“Napoli ad occhio nudo”
Non ho letto interamente “Napoli ad occhio nudo” di Renato Fucini ma il suo reportage mi è tornato alla mente guardando sul più grande quotidiano nazionale la foto di un orologio con al centro del quadrante una pizza. L’articolo accanto recitava: “Napoli regala ai turisti gli orologi antiscippo”.
Praticamente orologi di plastica da esibire agli scippatori al posto dei rolex! Idee malsane per risolvere un problema reale e drammatico, la incolumità dei turisti e la salvaguardia dei loro beni oltrechè della loro voglia di ritornare a Napoli.
Così è ridotta una ex capitale, una città che a cavallo fra sette e ottocento rivaleggiava con Parigi. Ridotta ad una città di postulanti che sembra abbia dimenticato definitivamente la propria storia e la propria grandezza per divenire l’ultima metropoli plebea del mondo moderno, secondo la definizione datane da Pasolini.
In tanti – la stragrande maggioranza – affermano che la sua dignità finì impiccata agli alberi delle navi inglesi quando fu fatto fuori il fior fiore della borghesia napoletana e non sanno – o fingono di non sapere – che l’artefice di quell’eccidio fu Nelson, ammiraglio della civilissima Inghilterra, non il ‘sanfedista’ Ruffo che aveva stipulato un accordo con i capi della Repubblica Partenopea e vanamente cercò di onorarlo quel patto. Altri – una manciata di uomini, oggi derisi dai più – affermano che essa finì con la sconfitta della guerriglia contadina.
“Come è possibile” si domandava un amico ieri sera “che non si riesca – da parte dei meridionali – a fare una lettura diversa della propria storia nonostante recenti acquisizioni storiografiche anche da parte di penne illustri?”.
Non ci riusciamo – e forse non ci riusciremo mai – perché noi siamo come gli Indiani d’America, siamo un popolo sconfitto e, in parte, ci siamo sconfitti da soli! Nel senso che la guerra civile che si combatté fra il 1860 e il 1870 non fu solamente una guerra fra italiani del nord e italiani del sud ma fu una guerra fratricida fra meridionali e meridionali, fra chi parteggiava per i piemontesi e chi li combatteva.
Uno scontro che attraversò non solo le classi sociali – contadini ed ex-soldati sbandati da una parte e borghesi detentori del nuovo potere costituito dall’altra – ma fra contadini che si armavano e prendevano la via dei boschi e quelli che non volevano combattere e intendevano vivere in pace, fra proprietari che speravano in un ritorno dei Borbone e divenivano manutengoli dei “briganti” e proprietari che avevano collaborato all’abbattimento del vecchio regime e ne temevano il ritorno quindi appoggiavano – anche militarmente attraverso la costituzione il foraggiamento delle squadre della guardia nazionale – il potere piemontese o italiano che dir si voglia.
Centomila (100.000) furono i morti della guerra fratricida, secondo la stima di Giordano Bruno Guerri, storico, ex-direttore di Storia Illustrata – ospite di una trasmissione pomeridiana su Raiuno di qualche anno fa.
Una cifra che oggi farebbe gridare al genocidio e provocherebbe l’intervento dell’ONU, ma eravamo nell’ottocento e nel Sud, dove si poteva morire senza neppure essere ricordati nei libri di storia. Almeno così è stato.
Cosa fecero gli intellettuali meridionali – gli opinion maker si potrebbe dire con termine moderno – di fronte alla carneficina? Chiusero gli occhi e si turarono il naso nel nome superiore della patria, tutt’al più si diedero al lamento meridionalista.
Leggete le lettere del Villari[1] – sì proprio quello dell’invito al Fucini – del 1876 e poi quelle del 1861 e annotatevi le differenze. Ah, se non lo sapete, Villari fu pure ministro della Pubblica istruzione (1891-1892) della neonata patria.
Evidentemente il lamento meridionalista paga.
La verità un po’ meno, il De Sivo per aver provato a fare il bastian contrario[2] rispetto agli unificatori non divenne certo ministro, anzi fu arrestato e perseguitato e morì in esilio. Se non sapete chi fosse De Sivo, ebbene ve ne dovreste vergognare, significa che non conoscete la storia della vostra terra – ovviamente parlo ai meridionali, gli altri son perdonati d’ufficio.
I giochi sono fatti quando Fucini giunge alla stazione ferroviaria di Napoli, il 3 maggio 1877, per scrivere, su invito di Pasquale Villari, un ‘reportage’ sulle condizioni della popolazione e sullo stato dei quartieri poveri napoletani. Egli porta con sé qualche libro e una rivoltella per difendersi dall’attacco dei lazzari napoletani. Sembra cronaca dei nostri giorni. Siamo un popolo immutabile (sic!).
Sul Meridione, nel 1877, è già calata – e per sempre – la coltre nera della damnatio memoriae, se ne è fatto il paradigma di un luogo infernale[3] e incomprensibile, altro, che si è opposto e continua ad opporsi alla modernità.
