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Mafia e poteri pubblici: contiguità politiche e sviluppi istituzionali (V)

Posted by on Gen 28, 2024

Mafia e poteri pubblici: contiguità politiche e sviluppi istituzionali (V)

5. Bonache e picciotti

La «sovrapposizione» di elementi politici e criminali all’interno delle organizzazioni armate che sostengono le insurrezioni palermitane, «vale a dire le corporazioni, le guerriglie, le milizie cittadine (1821), le squadre, le controsquadre e la guardia nazionale (1848 e 1860)»70, è un dato riconosciuto dagli stessi protagonisti degli eventi, e, oltretutto, percepito come necessario ai fini dell’affermazione della rivoluzione soprattutto nelle sue prime battute71.

Tuttavia, il patto tacito attraverso cui le forze popolari coinvolte riconoscono (temporaneamente) la loro subordinazione al ceto notabile, non garantisce di per sé l’ordine sociale. Oltre a ciò, se «parlare di “classi pericolose” è poi anche, forse soprattutto, parlare di popolo e delle sue rappresentazioni»72, non può sfuggire come la problematica assuma particolare visibilità nel momento in cui le élites rivoluzionarie, dopo essersi servite delle forze popolari per scardinare il sistema, si mobilitino al fine di normalizzare la situazione sciogliendo le squadre o, nei casi estremi, reprimendole (principalmente attraverso la Guardia nazionale). Questo ambiguo atteggiamento caratterizza, inoltre, tutti quei patrioti che tra l’aprile e gli inizi del maggio 1849, quando l’avanzante esercito borbonico può essere fermato solamente attraverso una mobilitazione generale, decidono di non mettersi alla testa del popolo in armi73. Scrive Michele Amari quando ancora la ferita è aperta: «Ci mancò il coraggio di una guerra civile per preludio alla continuazione della guerra contro i croati o cosacchi […] del re di Napoli. Il popolo ci avrebbe seguito», e tuttavia, «chi potea rispondere della moderazione di un popolo, che avesse gustato le prime gocce del sangue civile, esso che sotto l’impero delle leggi suol essere sventuratamente troppo corrivo al sangue?»74. Ovviamente la memoria andava ai drammatici episodi del 1820, i quali segnarono profondamente l’immaginario comune nei decenni successivi, quando «sciolto d’ogni freno era questo popolo; e se s’astenne dal sangue cittadino e generosamente risparmiò la vita e le sostanze ai vinti in combattimento civile, non risparmiava il terrore né le minacce»75; mentre l’imperdonabile errore delle classi dirigenti fu l’aver dato seguito al pregiudizio «di supporre che […] la plebe scatenata una volta divenisse dal primo all’ultimo una geldra di ladroni e cannibali coi quali un gentiluomo non dee sporcarsi»76.

