lennox (1821-1886), uno dei più importanti uomini politici inglesi (8 maggio 1863). “La questione napoletana divenne, tra il 1861 e il 1870 – scrive Di Rienzo – argomento che travalicò i confini d’Italia, imponendosi all’attenzione dei governi, dei parlamenti e dell’opinione pubblica dei maggiori stati europei”. Ma con lo scorrere del tempo la “questione napoletana” passò di moda, per rientrare nel suo ambito decisamente più angusto, quello italiano. Ed è allora che si trasformò in “questione meridionale” la cui attualità oggi è sotto gli occhi di tutti. Resta però da chiedersi, come fa Di Rienzo, perché i politici “terroni”, una volta entrati in pianta stabile nella stanza dei bottoni, lì dove si decidono le sorti del Paese, “si siano generosamente ‘nazionalizzati’, diventando solleciti servitori dello Stato, rivelandosi incapaci, però, di colmare il distacco economico tra Nord e Sud la cui forbice… cominciò a manifestarsi e poi ad allargarsi solo dopo il 1861”. Ma si è trattato soltanto di incapacità? O tutto è andato secondo un copione prestabilito? Centocinquant’anni, ed anche di più, sono tanti, anzi decisamente troppi, per ridurre un divario sia pure consistente. E allora viene il sospetto che quella distanza, peraltro prodotta ed acuita da chi ha avviato la giostra, in effetti non sia stata voluta colmare. A pensar male si fa peccato ma…
Fernando Riccardi