Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

NAPOLI E L’ITALIA

Posted by on Mag 9, 2020

NAPOLI E L’ITALIA

Dietro lo pseudonimo di Estio Leucopetro si celerebbe il foggiano Tommaso Perifano (1), liberale, amico di Liborio Romano. Oltre a questo opuscolo su Napoli avrebbe scritto, utilizzando lo stesso pseudonimo, anche “Nuove lamentazioni di Geremia”, “Garibaldi al cospetto del Secolo” e “L’Italia ed i suoi Liberali”.

Avvocato, professore di diritto in Napoli, già sul finire degli anni Trenta fu socio della Reale Società Economica di Capitanata.

In una Memoria su la Istruzione Popolare – nella tornata generale del 3o maggio 1839 – indirizzata a Gaetano Lotti, Intendente di Capitanata, scriveva:

“Si, la istruzione popolare è necessaria; e vuolsi notare la sua necessità restar giustificata dai progressivi, costanti, innumeri, sebben talora lenti vantaggi ottenuti nei luoghi dello straniero, dove si è vòlto il pensiere a stabilirla, e più che altrove in contrade intese all’agricoltura, di tal che la istruzione popolare può ben raffigurarsi alla vista dei giusti, che secondo è scritto nei Santi Libri, la è come l’aurora che s’avvanza e cresce fino a giorno perfetto, od alla palma della mano d’insipiente fanciullo che bruttata pria del nero inchiostro, lascia di se incancellabile impronta, ovunque ei la porti incauto, e sul terso marmo, e su la dipinta pariete.

Proponendo la istruzione popolare in Foggia non è mio divisamento che cotesta utilissima instituzione, al suo nascimento almeno, montasse al punto di perfezione, ch’è sperabile conseguire in vasta Capitale, seguendo a rigore le norme e gl’insegnamenti per tale opera dettati. Qui v’hanno ostacoli, peculiari alla contrada, alla indole, alle inclinazioni degli abitanti, oltre la spesa sovrabbondante alle forze, ed al plausibile per macchine, strumenti, libri, ed altro inserviente alle giornaliere lezioni, non escluse le Domeniche per talu ne classi popolaresche. Con altra scrittura rassegnerò a que sta Reale Società gli ostacoli dianzi mentovati, i mezzi, i più conducevoli, onde rimuoverli, e da ultimo il come, a mio vedere, potrebbe in Foggia prosperamente introdursi la istruzione popolare, niente lasciando a desiderare per eguali risultamenti ad ogni altra in guisa più nobile forse altrove stabilita.”

Parole che testimoniano il clima di cambiamento che si respirava in quei primi anni di regno di Ferdinando II.

Per concludere, riportiamo uno stralcio da “Napoli e l’Italia”, per invogliarvi alla lettura.

“Cavour non amava l’Italia per formare l’Italia; voleva bensì l’Italia, più che per altro, pel suo Piemonte.

Questo distorto pensamento, questo ingiusto desiderio era trasfuso, e formava il comun voto del suo Ministero, degli adepti suoi, de’ seguaci e consorti della sua politica, di tutti i così detti Cavourriani, fra’ quali primeggiavano, e mostravansi accaniti gli emigrati napoletani, ligii a lui per larghezza di favori; ché quivi a Torino l’ebbero a protettore, ad amico, a salvatore. Ed è qui che mette capo, e tu trovi le origini di quella infausta consorteria che ha cotanto tribolato, ed ha fatto misero scempio delle province napoletane; consorteria ch’è brutto germe ed amaro frutto di tutte le forme de’ Governi.

La camarilla Borbonica non era punto dissimigliante da cotesta consorteria, e produsse all’intristita nazione mali più gravi e peggiori di quelli ond’era oppressa da’ singoli spietati agenti del Governo.”