Al di là dell’effettiva gravità degli eventi occorsi un trentennio prima, appare evidente come il discorso insista su una serie di luoghi comuni sedimentati a livello di rappresentazione collettiva. Può essere proficuo a questo riguardo individuare alcune delle modalità (dotate di un valore performativo) utilizzate da parte del ceto notabile per segnare la sua alterità, o in altre situazioni per rivendicare la (ricercata) contiguità, rispetto a quelle componenti facinorose delle classi popolari. Nel linguaggio comune del tempo, anche in assenza di una terminologia univoca a designare l’oggetto77, i riferimenti a taluni individui che si connotano per determinate condotte, pur non appartenendo in maniera stabile ai circuiti malavitosi, sono ricorrenti, e contribuiscono a gettare un po’ di luce sia sulla natura dell’interazione, che sulle modalità attraverso le quali le classi culte ne interpretano i comportamenti. Ad esempio, il termine «picciotto», usato per lo più con una accezione positiva e benevola ad indicare «nel gergo della gente di fegato […] amici di buona e più di mala vita, pronti a qualsiasi cimento, compagni di fede, di aspirazioni, di congiure»78, viene utilizzato da Mariano Stabile, ministro degli Esteri e personalità di spicco nel governo rivoluzionario, in una lettera a Michele Amari del 24 gennaio 1848: «Il popolo è stato ed è sempre sublime. La classe elevata ha mostrato fede nel popolo ed il popolo ha fiducia in noi. Le nostre idee […] trionfano, ed io rappresento il pensiero de’ picciotti, e lo fo ciecamente adottare da tutti quelli del Comitato»79. E lo stesso Amari, scrivendo a Francesco Paolo Perez in riferimento ad alcune sue note pubblicate in Francia, gli confida che queste furono «tradotte (con qualche erroruzzo) dai picciotti»80. Scrive Amelia Crisantino a questo proposito che «la familiarità con la “gente manesca” sembrava preoccupante solo perché osservata con occhi estranei. Nell’isola era vissuta come del tutto naturale, e Amari era stato un siciliano anche in questo: in attesa della rivoluzione, aveva reclutato popolani svelti e arditi»81. Anche gran parte della memorialistica garibaldina si riferisce ai “volontari” facenti parte delle squadre provenienti dalle campagne negli stessi termini: in una cronaca anonima del 1860, si spiega che quello di «picciotto» è un «vocabolo del dialetto che equivale al toscano giovanotti»82, utile a designare i membri delle «squadriglie», dotati di entusiasmo ma privi sostanzialmente di disciplina, che unitisi al Generale, sostengono l’avanzata dell’esercito garibaldino. E qui si ripropone nuovamente il problema, che tanta parte ebbe nel dibattito pubblico quarantottesco, a proposito dello scioglimento delle squadre, vista la loro indole riottosa ad ogni regola e ad ogni potere costituito, da parte del governo dittatoriale: «Questi elementi […] sono volontarii nel senso liberale del vocabolo, fanno pressoché tutto ciò che ad essi piace, obbediscono, quante volte loro convenga, ai capi che si sono scelti, rimangono o vanno via e volontà loro – in una parola sono tali da non contarvi sopra. […] Da tutto ciò bisogna concludere che il sistema delle squadre va abolito»83.

Al di là dell’effettiva gravità degli eventi occorsi un trentennio prima, appare evidente come il discorso insista su una serie di luoghi comuni sedimentati a livello di rappresentazione collettiva. Può essere proficuo a questo riguardo individuare alcune delle modalità (dotate di un valore performativo) utilizzate da parte del ceto notabile per segnare la sua alterità, o in altre situazioni per rivendicare la (ricercata) contiguità, rispetto a quelle componenti facinorose delle classi popolari. Nel linguaggio comune del tempo, anche in assenza di una terminologia univoca a designare l’oggetto77, i riferimenti a taluni individui che si connotano per determinate condotte, pur non appartenendo in maniera stabile ai circuiti malavitosi, sono ricorrenti, e contribuiscono a gettare un po’ di luce sia sulla natura dell’interazione, che sulle modalità attraverso le quali le classi culte ne interpretano i comportamenti. Ad esempio, il termine «picciotto», usato per lo più con una accezione positiva e benevola ad indicare «nel gergo della gente di fegato […] amici di buona e più di mala vita, pronti a qualsiasi cimento, compagni di fede, di aspirazioni, di congiure»78, viene utilizzato da Mariano Stabile, ministro degli Esteri e personalità di spicco nel governo rivoluzionario, in una lettera a Michele Amari del 24 gennaio 1848: «Il popolo è stato ed è sempre sublime. La classe elevata ha mostrato fede nel popolo ed il popolo ha fiducia in noi. Le nostre idee […] trionfano, ed io rappresento il pensiero de’ picciotti, e lo fo ciecamente adottare da tutti quelli del Comitato»79. E lo stesso Amari, scrivendo a Francesco Paolo Perez in riferimento ad alcune sue note pubblicate in Francia, gli confida che queste furono «tradotte (con qualche erroruzzo) dai picciotti»80. Scrive Amelia Crisantino a questo proposito che «la familiarità con la “gente manesca” sembrava preoccupante solo perché osservata con occhi estranei. Nell’isola era vissuta come del tutto naturale, e Amari era stato un siciliano anche in questo: in attesa della rivoluzione, aveva reclutato popolani svelti e arditi»81. Anche gran parte della memorialistica garibaldina si riferisce ai “volontari” facenti parte delle squadre provenienti dalle campagne negli stessi termini: in una cronaca anonima del 1860, si spiega che quello di «picciotto» è un «vocabolo del dialetto che equivale al toscano giovanotti»82, utile a designare i membri delle «squadriglie», dotati di entusiasmo ma privi sostanzialmente di disciplina, che unitisi al Generale, sostengono l’avanzata dell’esercito garibaldino. E qui si ripropone nuovamente il problema, che tanta parte ebbe nel dibattito pubblico quarantottesco, a proposito dello scioglimento delle squadre, vista la loro indole riottosa ad ogni regola e ad ogni potere costituito, da parte del governo dittatoriale: «Questi elementi […] sono volontarii nel senso liberale del vocabolo, fanno pressoché tutto ciò che ad essi piace, obbediscono, quante volte loro convenga, ai capi che si sono scelti, rimangono o vanno via e volontà loro – in una parola sono tali da non contarvi sopra. […] Da tutto ciò bisogna concludere che il sistema delle squadre va abolito»83.

