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MARIA CAPITANIO-FUGA D’AMORE – Briganti al chiaro di luna

Posted by on Mag 23, 2024

MARIA CAPITANIO-FUGA D’AMORE – Briganti al chiaro di luna

In occasione della Festa di San Valentino 2008 l’Archivio di Stato di Caserta presenta la storia vera di una giovane donna dell’Alto Casertano della seconda metà dell’ottocento. Tra le carte dei processi istruiti contro i briganti è stato trovato un fascicolo che conteneva l’interrogatorio di Maria Capitanio, una ragazza di diciassette anni catturata dall’esercito insieme alla banda dei briganti di Ciccone e Pace.

Colpisce la semplicità della testimonianza resa dalla ragazza, che contrasta con la rudezza e la consumata furbizia degli altri arrestati. Le dichiarazioni di alcuni testimoni chiamati a deporre concordano nell’affermare l’estraneità della giovane alle attività criminali della banda.

Maria infatti fu l’unica ad essere scagionata. Dalle carte d’archivio sembra però emergere una verità più complessa: la ragazza era in realtà innamorata del suo rapitore e la violenza fu simulata per non coinvolgerla nelle attività criminali della banda. La vicenda qui ricostruita immagina che Maria Capitanio, oramai anziana, racconti alla nipote prediletta la sua grande storia d’amore.

Orsolina Foniciello
Stefania Vespucci


Fuga d’amore

Maria alzò gli occhi dalla gonna che stava rammendando e guardò di sottecchi il bel visino di Speranza, seduta accanto alla finestra. Erano diversi giorni che la vedeva pallida e pensierosa, perfino dimagrita e con i begli occhi scuri cerchiati da un’ombra di sofferenza. Che ne era della sua vivace nipotina sempre allegra e piena di vita? Maria sapeva che la sua piccola non era più una bimba: dalla ragazzina stava fiorendo la donna e lei aveva intuito che Speranza doveva essere innamorata. Salvatore, che fino a qualche anno fa era solo un monello scalzo a caccia di lucertole, si era fatto all’improvviso un giovanotto ancora un po’ impacciato, alto, magro, con larghe spalle e un ciuffo di riccioli neri in perenne disordine.

In quell’ottobre del 1914 la guerra era pericolosamente vicina, e l’esercito si sarebbe portato via Salvatore, con tutti gli altri ragazzi che fino a poco tempo prima, sucidi e cenciosi, si azzuffavano per gioco nel verde smeraldo dei prati intorno a San Vittore.

Maria avrebbe voluto che la nipote parlasse, le dicesse almeno una parola di quei suoi pensieri poco allegri, ma la ragazza continuava a tacere guardando al di là dei vetri della piccola finestra, verso il tramonto e le foglie rosse degli alberi.

«Sei preoccupata?» le chiese infine.
«Lo so che il mondo cambierà presto. Forse sarò proprio io a farlo cambiare. Salvatore mi ha detto che andrà via. E’ lo stesso. Se non parte, sarà la guerra a portarselo lontano. E io non voglio. Voglio andare con lui»
«Andare? Dove? Sei ancora una bambina. Non sai niente del mondo. Sei vissuta sempre fra quattro mura»
«Vogliamo andare in America. Lì c’è pane e lavoro per tutti»

Maria capì che i due ragazzi avevano fatto già i loro progetti per l’avvenire. Non sarebbe stato facile dissuaderli.Pure tentò di prendere tempo: «Non avevi detto che lavorava come taglialegna su in montagna?». «E’ un lavoro mal pagato, da poveracci. E poi c’è la guerra. Tra poco sarà chiamato alle armi e chi mi dice che potrà tornare? Non voglio perderlo. Ha dei parenti a Brooklyn, che si sono offerti di ospitarci, almeno per i primi tempi, finché non troviamo un lavoro». Il tono era basso, la voce appena percettibile, ma ferma e decisa.

Maria si sentì stringere il cuore. Speranza era la sua unica nipote, la figlia del figlio tanto più teneramente amato perché nato da un rapporto difficile e sofferto. Maria capì che la ragazza non sarebbe tornata indietro sulle sue decisioni. Era giunto il momento di rivelarle i segreti di un passato ormai lontano, che non era stato mai dimenticato. Li avrebbe portati con sé, in quel mondo nuovo e diverso, come una valigia piena zeppa di ricordi, dove sono stipate le cose che ti ricongiungono alle tue radici.
«Lo so che partirai. Non puoi farne a meno. Ma prima ti racconterò una favola, che porterai con te e racconterai ai vostri bambini americani, quando saranno abbastanza grandi. E’ una favola vera, però. Ricordalo. E’ la favola di un amore grande, senza il quale tu oggi non saresti qui.
«E’ passato tanto tempo. Non ricordo l’anno preciso, ma doveva essere il 1868, quando io avevo proprio la tua età. Non ho mai detto a nessuno tutta la verità, ma ora tu andrai via e per te rimarrà come un racconto letto nei libri.
Il vecchio re era andato via. Il Borbone «Francischiello», come lo chiamavano quelli che volevano prenderlo in giro. Brava gente i vecchi re. Al loro posto erano arrivati i piemontesi, che si prendevano tutti i nostri giovani a fare i soldati nel loro esercito. Se li tenevano anni e anni: non si riusciva più a coltivare i campi e tante famiglie erano ridotte alla fame.