* “I Perifano, originari di Salonicco, erano presenti a Foggia già dalla metà del settecento. Questi, come molti altri gruppi di Greci, si erano stabiliti in Italia meridionale per sfuggire all’oppressione ottomana.” Cfr. Unità e dintorni Foggia e la Capitanata dal 1848 al 1870 Fondazione Banca del Monte Domenico Siniscalco Ceci – Foggia a cura di Saverio Russo

Dov’è Napoli? Dov’è l’Italia?

Ecco le inchieste che di presente van ricambiandosi, in chiunque ti avvieni, tra tutte quante le classi de’ cittadini, in tutti gli ordini della civil comunanza trepidanti pel cuore, sconfortati in viso.  .

Napoli non è più l’Italia non è.

Ecco le risposte che van ripetendosi, dovunque ti aggiri, ne’ pubblici uffizi, in su le vie, a prezzo le piazze, ne’ ritrovi privati.

Strappiamo dunque la maschera a questa larva che vuole illuderci; giù la benda; poniamo a nudo il vero.

Libero cittadino, patriota italiano non venduto, non mercenario, non servile, non egoista, non ambizioso, che fatto bianco dal tempo e dalle sventure, vidi più che non volli, soffrii più che non poteva per la santa causa della libertà e del risorgimento italiano, niente mi trattiene dall’affermare a viso aperto, che amo sopra tutto con ardor indicibile la patria mia, amo Vittorio Emmanuele re d’Italia costituzionale, re magnanimo e galantuomo, prode soldato, anima veramente italiana non prostituta, non vigliacca. Laonde deliberatomi di toccare fugacemente senza sdegno, senza studio, e come scorre la penna, delle odierne miserrime condizioni, della tristissima situazione interna e delle province meridionali, ed eziandio del futuro reame d Italia, il farò disfrancato dalle preoccupazioni della mente, da spirito di partito, da ogni pregiudizio di municipio; il farò con franca, libera, veridica parola, senza pretensione, senza orpello, senza mistero, senza timore, senza speranza, e con la fede che si addice ad impavido liberale, ad onorato scrittore, cui è sacro, inviolabile debito di non ingannare i contemporanei ed i posteri.

Non credasi pertanto che adoperassi qui a svolgere tutti i fatti gravissimi, le moltiplici quistioni, od a sciogliere i malagevoli problemi che si affacciano alla mente, e che vorrebbono troppo sottile e profondo trattato, conseguente da riposato esame, nello stato attuale della penisola italiana, e del nuovo regno italico. Ella sarebbe opera non che ardua, lunga, difficilissima, ma ben ancora non conveniente al mio povero ingegno, incomportevole alle scarse mie forze. Nè tampoco dirò cose onninamente nuove; che pur altri patrioti mi precessero nelle accreditate effemeridi, negli assennati periodici a levar alta ed animosa la voce, ed a rischiarare i mali gravissimi onde siamo premuti, incalzati, e pur quelli onde siamo minacciati, e che tuttodì si accalcano e sovrastano a nostro strazio, a squilibrio della cosa pubblica, a scomponimento d’ogni bene di popolo (). Fu mio intendimento, ripeto, di porre a nudo le precipue esiziali cagioni perché Napoli non sia più Napoli; perché Italia non è Italia, con una trattazione più facile ed esplicita, con forma più sensibile ed adatta a tutte le intelligenze, sì che da altri non fu mai detto per l’addietro. Come siami riuscita la prova, lascio ad altrui il giudizio.

Posti siffatti dichiaramenti, vengo al mio proposito.

I

E da prima intorno alle province napoletane dico, che a niuno, secondo che io credo, soffrirà l’animo di levarsi a combattere il principio irrecusabile, perché filosofico e logico, che la verità posta nello stato di realtà positiva, va esplicandosi con due ordini, o metodi, d’idee cioè, e di fatti, che costituiscono la sintesi e l’analisi della verità medesima. Quantunque volte però non trovasi riscontro, o non sonp fra loro in armonia i due metodi, vai dire i fatti non rispondere alle idee, o queste a quelli, indarno potrà ricercarsi della verità, ch’è sempre pur una, individua, intransigibile: non ci. ponno essere né avvenimenti veri nella storia, né fenomeni certi nella natura, quando i fatti riescono contrarli, od all’opposizione alle idee.

