L’INGRESSO A NAPOLI DI CARLO DI BORBONE
“Precedeva la cavalleria Spagnola, indi una quantità grande di Baroni alla rinfusa, in mezzo de’ quali cavalcava il Reale Infante assistito da’ Signori della sua Corte, e dalla Generalità, e Capi militari […]. Seguiva la guardia del corpo, e finalmente l’equipaggio Reale”. Vestiva l’Infante una giamberga alla Francese di ricco drappo di oro ed argento guarnita di grossi bottoni di brillanti, e su di essa portava due ordini del Toson d’oro e di S. Spirito. In testa portava un picciol cappello con piuma, nel di cui lato eravi un prezioso gioiello similmente di brillanti collocato nel mezzo di alcune fettucce a foggia di coccarda a color rosso e bianco, colla quale insegna andavano contraddistinti non solamente i Signori della sua Corte, ma similmente tutto l’esercito”.
Così descriveva un anonimo cronista, il 10 maggio 1734, l’ingresso a Napoli del giovane Infante spagnolo don Carlos di Borbone, che concludeva la conquista delle province napoletane nell’ambito della guerra di successione polacca (1733-1738).
La nuova stagione di autonomia e indipendenza del Regno delle Due Sicilie fu frutto, oltre che dell’abilità del giovane sovrano e di un esercito di circa quarantamila uomini, anche della strategia diplomatica che Elisabetta Farnese, moglie in seconde nozze del re di Spagna Filippo V, attuò nel quadro delle tre guerre europee di successione, ottenendo per il primogenito Carlo, prima il diritto di eredità dinastica Farnese e Medici, poi, approfittando della rivalità tra Francia e Austria, il riconoscimento per il Regno di Napoli e di Sicilia.
Dopo aver atteso la liquefazione del sangue di San Gennaro (8 maggio 1734), nella mattinata di lunedì 10 maggio il sovrano entrò trionfalmente a Napoli da porta Capuana, punto nevralgico di accesso da est al centro della città, da dove transitava la regia strada delle Puglie. Alle prime ore del pomeriggio, il corteo reale proseguì per la Vicaria, all’epoca “Gran Corte” criminale della capitale, presso cui il giudice addetto alla custodia consegnò le chiavi al sovrano, che con un gesto di magnanimità concesse l’indulto ai carcerati, restituendogli la libertà.
Il gran Corteo, imboccando lo stretto decumano dei Tribunali, si diresse alla Cattedrale – oggi conosciuta come il Duomo di Napoli – ove il sovrano ricevette la benedizione del Cardinale Pignatelli; seguì la messa e donò in offerta votiva una preziosa croce per il Tesoro di San Gennaro a testimonianza della profonda fede cattolica. La tappa successiva del corteo regio, attraverso il decumano inferiore, le piazze San Domenico e del Gesù e via Toledo, furono le carceri di San Giacomo – oggi sede del Palazzo del Comune di Napoli. Anche in questo caso il giovane Re ricevette le chiavi dall’uditore generale Giuseppe Capezzuto e concesse la libertà ai detenuti.
Ad ammirare il passaggio del Reale Infante con il suo corteo, lungo via Toledo, accorse un’immensa folla in festa che si riversava in strada per assistere ed accompagnare il Re verso l’ultima tappa del suo itinerario, ovvero il Palazzo Reale di Napoli.
I festeggiamenti per l’incoronazione proseguirono fino al 23 maggio, mentre Carlo di Borbone s’insediava al potere avviando una stagione di rinascita e rinnovamento. Intanto, la campagna militare, proseguì fino all’anno successivo, quando il giovane sovrano alla testa dell’esercito borbonico, occupò Palermo ed il 3 luglio 1735 fu incoronato Rex utriusque Siciliae nella Cattedrale di Palermo, sottraendo agli austriaci i due Regni di Napoli e di Sicilia, così come descrive l’incoronazione il cronista Giovanni Senatore:
«maestosa, ricchissima, e ben’ideata corona [.. ] di forma piramidale, composta di un cerchio coverto, su del quale estollevasi cinque curve aste, che sosteneano un globo all’intutto sferico, rappresentante il Mondo»
Il nuovo sovrano, per sottolineare una netta discontinuità tra il suo regno e quelli dei predecessori che regnarono da un trono straniero, preferì non apporre nessun numerale dopo il suo nome, invece, in Sicilia fu detto Carlo III, come come testimonia sulla questione lo storico contemporaneo Pietro Giannone:
Egli è vero, che i Napolitani non si avanzarono a determinare il numero non sapendo se dovessero dirlo sesto, o settimo, o pure ottavo. Se non si voleva tener conto dell’Imperadore, era d’uopo chiamarlo Carlo VI; ma se, come francese della famiglia Borbone, si volesse fra la serie de’ re di Napoli porre Carlo VIII, re di Francia, bisognava dirlo Carlo VII. Ma in ciò fortemente ripugnavano gli Spagnoli, che non volevan soffrire che di quel re francese si avesse conto; sicché, saviamente, non vi poser numero alcuno. […] Ma i Siciliani, poiché essi non aveano l’imbroglio del re Carlo VIII, francamente omesso l’Imperadore, nelle loro monete, che pur mi furon mostrate a Venezia, determinarono il numero e dissero Carolus III, Siciliae rex; poich’essi, che non erano stati sotto i re angioini, non riconoscevano altri Carli re di Sicilia se non Carlo V imperadore e Carlo II re di Spagna.
Bibliografia
Antonelli A. (a cura di), Cerimoniale dei Borbone di Napoli 1734-1801, volume 4, Artem, Napoli, 2017.
Caridi G., Carlo III. Un grande re riformatore a Napoli e in Spagna, Salerno Editrice, Roma, 2014.
Schipa M., Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, volume I, Edizioni del Giglio, Napoli, 1988.
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