Io avevo conosciuto un ragazzo. Si chiamava Antonio Luongo e aveva ventisette anni e occhi neri di velluto. Io ne avevo dodici di meno. Quando lo vidi la prima volta stava montando le traversine sui binari del treno vicino a Rocca d’Evandro. Lavorava per le ferrovie. Era un bravo operaio. Il re nuovo, però, lo voleva arruolare nel suo esercito. Avrebbe dovuto andare a combattere anche lui chissà dove e chissà per quanto tempo, e non voleva. In quei giorni io andavo con mio padre nei campi, vicino alla ferrovia. Era periodo di raccolto e alla fine della giornata lui si avvicinava con la scusa di aiutarmi a raccogliere gli attrezzi del lavoro, ma solo quando mio padre era lontano.

L’ultima sera, quando il raccolto era ormai terminato, mi accorsi che ero rimasta indietro agli altri. Si stava facendo buio in fretta. Ebbi paura e cercai di raggiungere il gruppo di quelli che tornavano verso casa, quando all’improvviso vidi una figura appoggiata ad un albero e sentii una voce che chiamava piano il mio nome. Quella sera parlammo a lungo. Antonio mi disse che aveva deciso di scappare sulle montagne e unirsi ai briganti. Non voleva fare il soldato per i piemontesi.

>Mi sentii scossa dai brividi. Capii che provavo per lui qualcosa che non avevo mai sentito prima e non volevo che corresse pericoli. Avrei voluto proteggerlo dal re piemontese e dai briganti, ma non ero che una ragazzina.

Si diede alla macchia, ma continuammo a vederci. Ci incontravamo al limite del bosco di Moscuso, dove di solito andavo a raccogliere la legna. Mi trattava come una donna adulta, aveva fiducia in me. Sapeva che non l’avrei mai tradito. Anche se i soldati mi avessero catturata e messa in prigione, non avrei detto mai dove si nascondevano lui e i suoi amici briganti. Strano: ora i briganti non mi facevano più paura. Sapevo che la maggior parte di loro erano padri di famiglia, costretti a quella vita per procurare da mangiare alle loro famiglie. Certo c’erano anche quelli feroci, che rubavano, ammazzavano e sequestravano i signori per chiedere il riscatto. Ma i compagni di Antonio non facevano mai queste cose. Cercavano solo di non farsi catturare dai soldati.
Poi capii che aspettavo un bambino. Piansi e per la prima volta ebbi paura. Come avrebbero reagito i miei? Lo dissi ad Antonio e insieme ci venne un’idea. Lui avrebbe finto di rapirmi contro la mia volontà, così avrei potuto salvare l’onore. La mia famiglia mi avrebbe protetta e avrebbe accettato l’inevitabile. Nessuno avrebbe potuto pensare che eravamo complici dei briganti. A quei tempi anche dare un pezzo di pane e cacio a un brigante ti faceva rischiare la vita.

Organizzammo il rapimento. Era il 4 di marzo. Avevo detto al più piccolo dei miei fratelli di venire poco prima di pranzo a chiamare papà con una scusa qualsiasi e lui venne tutto trafelato dicendo che i maiali avevano rotto il recinto e invaso l’orto, rovinando i germogli. Io ero con la mia amica Lucia alle Pianelle, sul limitare del bosco, mentre poco distante Marcuccio Canale potava le viti. Mi inoltrai un poco nel bosco, fingendo di raccogliere legna. Era il segnale. Dal bosco sbucò Antonio, accompagnato da altri due briganti. Tirò fuori un coltellaccio e me lo puntò alla gola, stando ben attento a non farmi male. Urlarono per farsi sentire anche da Marcuccio, e finsero di minacciarmi perché li seguissi sulla montagna. Mi allontanai con loro verso il fitto del bosco.