6. Conclusioni

Sulla scorta delle indicazioni fornite da Benigno, occorre dunque fuoriuscire da una «concezione restrittiva della storia del crimine come storia sociale intesa alla vecchia maniera», ossia isolandola dalla storia politica; affrontato sotto questa luce, quello delle classi pericolose diventa anche un «paradigma di acculturazione che esprime una sorta di apprendistato alla politica da parte di settori dell’universo popolare tradizionalmente emarginati o esclusi dalla partecipazione ad essa»91. Il ceto notabile non detiene solo il monopolio delle cariche, ma anche quello di una strumentazione culturale volta a costruire un discorso più o meno condiviso, e comunque egemone, in grado di condizionare i temi e i toni del dibattito pubblico. Tra il livello della rappresentazione messo in atto dalla classe sociale che ha accesso agli strumenti culturali necessari, e il piano delle prassi politiche vi è spesso una contraddizione manifesta, e da questo gap si origina l’ambiguità del rapporto. Solo l’analisi del doppio registro può consentire una più esaustiva comprensione di quelle élites che, nell’autorappresentazione di classe, o di partito in senso lato, dissimulano la propria faziosità92. Infatti, non può e non deve sfuggire che queste pratiche sono anche il riflesso di schemi comportamentali consolidati e la traccia di configurazioni sociali ancora in via di definizione. A questo riguardo, la sommaria, quanto disorganica, rassegna sulle modalità tramite le quali le classi culte appellano la bassa manovalanza della rivoluzione, oltre ad essere rivelatrice della natura ambigua del rapporto, indica le forme (non neutre) attraverso cui vengono individuati alcuni soggetti sulla base di codici linguistici e pratiche riconosciute e condivise. Tutto ciò, ovviamente, non è disgiunto da quel riferimento – ascrivibile ad un’analoga pratica deformante – al minaccioso «popolo» rivoluzionario, che quando fa leva sui suoi più bassi istinti viene retrocesso alla condizione di «plebe» proprio da parte di coloro che avrebbero dovuto condurlo.

Sostanzialmente si tratta di meccanismi di inclusione/esclusione che costituiscono una forma di resistenza atta a smorzare e disinnescare quelle tensioni miranti a mettere in discussione gli equilibri (sociali, politici, di potere) consolidati per stabilirne di nuovi. Queste dinamiche trovano spazio non solo nelle situazioni di ordinaria amministrazione – che si perpetuano anche nei decenni postunitari attraverso la sorveglianza e il controllo da parte della polizia, «Autorità che veglia sulle classi pericolose della società» in maniera estensiva «nei molteplici suoi rapporti sociali, economici e politici»93 –, ma anche in quelle straordinarie: come si è avuto modo di verificare, finanche il difficile sodalizio tra le istituzioni rivoluzionarie e quegli elementi che appartengono ai circuiti criminali non sfugge a questa dialettica; si assiste, infatti, ad una progressiva divaricazione quando alla fase della rottura insurrezionale segue inevitabilmente quella della normalizzazione. Alla ricerca di una pubblica legittimazione, la rivoluzione nel momento in cui tenta di “istituzionalizzarsi” non consente, nei limiti delle sue capacità militari, che vi siano delle forze restie a compiere lo stesso percorso di disciplinamento. Da qui l’operazione di arruolamento, scioglimento e repressione delle squadre riottose. Un caso su tutti: nei mesi della dittatura garibaldina suscitarono particolare clamore il processo e la condanna di Santo Meli, popolano originario di Ciminna messosi alla testa di una delle squadre che si formarono dopo la fallita rivolta della Gancia (4 aprile)94 e che sostenne diversi scontri con le truppe borboniche, accusato di aver commesso numerosi atti di violenza ai danni della popolazione civile imponendo arbitrariamente delle contribuzioni. Al di là della fondatezza del giudizio di condanna espresso dal consiglio di guerra, è eloquente il passaggio dell’interrogatorio riportato da Alexandre Dumas nelle Memorie, in cui lo stesso Meli, rispetto alle accuse che gli vengono mosse, rivendica non senza abilità retorica e mettendo il dito nella piaga «che si mettano sulla bilancia i servigii che ha reso alla causa dell’insurrezione, rimanendo in armi, e il male che ha fatto per mantenervisi»95. Ma ancora più eloquente è la sconcertante riflessione di Dumas a commento dell’episodio – «Siffatte ragioni sarebbero state risibili in un paese civilizzato come la Francia, e presso individui civilizzati; ma in Sicilia […] fecero un certo effetto sul consiglio di guerra»96 – al quale sembra sfuggire non solo il senso profondo delle ragioni avanzate dal «paesano senza educazione» a proprio discarico, ma soprattutto il groviglio di motivazioni e le condizioni più generali che avevano generato un simile fenomeno, in realtà molto più diffuso (e organico) di quanto egli stesso non voglia ammettere97.