Applichiamo. Nove milioni di popolo formanti l’antico reame delle due Sicilie, levandosi tutti quanti a letizia, con trasporto unanime, inenarrabile, sì che il simigliante non fu veduto ricorrere, né si ha memoria per l’addietro, salutavano, acclamavano, benedicevano all’Eroe del secolo, al gran galantuomo d’Italia, all’invitto duce Garibaldi, in lui raffigurando il vero Veltro simboleggiato nell’allegoria Dantesca; ché non cibando terra, né peltro, ma sapienza, amore, virtute, uccisor della lupa ingorda, l’abborrito dispotismo, cacciava i lupi e i lupicini al monte, era salute dell’umile Italia, dalla quale con la sola sua spada valorosa snidava i tirannie i tirannelli; maraviglia in nessun tempo avvenuta.

Nove milioni di popolo per siffatta maniera squassavano dalle fondamenta la monarchia esecrata dei Borboni, revoluti 126 anni di detestata signoria, per provvidenzial coincidenza, nello stesso giorno della sua fondazione (7 di settembre); e con antitesi degna di nota, fondata che fu da un uomo, secondo le condizioni de’ tempi, non affatto sfornito d’ingegno, proditorio rampollo ed erede del famoso testamento suggerito dalle mali arti del cardinal Portocarrero all’imbecille Carlo II, ultimo della razza Austro-Ispana, veniva poi a cadere ignobilmente tra le mani d’imberbe fanciullo, d’ogni saper civile e di sue sorti ignorante; e fondata inoltre per nimistà ed avversione all’Austria, sempre fedifraga, scrollava per opposito a cagione di attaccamento dissennato, di cieca devozione all’Austria medesima, quand’era ella in mal punto arrivata, e trovavasi nella bilancia politica dell’Europa della vetusta possanza inquieta, del suo dominio vacillante.

Così, né altrimenti, una intera nazione facevasi di per sé stessa redenta a libertà; così il popolo napoletano spontaneamente toglieva tremenda, inesorata, esemplare vendetta d’una dinastia odiata; malediva a’ suoi infausti oppressori; ne aboliva ogni esosa memoria; memorando, sfolgorato argomento all’Europa, che pur nelle vene napoletane scorresse sangue davvero italiano; che pur fosse popolo ornai a libertà maturo. Di qui si chiarisce essere bugiarda, invereconda accusa che non meritasse libere instituzioni, siccome affermava Colletta, storico controvertista, niente imparziale, e ripetevasi non ha guari con improvvido consiglio, sol perché quivi in Napoli non avesse mai la libertà potuto durare un anno, né fossero a paragonarsi gli eroismi del 99 con le vigliaccherie del 1820. Invereconda accusa, ripeto; ché se in quelle epoche venne meno la libertà, non fu già il popolo che se ne mostrasse indegno; bensì fu condotto al doloroso passo dalle nequizie corrompitrici del potere assoluto, da’ compri tradimenti; e come nel 99, così nel 1820 fu eziandio sopraffatto dove dalla fedifraga influenza, dove dalla forza delle armi di nazioni straniere, che si trassero avanti sostenitrici dell’assolutismo e della tirannide.

