I morti dimenticati della battaglia di Castelfidardo
ormai l’epopea risorgimentale s’è avviata sui campi elisi e questo per colpa degli storiografi salariati che hanno per troppo tempo riempito i libri di storia di retorica e propaganda cancellando con troppo leggerezza e disinvoltura fatti accaduti realmente e difficilmente contestabile. Creare una nazione è una cosa seria e questo non si può fare con gli scheletri nell’armadio perché prima o poi le ante si aprono. Il nostro storico laborino FERNANDO RICCARDI parla questa volta dei fatti di Castelfidardo con la solita chiarezza ed apparente leggerezza………..
I morti dimenticati della battaglia di Castelfidardo
Il 7 settembre del 1860 Garibaldi entra trionfalmente a Napoli accolto da una folla festante che si accalca sulle strade del centro per toccare con mano il generale di rosso vestito, il sommo protagonista della trionfale cavalcata dalla Sicilia fino al cuore dell’ormai ex Regno delle Due Sicilie. Tutto è stato abilmente architettato da quel campione di doppiezza che è Liborio Romano capace, nel breve spazio di poche ore, di cambiare campo di gioco e, soprattutto, di cambiare padrone. Non ha esitato nemmeno a scendere a patti con la criminalità organizzata di Napoli affinché tutto andasse per il giusto verso. Ecco perché Garibaldi, deposta la sciabola nel fodero, arriva nella capitale viaggiando in treno da Salerno, come un qualsiasi turista della domenica. Tutto si era svolto secondo copione. La parte meridionale della Penisola, scippata con un perfido colpo di mano al Borbone, ora era nella mani di quello strano condottiero con al seguito un corposo nugolo di collaboratori, consiglieri ed aiutanti dagli appetiti quanto mai voraci. La presenza di Garibaldi a Napoli, però, inquieta non poco il conte di Cavour. Il piano che così bene era stato architettato rischia di saltare: il cocciuto nizzardo, infatti, rischia di fare di testa sua e, magari, di proseguire il trionfale cammino fino a Roma per buttare giù dal soglio “quel metro cubo di letame” di Pio IX. Bisogna fare qualcosa. E bisogna farla anche in fretta per evitare guai e sgradite sorprese. E allora che si fa? Si convince il re Savoia, Vittorio Emanuele II, a mettersi a capo di un poderoso esercito e a scendere a marce forzate verso Napoli. Scartata l’ipotesi di trasportare le truppe via mare, operazione fin troppo complicata, non restava che seguire la strada di terra partendo dall’Emilia Romagna e dalla Toscana le cui popolazioni, appena qualche mese prima, grazie alla patetica messinscena dei plebisciti, avevano manifestato la volontà di entrare a far parte del Regno di Sardegna. C’è, però, soltanto un piccolo, trascurabile problema. Per arrivare alla capitale dell’ex regno borbonico bisogna attraversare i possedimenti del papa, l’ultimo ostacolo che separa il meridione dalla parte settentrionale della Penisola in gran parte unificata sotto il vessillo sabaudo. Ma come si fa a risolvere la cosa? Non certo dichiarando guerra al pontefice, il che avrebbe provocato la reazione delle potenze cattoliche del vecchio continente. D’altro canto Pio IX mai avrebbe permesso alle truppe di sua maestà sabauda di calpestare il suolo dello Stato Pontificio. E allora che ti inventa il perfido genio del conte di Cavour? Il “casus belli”, quello che avrebbe permesso di risolvere un così pressante problema. Da qualche tempo bande di irregolari e di rivoltosi tentavano di penetrare nei possedimenti papalini con l’intento di giungere fino a Roma e di mettere fine al potere temporale della Chiesa. Il che aveva indotto il pur riluttante Pio IX ad organizzare una sorta di esercito composto da italiani e da volontari provenienti da Francia, Austria, Irlanda, Belgio