Tra gli alberi c’erano abiti maschili, che subito indossai. A sera arrivammo al campo sul monte Cammino, dove era riunita tutta la banda di Ciccone e Pace. Ero stremata dalla fatica, dopo l’arrampicata su per i sentieri appena tracciati della Cesima. L’accampamento quasi non si vedeva nel fitto della vegetazione. Sul fuoco, in un paiolo c’era una zuppa verdastra di erbe. Malgrado fossi affamata, non riuscii a mandarla giù. Allora Antonio mi fece portare dei maccheroni, che divorai avidamente. Oramai eravamo certi che l’allarme del rapimento era già stato dato. Pensavo al dolore di mio padre e alla disperazione di mia madre, ma la felicità di stare accanto all’uomo che amavo era più grande di ogni senso di colpa. In quel momento decisi: non sarei più tornata dalla mia famiglia. Sarei vissuta con Antonio, alla macchia insieme ai briganti»

Maria fece una pausa. Era stanca, lo sguardo perso nel vuoto. Sembrava parlare fra sé, come se non vi fosse nessuno ad ascoltarla. Forse aveva perfino dimenticato Speranza e riviveva quei giorni lontani, che non aveva mai raccontato a nessun altro fino ad ora.

Speranza era rimasta in silenzio ad ascoltarla. Quel racconto le pareva irreale. Le sembrava impossibile che la nonna, quella donna dolce e gentile dai gesti calmi e rassicuranti, potesse aver vissuto nella sua adolescenza una simile avventura. La curiosità però era troppo forte. Speranza voleva conoscere la fine del racconto che, come le aveva detto la nonna, riguardava in fondo anche lei.
«Raccontami nonna. Voglio sapere dei briganti. Di come hai vissuto con loro».
«Allora non c’era nulla di strano. Molte donne si davano alla macchia per seguire i loro compagni. Nella banda di Antonio c’erano altre due donne. Una si chiamava Carolina Casale ed era la druda di Michele Lippiello. Era al sesto mese di gravidanza e rimaneva di solito nascosta nella parte del bosco dove i soldati non si azzardavano ad entrare. L’altra brigantessa era la moglie di Alessandro Pace e si chiamava Giocondina Marino. Non ho mai fatto amicizia con loro. Erano diffidenti e scortesi con me, ma mi lasciarono in pace. Antonio ed io ce ne stavamo per conto nostro, ma quelle due ci osservavano da lontano continuamente e, mentre mangiavamo, mi sentivo addosso i loro occhi che ci sorvegliavano. Avevano capito che io volevo solo stare insieme al mio Antonio e non avevo nessuna intenzione di diventare una brigantessa».
La curiosità di Speranza era ormai accesa. Voleva conoscere l’epilogo di quella tragica storia. Come aveva fatto la nonna a sottrarsi ai briganti e a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Che fine aveva fatto il suo Antonio? E soprattutto, che ne era stato del loro bambino? Stava per aprire la bocca e pronunziare le domande che le si affollavano sulle labbra, quando Maria riprese: «Ripensarci adesso mi mette i brividi, ma quella è stata la settimana più bella, anche se la più tragica della mia vita. Sette giorni è durata la mia fuga d’amore. Al settimo giorno Antonio fu ucciso dai soldati del battaglione di fanteria, con altri della comitiva. Noi donne fummo catturate e sottoposte ad interrogatori massacranti. Io fui trattata un po’ meglio, perché non riuscivano a capire se la mia era una scelta o veramente ero stata rapita. Mio padre aveva denunciato il rapimento, i miei compagni di lavoro avevano testimoniato e gli altri briganti non sapevano che il mio rapimento era stato concordato con Antonio. Per un certo tempo ho rischiato di essere fucilata, come è avvenuto per le altre drude della banda. Ma, dopo un lungo processo fui scarcerata e potei così salvare mio figlio, il figlio mio e di Antonio, tuo padre. L’ho fatto nascere e gli ho dato il mio cognome. Non ho mai accettato un altro uomo nella mia vita. Ho chiamato mio figlio Antonio come suo padre ed è bastato a riempirmi di affetto e soddisfazioni. Poi sei nata tu, quando ormai il nostro mondo era diventato molto più normale, la nostra famiglia unita e serena. Ho voluto che ti chiamassi Speranza, perché ho riposto in te tutte le mie speranze di vederti felice con l’uomo che avresti scelto per compagno».

Finalmente Maria guardò sua nipote negli occhi. Speranza sorrideva appena. Stava pensando che, in fondo il suo avventuroso viaggio in America non era molto di più di una passeggiata, a confronto con l’incredibile vita di sua nonna.
«Ti prometto che ti farò conoscere i miei figli» pensò «dovranno capire che sono l’ultimo anello di un amore cominciato in un bosco tanti anni fa».

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