 «Dopo un mal principe, lo dì primo è lo migliore: e popolo uscito da abbonita soggezione è sempre poderoso» Così de’ napoletani intervenne. Siccome è indisputato che la terra fu prima degli uomini, sì ad un pari egli è irrecusabile che questi furon prima de’ re. I quali non regnano, in senso astratto, per la grazia di Dio, ch’è ad ogni istante provvidenziale e continuatrice di tutta quanta la creazione, sì bene, in senso concreto, i popoli fanno i re, non questi fanno i popoli. ché ogni popolo naturalmente, e per grazia e destinazione di Dio, è Sovrano nato di sé stesso, ed ha in suo potere il diritto supremo, con antichissima voce italica addimandato imperium, illustrato dal profondo Gravina; voluntatibus et viribus in unum conflatis, publica voluntas conflatur, summaque potestas… IMPERIUM SIVE VIS ET POTESTAS UNIVERSORUM. Ond’è che il Mantovano rammemorava al popolo romano quel famoso; Tu regere imperio populos Romane memento, erroneamente inteso dall’iracondo Astigiano. 11 popolo napoletano ragunatosi ne’ solenni Comizi volle esercitare cotesto suo diritto di sommo imperio; volle rendere Fatto più eminente di sua Sovranità; volle con suffragio unanime, universale votare il Plebiscito del 21 di ottobre 1860. Chi ad altrui si dà a sé si toglie, gli è vero; servati però i patti e le condizioni della volontaria dedizione.

Il Plebiscito fu incondizionato, e così doveva essere, checché altri ne pensi e ne dica. Imperciocché non faceva uopo di condizione alcuna, quantunque volte scolpitamente nella sua formola e nella sua semplice e genuina locuzione, arrecava nitido il concetto e la espressione della volontà popolare. Le province napoletane vollero non altro, ed intesero effettuare niente altro, se non di aggregarsi, di raccomunarsi a formare l’Italia una ed indivisibile sotto lo scettro costituzionale del re Vittorio Emmanuele e suoi legittimi eredi. Tale la intelligenza letterale e virtuale del Plebiscito; e tale fu eziandio l’accettazione di parte del re, che nel decreto del 17 di dicembre 1860 dichiarava le province napoletane formar parte integrante dello Stato Italiano.

Non accade d’intrattenermi da vantaggio su la genesi storica del Plebiscito, che fu non ha guari di tempo maestrevolmente tratteggiata dà egregio patriota e valoroso pubblicista. () A me preme d’investigare il suo progressivo esplicamento, la sua attuazione per far rilucere la verità, che vuoisi desumere da’ fatti compiuti, che dovevan essere legittima, necessaria conseguenza delle idee semplici e limpide attestate dal Plebiscito. Procediamo.

II

Al conte di Cavour, di altissimi spiriti, mente vasta ed ardita, non poteva in vero riuscire gradita la formola del Plebiscito. ché dominato egli dallo spirito di municipio, vagheggiava il pensiere di strappare dalle province napoletane puramente e semplicemente una pronta ed incondizionata annessione al Piemonte. Cavour non amava l’Italia per formare l’Italia; voleva bensì l’Italia, più che per altro, pel suo Piemonte. Questo distorto pensamento, questo ingiusto desiderio era trasfuso, e formava il comun voto del suo Ministero, degli adepti suoi, de’ seguaci e consorti della sua politica, di tutti i così detti Cavourriani, fra’ quali primeggiavano, e mostravansi accaniti gli emigrati napoletani, ligii a lui per larghezza di favori; ché quivi a Torino l’ebbero a protettore, ad amico, a salvatore. Ed è qui che mette capo, e tu trovi le origini di quella infausta consorteria che ha cotanto tribolato, ed ha fatto misero scempio delle province napoletane; consorteria ch’è brutto germe ed amaro frutto di tutte le forme de’ Governi. La camarilla Borbonica non era punto dissimigliante da cotesta consorteria, e produsse all’intristita nazione mali più gravi e peggiori di quelli ond’era oppressa da’ singoli spietati agenti del Governo.