Fabrizio La Manna

  • 70 LUPO, Salvatore, Storia della mafia, cit., p. 58.
  • 71 FARDELLA DI TORREARSA, Vincenzo, Ricordi su la rivoluzione siciliana degli anni 1848-49, Palermo, S (…)
  • 72 BENIGNO, Francesco, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878, Torino, Einaudi, 2015 (…)
  • 73 [CRISPI, Francesco], Ultimi casi della rivoluzione siciliana esposti con documenti da un testimone (…)
  • 74 Lettera del 6 agosto 1849 a G. Arrivabene cit. in D’ANCONA, Alessandro, Carteggio di Michele Amari (…)
  • 75 AMARI, Michele, Studii su la storia di Sicilia, cit., p. 511.
  • 76 [ID.], Introduzione a PALMIERI, Nicolò, Saggio storico e politico sulla Costituzione del Regno di S (…)
  • 77 Cfr. SANTINO, Umberto, La cosa e il nome. Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi, Soveria (…)
  • 78 In PIPITONE FEDERICO, Giuseppe, Michele Amari e Francesco Perez durante e dopo l’esilio. Lettere in (…)
  • 79 Cit. in D’ANCONA, Alessandro, Carteggio di Michele Amari, cit., vol. I, p. 229.
  • 80 Ibidem, vol. III, p. 100.
  • 81 CRISANTINO, Amelia, Introduzione agli «Studii su la storia di Sicilia dalla metà del XVIII secolo a (…)
  • 82 La rivoluzione siciliana raccontata da un testimone oculare, Napoli, Stabilimento Tipografico delle (…)
  • 83 Ibidem, p. 66.
  • 84 Diario del Parlamento nazionale delle Due Sicilie negli anni 1820 e 1821. Illustrato dagli atti e d (…)
  • 85 AMARI, Michele, Studii su la storia di Sicilia dalla metà del XVIII, cit., pp. 510-511.
  • 86 PATERNÒ CASTELLO, Francesco, Saggio storico-politico sulla Sicilia dal cominciamento del secolo XIX (…)
  • 87 Gazzetta di Genova, 41, 22 maggio 1822, p. 164.
  • 88 Gazzetta di Genova, 44, 1 giugno 1822, p. 176.
  • 89 MORTILLARO, Vincenzo, Nuovo dizionario Siciliano-Italiano compilato da una società di persone di le (…)
  • 90 Cit. in LA PEGNA, Alberto, La rivoluzione siciliana del 1848 in alcune lettere inedite di Michele A (…)
  • 91 BENIGNO, Francesco, La mala setta, cit., p. XVIII.
  • 92 LANAROSilvio, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1870-1925, Venezia, Marsi (…)
  • 93 BOLIS, Giovanni, La polizia e le classi pericolose, cit., pp. 1-8.
  • 94 ASTUTO, Giuseppe, Garibaldi e la rivoluzione del 1860, Acireale-Roma, Bonanno Editore, 2011, pp. 14 (…)
  • 95 DUMAS, Alessandro, Memorie di Giuseppe Garibaldi pubblicate sulle note originali fornitegli dallo s (…)
  • 96 Ibidem, pp. 293-294.
  • 97 Si vedano i numerosi episodi descritti in LA MASA, Giuseppe, Alcuni fatti e documenti della rivoluz (…

fonte

https://journals.openedition.org/diacronie/11764?lang=fr#tocto1n2

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