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Lo studioso itrano Alfredo Saccoccio difende Fra’ Diavolo

Posted by on Lug 10, 2020

Lo studioso itrano Alfredo Saccoccio difende Fra’ Diavolo

   Nell’incontro presso la sede dell’Associazione Culturale Teatrale Mimesis di Itri lo storico Alfredo Saccoccio ha sostenuto, con la massima obiettività, che il temuto e famoso capomassa è stato un eroe della patria    e non un brigante, a cui, troppo spesso, furono attribuiti orrori ed iniquità commessi da altri capimassa.

Il filosofo inglese Francis Bacon, barone di Verulamio , in una sua amara massima, scrisse : “Calomniez, calomniez; il en restera toujours quelque  chose”, ovvero “Calunniate, calunniate; ne resterà sempre qualche cosa”. Il Pezza è pienamente rivalutato, tra gli altri, da Victor-Marie Hugo, nella cui casa-museo, sotto il ritratto del padre, generale napoleonico, si definisce il capomassa “nazionalista” e “legittimista”, gettando uno squarcio di verità su questo personaggio mitico e leggendario, denso di suggestione e pregno di arcano sapore. “Fra’ Diavolo personificava – lo sostiene il grande scrittore e poeta transalpino – quel tipo che si ritrova in tutti i Paesi in preda allo straniero, il bandito legittimo in lotta con la conquista, Egli era in Italia quello che sono stati, poi, l’Empecinado in Spagna, Canaris in Grecia e Abd-el.Kader in Africa”. Il capo della scuola romantica, colui che ha esaltato sopra di ogni altra cosa l’anima umana, con quell’atto di imparzialità storica, volle riparare i gravi torti portati dalla leggenda interessata e partigiana alla fama di Michele Pezza, che fu un singolare guerrigliero in lotta, come direbbe Cicerone, “pro aris et focis”, per lo Stato e per i propri cari e contro il mito posticcio della rivoluzione francese, ideale di cartapesta. I francesi occupavano illegalmente le terre delle Due Sicilie, forti del potere militare che detenevano, ma privi del consenso popolare e senza quell’autorità morale che abitualmente accompagna il potere legittimo.

L’esercito francese trasformò il Regno delle Due Sicilie in una colonia rendendosi protagonista di assassinii, di rapine e di distruzioni di intere cittadine. E pensare che i transalpini si proclamavano nostri “fratelli”, vittime della brutalità e della protervia di un vincitore ideologizzato, per il quale non si aveva diritto ad un trattamento umano, perché chi si opponeva al progresso e ai luminosi giorni del radioso avvenire è  oscurantista, comunque sempre colpevole, per ignavia o malvagità. Non ci si poteva opporre a chi si era assunto il nobile incarico di redimere e di civilizzare un regno straccione ed inetto, ignorante e pidocchioso, soggiogato da una Corona dispotica e criminale. Si era instaurata una dittatura liberticida, riduttrice, si aveva trasformato il messaggio di fraternità fra i popoli in un programma di oppressivo imperialismo rinnegando tutto ciò per cui  la Rivoluzione, una chimera ingannevole. si era ritenuta allegramente in diritto di sterminare tante genti. Una deprecabile aberrazione, un tremendo cataclisma che sconvolse la storia dell’umanità, il contrario  di quello che era stato promesso.

   Lo storico Edouard Gachot  scrisse che Michele Pezza era una figura “grande e drammatica”. che non avrebbe meritato la “caricatura popolare, dietro la quale il vero profilo del modello sparve del tutto”, concludendo con il sostenere che “Fra Diavolo fu nel suo genere un eroe e un grande patriota”, non meritevole del supplizio che gli inflisse un tribunale straordinario. Il de Kock definisce il Pezza “il più formidabile Capo degli insorti napoletani del novantanove”. Il Rabbe gli riconosce molteplici prove di generosità e di grandezza d’animo, a riguardo dei viaggiatori caduti in suo potere, che gli ispiravano dell’interesse”.