Fallirono le speranze di Cavour, e della consorteria che adoperò indarno sue arti volpine, sue maligne pratiche, affinché il popolo assentisse alla sognata e prediletta annessione al Piemonte. Non per questo però Cavour e la consorteria si scorarono, o si ritrassero dal periglioso disegno. Che monta il diritto! essi dissero, congregatisi a consiglio: se le province napoletane si dettero all’Italia una ed indipendente, le abbia invece il Piemonte. Quella che fu pel popolo volontaria dedizione per l’Italia una, sia tramutata in conquista pel Piemonte. La preziosa eredità, come chiamavala Federigo Svevo, sia raccolta dal Piemonte; e vadino là i Piemontesi a gustare i frutti dolci e speciosi del bel paese, dove, come indicavalo ad Alboino il vendicativo Narsete, latte e mele scorrono in abbondanza. Si dissero, e sventuratamente e pare che riuscissero nell’inconsulto proposito. Funesto scambio d’idee! Funestissime conseguenze di fatti! Se non che, ad omaggio della verità, e par bene dichiarare, che cotesto prestabilito intendimento di Cavour e della consorteria di piemontizzare le province napoletane, avvegnacché a prima giunta sembrasse indurre una contraddizione, non era ingenerato da slealtà, da mala fede contra il principio della unificazione italiana. No certo. Eglino pur sempre vollero, e vogliono con lealtà e di buona fede l’Italia una ed indipendente, ma punti nell’animo dall’amore al Piemonte, che per lunghi dodici anni erasi mantenuto solo, nella italiana penisola, saldo e coraggioso nella lotta de’ principi liberali, e in su la nuova via delle riforme costituzionali, condotti dallo spirito di municipalismo, aspiravano e volevano che il Piemonte tenesse incerta maniera una preponderanza su tutte le province italiane. Ond’è che tutto quello che si è veduto infino ad oggidì intervenire vuol essere scagionato da qualsiasi ombra di slealtà, di mala fede, di avversione all’Italia una, e reputato in vece siccome conseguente da smodato affetto di località, da trasporto ad un municipalismo, che chiamerò irrazionale e traboccante.

Al seguito del Plebiscito, lo Statuto costituzionale del Piemonte fu renduto comune alle province meridionali; si stabilirono la Luogotenenza in Napoli per le province continentali, un’altra in Sicilia per le province insulari; si crearono i Consiglieri di Luogotenenza.

Ed ecco per primo arrivato il Luogotenente dottor Farini, che studiava forse di ridestare le quistioni disputate a’ tempi di papa Giovanni XXII intorno alla povertà evangelica, nello intendimento professato da’ Frati, di sembrar poveri cioè per meglio arricchire e farsi opulenti.

Scomparsa cotesta prima meteora, venne Nigra da’ mustacchi incerati e da’ capelli a ricciolini, il galante diplomatico, che oppresso dal grave incarico del cavalcare e del non far niente, a ricreamento dell’animo vagheggiava la fondazione di un teatro privato entro l’aurata magione che abitava.

Pur cotesta meteora si dileguò; e sopraggiunse, terzo tra cotanto senno, il San Martino, che piacevasi de’ dolci, pacifici conversari, mantenitore inflessibile del quietismo, dell’inerzia, e dell’indugio. Fu pur meteora che disparve.

Or la missione de’ Luogotenenti piemontesi, di questo stampo e di tempera cotanto forbita, rileva a prima giunta l’intendimento ad ingiuria del popolo napoletano, ed il primo gravissimo errore in che scientemente incorrevasi. I Proconsoli Romani andavano spediti a’ popoli vinti e conquistati; non fu mai che restassero prescelti tra cittadini delle sommesse province e regioni. La Spagna nel lungo periodo della sua dominazione, di nefasta memoria, sul reame di Napoli, spediva Luogotenenti e viceré Spagnuoli; e di sessanta che l’un l’altro si successero dal 1503 al 1734, ne conti appena tre, o quattro che volsero sguardo alla prosperità nazionale, e tutti gli altri versarono a smungere ogni ramo, ogni produzione di ricchezza pubblica, a ridurre la nazione, inesorabilmente oppressa e travagliata, allo estremo della miseria e della disperazione.