Sono stati fatti sparire o falsificati documenti, sono state divelte insegne dai palazzi, sono stati cambiati i nomi delle vie, sono state erette statue agli eroi dell’unificazione, tutto per far dimenticare l’odiato regime borbonico, fonte di tutti i mali passati presenti e futuri del Meridione.
Inizia così la “questione meridionale”.
Elea di Zenone
fonte
eleaml.org
[1] “Ma se io vi dicessi che tutti sono contenti, io v’ingannerei. Il disordine amministrativo ha portato un ristagno ed una confusione grandissima negli affari. Coll’accentramento, che progredisce ogni giorno, questi affari dipendono sempre più da Torino; ed il governo centrale, per se stesso non molto rapido e ordinato, non può operare con prontezza ed energia, a cagione degli estesi poteri del Cialdini, che non è uomo da tollerare impacci alla sua volontà.” (Villari, 1861)
“Lo vedremo in appresso. Intanto, per cominciare dalla camorra, noterò che la legge di sicurezza pubblica suppone che il camorrista non faccia altro che guadagnare indebitamente sul lavoro altrui. Invece esso minaccia ed intimidisce, né sempre per solo guadagno; impone tasse; prende l’altrui senza pagare; ma ancora impone ad altri il commetter delitti; ne commette egli stesso, obbligando altri a dichiararsene autore; protegge i colpevoli contro la giustizia; esercita il suo mestiere, se così può chiamarsi, su tutto: nelle vie, nelle case, nei ridotti, sul lavoro, sui delitti, sul gioco.” (Villari, 1876)
[2] La Tragicommedia, che nasce anche con l’intento di “[…] ricordar le ricchezze dileguate, l’armi perdute, fra’ rimbombi de’ cannoni, e i gemiti de’ fucilati, e i lagni de’ carcerati”, viene soppresso dalle nuove autorità dopo i primi tre numeri. Imprigionato per la terza volta, lo storico napoletano sceglie la via dell’esilio e il 14 settembre 1861 parte per Roma, da dove non farà più ritorno. Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla difesa, spesso polemica, dell’identità nazionale del paese – appartengono a questo periodo gli opuscoli Italia e il suo dramma politico nel 1861 e I Napolitani al cospetto delle nazioni civili – e, soprattutto, alla riflessione e alla ricostruzione storica. Dà alle stampe una Storia di Galazia Campana e di Maddaloni e porta a termine la Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, che rappresenta il culmine della sua produzione letteraria e storica. Il primo volume è recensito su La Civiltà Cattolica dal gesuita Carlo Maria Curci (1809-1891), che lo giudica lavoro di “altissimo pregio” quanto “a sanità di principii, a nobili sentimenti di onestà e di religione, a coraggiosa franchezza nel qualificare le cose e le persone coi proprii loro nomi, e, per ciò che noi possiamo giudicarne, eziandio quanto a veracità di fatti narrati”.De’ Sivo, fedele alla dinastia legittima, è destituito dalla carica di consigliere d’Intendenza e imprigionato. Scarcerato alcune settimane dopo, è nuovamente arrestato il 1° gennaio 1861; finalmente liberato due mesi dopo, vuole sperimentare la “vantata libertà della parola” e inizia la pubblicazione di un giornale legittimista, La Tragicommedia. Il vessillo del giornale è il “prepotente amore” alla patria, che non è la “Patria” astratta e letteraria dei rivoluzionari, bensì “idea semplice cui ciascuno intende senza dimostrazione; è il suolo ove siam nati, ove stan l’ossa degli avi, la terra de’ padri”. La Tragicommedia, che nasce anche con l’intento di “[…] ricordar le ricchezze dileguate, l’armi perdute, fra’ rimbombi de’ cannoni, e i gemiti de’ fucilati, e i lagni de’ carcerati”, viene soppresso dalle nuove autorità dopo i primi tre numeri. Imprigionato per la terza volta, lo storico napoletano sceglie la via dell’esilio e il 14 settembre 1861 parte per Roma, da dove non farà più ritorno. Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla difesa, spesso polemica, dell’identità nazionale del paese – appartengono a questo periodo gli opuscoli Italia e il suo dramma politico nel 1861 e I Napolitani al cospetto delle nazioni civili – e, soprattutto, alla riflessione e alla ricostruzione storica. Dà alle stampe una Storia di Galazia Campana e di Maddaloni e porta a termine la Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, che rappresenta il culmine della sua produzione letteraria e storica. Il primo volume è recensito su La Civiltà Cattolica dal gesuita Carlo Maria Curci (1809-1891), che lo giudica lavoro di “altissimo pregio” quanto “a sanità di principii, a nobili sentimenti di onestà e di religione, a coraggiosa franchezza nel qualificare le cose e le persone coi proprii loro nomi, e, per ciò che noi possiamo giudicarne, eziandio quanto a veracità di fatti narrati”. Cfr. Giacinto de’ Sivo (1814-1867) di Francesco Pappalardo
[3] Una damnatio memoriae che si perpetua nel tempo fino ai giorni nostri e diventa un filtro, una lente attraverso cui si guarda il Meridione d’Italia, vedi il Bocca de L’inferno: Profondo sud, male oscuro (1993) e quello de Napoli siamo noi (2005), tanto per fare esempi noti al grande pubblico.