   “Fra’ Diavolo” fu un uomo infamato, screditato, fatto passare da ribaldo, da volgare grassatore, da sanguinario rapinatore. Troppo spesso la vera storia di Michele Pezza viene travisata, dimenticata, offesa, per dar luogo a strane leggende di brigantaggio, sviluppatesi attraverso i tempi ad opera specialmente di romanzieri e di narratori dalla feconda immaginazione, facili alle fantasticherie di ogni genere. In realtà, egli non era altro che un grande guerrigliero che lottava, con tutte le forze, per la propria terra, il Sud d’Italia, fedele ai principii della Monarchia teocratica, alla Santa Vergine, devoto all’altare. Un personaggio che ha lasciato un segno indelebile nella fantasia storica. Pochi personaggi hanno fatto breccia nell’immaginario  collettivo come “Fra’ Diavolo”. La leggenda che accompagna le sue imprese è legata a quello strano soprannome di battaglia, che suonò come un incubo  alle orecchie dei fantaccini francesi inviati fra le montagne impervie del Meridione d’Italia, tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento. Michele fu un patriota, una sorta di eroe nazionale, cui viene riconosciuta una grandezza e una legittimità della resistenza alla conquista e alla sottomissione, venute con le baionette. La democrazia non si esporta con i cannoni e i fucili. Il leggendario ribelle, dal cuore generoso e nobile, sempre pronto (ne  aveva fornito mille prove) ad osare tutto per il trono e per la Chiesa, era legato, in maniera inscindibile, alla cultura del proprio Paese, con un profondo amore per il focolare domestico, quello dei padri, reso sacro dalle tombe ancestrali. Egli accettava, con profondo rispetto, le decisioni delle “autorità secolari”, che conservavano il genio della stirpe. La religione gli imponeva l’obbligo di osservare regole morali. Per il Pezza la patria non era una parola vuota di significato; la patria voleva dire tre cose: il suolo, gli abitanti e la religione, trasmessa di generazione in generazione.

   La purezza e l’eroismo della lotta sostenuta con un’incontestabile abilità dal colonnello Pezza, duca di Cassano allo Ionio, in difesa della propria patria e del proprio re, e la morte, affrontata, a soli 35 anni, per non venir meno alla sua fede, costituiscono la dimostrazione più lampante  della sua resistenza di soldato, che seppe sempre  battersi da leone, intelligentemente e con un disinteresse  che lo portò a sacrificare tutto: la vita e bel tredicimila ducati, sborsati dalle sue tasche, per la paga ai massisti.

   Chi è “Fra’ Diavolo”? E’ l’eroe che, da solo, nel 1798, organizza la difesa del suo paese e disperatamente combatte, con la sua valorosa  gente, sostenuta dalle rispettive Università, nel fortino di S. Andrea, fra Itri e Fondi, contro la strapotente armata francese, comandata da generali e da ufficiali superiori sfornati da accademie militari prestigiose; è il figlio che sul cadavere del padre Francesco, vecchio ed inabile, da un pezzo, assassinato dai “liberatori” francesi, giura, baciandolo, di farne vendetta per tutta la vita mantenendo la propria posizione senza deflettere; è il comandante che, incontratosi con il commodoro inglese Thomas Trowbridge, respinge l’offerta di forti somme di denaro e richiede, invece, cannoni e munizioni, provvedendo a mantenere i suoi 1.700 uomini con fondi versati, a tale scopo, dai Comuni partecipanti alla lotta contro gli invasori francesi; è  l’uomo che consegna, il 23 luglio 1806,  al governatore di Capri, il famoso Hudson Lowe, centoventi prigionieri francesi; è l’ardente  patriota  che non si fa corrompere dal generale Lacour, che gli offre cinquantamila ducati, una somma che rappresenta una fortuna, ed un salvacondotto ; è il comandante che fa, dalla piazzaforte di Gaeta, repentine, travolgenti  sortite, con meravigliosa temerità, sempre portando lo scompiglio nelle fila nemiche, a cui sfugge avendo il dono di scomparire come se la terra lo inghiottisse;  è il capo di una truppa di massa, che annovera, fra i suoi effettivi, quattro ufficiali cappellani (D. Angelo Castelli, D. Tommaso Moretti, D. Onorato Costanzi e D. Francesco Cassetta) ed un chirurgo (D. Saverio Bonelli); è l’uomo che paga l’enorme debito di 27.000 ducati, contratti in nome del sovrano, per la difesa del regno. E’ ancora più eroico perché il “Leonida napoletano” non rinuncia al suo impegno fino all’ultimo episodio della guerra, benché sappia che la sconfitta sia inevitabile, benché veda i tradimenti, le diserzioni, benché comprenda qual è il corso della storia. La sua natura gli impedisce di rassegnarsi, di rinunciare alla lotta, nonostante  egli senta che il trono dei Borbone è perduto.  In Piazza Mercato Michele “morì con segni di vero cristiano e con molta edificazione” (richiama alla mente il verso di un’ode oraziana inneggiante alla virtù) , indossando l’uniforme di colonnello borbonico e con il brevetto di duca di Cassano allo Ionio al petto, cittadina calabrese teatro di una sua brillante impresa, che ebbe l’encomio del commodoro inglese Sidney Smith. Egli non aveva tremato all’annunzio della condanna a morte.