Si vuol quindi interrogare, per quale consiglio di assennata prudenza, d’intransigibile necessità spedire a Napoli Luogotenenti piemontesi, che niente potevan sapere, e niente seppero, degli andamenti civili e municipali delle province napoletane, niente conoscevano degli ordinamenti amministrativi, niente del personale dei pubblici uffiziali, niente delle pratiche, delle abitudini, delle simpatie, delle tendenze del popolo? Forse non pur un solo patrizio, un solo cittadino, dall’universale riverito ed onorato, poteva ricercarsi, od esisteva in Napoli, fornito di capacità, di probità, di patriottismo, di attaccamento alla causa italiana, cui avesse potuto commettersi l’alto, difficile uffizio di Luogotenente, sì che avesse meglio potuto tenerlo, e rispondere assai meglio alle esigenze del popolo, alle vedute del Governo? Dunque i napoletani eran popolo di conquista per essere esclusivamente e necessariamente governati e retti da altri non già, tranne da Luogotenenti piemontesi.

E che cosa vollero, o seppero fare cotesti illustri signori, cotesti egregi e dotti Luogotenenti? A vece di governare con giustizia, con avvedimento, con imparzialità, si lasciarono essi medesimi governare alla balia di altrui; si abbandonarono ciecamente a suggerimenti, a consigli, ad influenze, ed anco a blandizie adulatrici di certuni; e quindi la cosa pubblica andò in tutte parti scompigliata; il disordine signoreggiò in tutti i rami dell’amministrazione; l’arbitrio e la prepotenza presero posto della legge e della giustizia; l’erario pubblico spremuto e depauperato; il popolo reietto, non considerato, non favorito, oppresso dalla miseria, ed angosciato nel cuore querelarsi indarno di sua mala ventura. A dir breve, i Luogotenenti piemontesi niente, assolutamente niente oprarono di bene: non risposero alle esigenze d’un tempo fortunevole per transizione politica, per aperte reazioni, per occulte trame e cospirazioni, minaccioso di più terribili turbazioni: non si mostrarono né forti, né sapienti, né proporzionati ad asseguire lo scopo della loro altissima missione; non conobbero, e non provvidero a’ molti e veri bisogni delle province napoletane; non arrecarono menomo conforto, non suffragarono a’ mali vecchi annestati a’ bisogni nuovi, restandosi appagati, od almeno spettatori indifferenti davanti al mal contento, allo sgomento che veniva tuttodì allargandosi, penetrando negli animi di tutte le classi de’ cittadini di qualsiasi colore, e d’ogni partito.

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III

Peggiori di gran lunga riuscirono alla prova i Consiglieri di Luogotenenza, poscia trasformati in Segretari generali de’ Dicasteri.

Del che meno vuol essere accagionato il Governo, quanto essi medesimi i napoletani. I quali accennando di buona fede alle sofferenze durate da una classe di liberali, alla loro invitta costanza ne’ principi professati, da ciò inferivano o per illazione, o per necessaria conseguenza, che cotesti, né altri, potessero essere gli uomini promovitori d’ogni bene di popolo, molto adatti a governare con giustizia e con prudenza. Innocente inganno! ché non erano eglino, salve alcune eccezioni, gli uomini provati per sperienza dell’età, per dottrina, per saper civile, per prudenza governativa; erano ambiziosi che agognavano al potere; erano sì martiri della libertà, ma col pingue stipendio sospiravano di ristorarsi da’ travaglie dalle pene durate; lusingandosi eziandio che il martirio ed il colore politico, a maniera di talismano misterioso, fossero bastevoli essi soltanto ad infondere sapienza civile, a formare gli uomini di Stato, i moderatori delle sorti di un popolo.