ed altri paesi cattolici europei. In breve tempo si riuscì a mettere insieme 15 mila uomini, i cui due terzi erano italiani, affidati al comando di un generale francese, Christofe La Moriciere, che molto si era distinto nella guerra di Algeria. Un esercito che, vista l’esiguità numerica, serviva soltanto per badare all’ordine interno. Eppure Cavour, temendo per l’incolumità del suo stato, intima al papa di sciogliere immediatamente il suo esercito mercenario. In caso contrario avrebbe dato l’ordine alle truppe piemontesi di invadere lo stato della Chiesa. Cosa che, chiaramente, avviene. Un corpo di armata di 70 mila uomini, al comando del generale Fanti, oltrepassa la frontiera e si dirige a marce forzate in direzione di Ancona, poderosa fortezza il cui controllo poteva assicurare la vittoria dell’intera campagna bellica. Prima di partire ai soldati sabaudi vengono distrubuite le copie di un proclama reale con il quale Vittorio Emanuele esorta i suoi uomini a “liberare le infelici province d’Italia dalla presenza di straniere compagnie di ventura”. Ancora più pregnanti le parole del generale Cialdini, comandante del IV corpo d’armata, uno che molto si distinguerà in seguito per la sua inaudita ferocia, il quale rivolgendosi alla sua truppa così scrive in un proclama: “Soldati, vi conduco contro una masnada di briachi stranieri che sete d’oro e vaghezza di saccheggio trasse nei nostri paesi. Combattete, disperdete, inesorabilmente quei compri sicari e per mano vostra sentano lpira di un popolo che vuole la sua nazionalità e indipendenza. Soldati, l’intera Penisola domanda vendetta e, benche tarda, l’avrà”. “E così – osserva il vescovo d’Orleans – senza dichiarazione di guerra, senza alcuna di quelle forme convenzionali che sono l’ultima salvaguardia dell’onore del mondo civilizzato, come se vivessimo ancora nel profondo della barbarie, masse di armati invadevano gli stati pontifici”. Sul campo avverso non ci si fa troppe illusioni. La spoporzione delle forze in campo è assolutamente incolmabile. La Moriciere spera soltanto di rinchiudersi con quanti più uomini nella fortezza di Ancona e di resistere il più possibile all’assedio piemontese sperando nell’intervento delle potenze cattoliche europee. Speranza vana perché tutto era stato già deciso a tavolino, con Napoleone III che aveva dato il suo, sia pur informale ma prezioso assenso. Le Marche e l’Umbria possono andare ai Savoia, l’importante è che nessuno tocchi il papa e, soprattutto, il Lazio che deve restare l’unico lembo di territorio a disposizione dello stesso. Questo è l’infame accordo stipulato stipulato in gran segreto, qualche settimana prima, in quel di Chambery. Inizia così una corsa frenetica a chi arriva per primo ad Ancona. Essendo questo lo stesso obiettivo dei due eserciti fatalmente arriva il giorno dello scontro. E quel giorno è il 18 settembre. A Castelfidardo, piccolo paese marchigiano adagiato su di una collina, ad un tiro di schioppo da Loreto e dal suo celebre santuario, le truppe papaline e quelle piemontesi si danno battaglia. Lo scontro è aspro, serrato ma la spoporzione delle forze in campo è notevole. I volontari pontifici si battono con notevole ardimento ma alla fine sono costretti a cedere. Uno dei comandanti papalini, George de Pimodan, ferito più volte e gravemente nel corso dell’assalto, riesce a dare l’estremo saluto a La Moriciere dicendogli con ultimo fiato di voce: “Generale, i nostri combattono da eroi. L’onore della Chiesa è salvo”. Compresa che ormai la battaglia è persa lo stesso La Moriciere si avvia con poche centinaia di uomini verso Ancona e qui va a chiudersi eludendo la manova di accerchiamento dei piemontesi. Un’impresa che, però serve a