   In ultima analisi, possiamo dire che Michele Pezza fu uno dei più importanti e prestigiosi paladini dei Borbone, anima e fiamma della resistenza del suolo patrio e delle patrie istituzioni, artefice della riconquista del reame di Napoli, assieme al cardinale Fabrizio Ruffo, l’uomo della Santa Fede che battezzò un fortunato quanto spesso vilipeso vocabolo – sanfedista, appunto – catalizzando la fiducia di centinaia e centinaia di uomini duri e spietati, che alla libertà falsa e demagogica dei francesi opponevano una più moderata e sincera libertà  del Regno delle Due Sicilie.

   Michele Pezza, precursore della guerriglia particolare, praticata con coraggio, audacia e furbizia, si presta a numerose letture provocando sentimenti di forte ambivalenza in tutti coloro che si sono avvicinati alla misteriosa figura: da una parte, erano attratti dal suo valore di combattente e dalla sua intrepidezza; dall’altra, erano da questa spaventati dal nome evocatore di sinistri ricordi  e, dunque, proiettavano in lui attributi di ferocia e di perfida malvagità”.

   Alfredo Saccoccio, cantore per eccellenza del personaggio itrano, consegnato alla storia, a cui lo studioso ha dedicato una decina di libri e centinaia di articoli, nella biografia dal titolo “Vita ed imprese del colonnello Michele Pezza, detto Fra’ Diavolo” riabilita il legittimista aurunco demolendo non pochi luoghi comuni, assurti  al rango di verità storiche indiscutibili,  manipolazioni e svisamenti di fatti, che avvelenarono  gli spiriti in Europa sotto la specie del filosofismo minando le antiche istituzioni, sovvertendo gli antichi ordinamenti, scatenando ed aizzando gli appetiti del volgo. I  rivoluzionari diffusero dovunque l’utopia ugualitaria  promettendo al loro gregge traviato ed illuso il paradiso in terra. Visione idilliaca quella rousseauniana, ma lontana dalla realtà dei fatti, essendo una storia scritta dai vincitori, che liquidavano i guerriglieri sbrigativamente con il termine di “briganti”. Quindi frottole propinate ossessivamente dall’ortodossia accademica e dai manuali scolastici,  a tante, troppe generazioni di italiani, che diventano verità. I buoni stanno, tutti, da una parte e i cattivi da un’altra, naturalmente perdente. Una logica manichea, per la quale il mondo si divide in due parti: i buoni ed i cattivi, i giusti e gli imgiusti, i reprobi e gli eletti. Elezioni, uguaglianza, libertà, bei discorsi, parole seducenti per acchiappare i gonzi, fumo con cui si maschera l’assenza dell’arrosto… La Rivoluzione giacobina aveva la pretesa di creare la società civile partendo da dogmi tanto astratti quanto a torto generosi. Alla storia i francesi avevano preferito il mito, una vulgata pseudostorica, secondo la quale la Francia avrebbe inventato, nel 1789, la libertà e lo Stato di diritto. Le schiere galliche che venivano a “liberarci” non erano disposte  a lavorare per i nostri begli occhi: gli Immortali Princìpi erano il paravento che copriva le brame di conquista dei nipoti di Brenno, nelle cui casse dello Stato affluivano un rivolo d’oro e miriadi di tornesi, oltre alle opere d’arte razziate da Dominique Vivant-Denon, compagno di Bonaparte, che aveva seguito in Egitto. Questo è il capitolo della storia italiana più fortemente ignorato.

 La succitata opera, di unitaria e specifica struttura, è da considerare, d’ora in poi, una pietra miliare del personaggio Pezza.

Alfredo Saccoccio      

1 Comment

  1. Fra Diavolo fu il difensore di un popolo sconfitto tre volte: dai francesi, dai piemontesi e dai propri rappresentanti eletti nelle istituzioni monarchico/savoiarde e repubblicane. Chi potrà mai avere interesse a rivalutarne la memoria ? Solo chi per amore di conoscenza avverte l’obbligo morale di lavorare per il riscatto del nostro meridione. È un lavoro lungo e contro corrente, ma facendo circolare sempre di più le verità vere con il tempo si potranno cancellare 160 anni di menzogne!

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