poco. Il 29 settembre, investita da terra e da mare, la fortezza è costretta a capitolare. Ormai la strada verso Napoli è sgombra e il re sabaudo può riprendere la marcia alla testa dei suoi uomini. Qualche giorno dopo, il 26 ottobre, c’è l’incontro con Garibaldi a Teano e da allora la sorte del meridione diventa particolarmente cupa, stravolta da una lunga e sanguinosa guerra civile. Ma torniamo a Castelfidardo. Quel tragico 18 settembre del 1860 cadono in parecchi tra papalini e sabaudi. Tra quelli che vennero spezzantemente definiti “i mercenari di Pio IX”, tra quelli che il truce Cialdini chiama “briachi stranieri” e “compri sicari” vi è anche il bretone Paul de Parcevaux che, ferito seriamente durante lo scontro, viene ricoverato come tanti altri nella basilica di Loreto, trasformata in ospedale. Il giovane Paul, costretto a letto, così scrive alla madre: “La mia ferita è grave ma siccome oggi mi sento meglio spero di ristabilirmi. In quanto al resto, mentre stavamo andando in battaglia, pregai Dio perché io potessi fare il mio dovere e morire bene. E ora, data la mia ferita, non temo la morte più di quanto il 18 temessi le fucilate. In Bretagna avrei minore probabilità di morire in condizioni più favorevoli per guadagnare il Cielo. Se muoio, spero di morire contento. Se ci sono grida di dolore nella chiesa che è il nostro ospedale, ci sono anche scoppi di riso. Mi si portano via penna e inchiostro. Addio, spero solo di rivedervi un giorno. Se sarà volontà di Dio di chiamarmi a Lui, il mio ultimo pensiero sarà a voi consacrato”. Paul spirò per le conseguenze della ferita il 14 ottobre lasciando “lo spirito a Dio, il corpo a Nostra Signora di Loreto, il cuore a sua madre e alla sua nativa Bretagna”. A lui, come a tutti i suoi valorosi compagni caduti in quella inutile battaglia, bene si addice il pensiero di mons. Dupanloup, vescovo di Orleans: “O colline di Castelfidardo che beveste il loro sangue e raccoglieste le loro ceneri. Ieri il vostro nome era sconosciuto, oggi è immortale”. Nel 1900, in occasione del quarantennale della battaglia, sulla facciata dell’imponente palazzo comunale di Castelfidardo, viene affissa una lapide marmorea a ricordo dell’evento. E fin qui niente di particolarmente sconveniente se non fosse che, ancora una volta, torna l’ignobile panzana dei “mercenari soldati pontifici”, una menzogna costruita ad arte e che servì a giustificare un azione bellica del tutto ingiustificata. Dieci anni più tardi, nel 1910, per il cinquantenario della battaglia, fu eretto un monumento nazionale opera dello scultore Vito Pardo per ricordare i caduti di entrambi gli schieramenti. Monumento bello ed imponente che è meta continua di visitatori, turisti e curiosi. Ancora una volta, però, lo scopo originario che portò all’erezione del mausoleo è stato completamente stravolto. Lassù, dove sono stato di recente, è tutto un tripudio di bandiere tricolori, di retorica patriottarda, di enfasi risorgimentale. Di quei poveri volontari papalini, italiani e stranieri giunti da ogni parte d’Europa per offrire il loro braccio alla causa della Chiesa e del papa, non c’è traccia alcuna. Oggi nessuno ricorda De Pimodan, Parcevaux e tanti altri valorosamente caduti sulle amene balze di Castelfidardo per sostenere una causa tanto nobile quanto vana. Così come nessuno ricorda quei poveri soldati del papa che caddero dieci anni più tardsi, il 20 settembre del 1870, a Roma nei pressi di Porta Pia. Nel fulgido ed epico libro dell’italico Risorgimento non c’è posto per i vinti. Un’altra colossale ingiustizia, l’ennesima, della vulgata storica dominante che qualcuno, prima o poi, dovrà pur peritarsi di cancellare. E quando ciò sarà fatto sarà sempre troppo tardi.