V’ha certuni oggidì, e ce n’ha buon numero, gretti declamatori in generale, cianciatori, ad arte o per natura, di fole e di utopie, meschini dottrinari, i quali non appresero che le teoriche dottrinali non sempre ben si confanno a’ fatti governativi; che la sola dottrina ella è merce sterile ed impotente a condurre un Governo; che il governare è un fatto, e perciò arte difficile, non scienza, abbisognando di tatto dilicato, di riposato consiglio, di matura sperienza, di assennata prudenza.

Tacendo di altri che non osò di fare, che non fece a pubblico danno un solo per fatti egregi notissimo? Burbanzoso, dispotico, come ne avea già date aperte pruove tra’ suoi compagni medesimi ne’ luoghi di dolore e nell’esiglio; digiuno di eletti studi, e non di altro mediocre coltore, tranne della bizzarra arcana parte della filosofia moderna, l’estetica, nutriva la matta presunzione lui essere il solo sapiente tra’ napoletani lui essere il solo che sapesse reggere uno Stato, lui solo egregio facondo dicitore, forbito scrittore, lui solo degno e meritevole di governare le province meridionali.

Nemico implacato, pria occulto, di poi aperto, di un suo collega, riuscì a soppiantarlo, e si trasse d prendere codarda vendetta fin contra gli amici di lui. Arbitrario, com’era, ebbe l’arte ed il destro di circondarsi dall’un de’ lati di un personale di uffiziali, creazione novella, molti Piemontesi e Cavourriani con largo stipendio; altri, salve le eccezioni, senza titoli, senza merito, senza nome; altri spietati Borbonici per l’addietro, fatti di presente liberali per azzardo per condotta, o per finzione; e dall’altro facea le viste di carezzare con famigliarità e dimestichezza una torma di facinorosi, scrocconi camorristi, che a maniera de’ famigerati Bravi della sospicciosa Venezia stessero parati in qualsiasi congiuntura a guardargli bene le spalle. I quali tutti si mostravano paurosi, né osavano di profferir Verbo davanti al loro Nabucco dai piè di creta e dalla testa d’oro.

Lo Statuto e la legge furono per lui nomi vani sanzioni effimere, illusorie. Le supreme guarentigie politiche, la libertà individuale, la inviolabilità del domicilio, furono per lui impunemente violentate. Co’ metodi tenebrosi dell’abbominata Inquisizione Veneta e del Santo Officio, senza riguardo a precedente condotta, a merito scientifico, a servigi renduti al paese ed alla causa italiana, senza chiamarli a preventiva giustificazione, siccome legge e giustizia universale impongono, revocò a propria balia pubblici uffiziali. godenti il suffragio e la estimazione dell’universale, o perché non incontrarono la simpatia, né seppero piegarsi alla sfrenata boria di lui, o perché accagionavali di spigolate incolpazioni, lasciate sepolte nel più profondo, misterioso segreto.  Per siffatta maniera scrutatore anatomico della festuca negli occhi di altrui, senza vedere la trave che sovrastava a’ suoi, rinnovò i brutti tempi insidiatori delle condanne Fiorentine, quando un iniquo Potestà, Cane de’ Gabrielli da Gubbio, non risparmiò fra gli altri dal condannare ingiuriosa mente, come colpevole di baratteria nell’uffizio di Priore (), il tipo della nazionalità italiana, il promulgatore della rettitudine sociale nel secolo XIV lo iniziatore di tutti i risorgimenti d’Italia, Dante Alighieri, che esulava dalla patria sdegnato contro la malvagia e scempia compagnia, e che non avrebbe dettate le sue Cantiche immortali se non fosse stato per tutta sua vita signoreggiato nell’animo da due prepotenti passioni; amore e patria.

Favorì il mal vezzo cotanto àbborrito nel governo de’ Borboni, che ogni uffiziale cioè prediletto al moderatore, cacciasse innanzi ad eleggere, od a promuovere i propri congiunti. Il perché, perpetuando quel vituperio, vedesti di nuova creazione collocati in uffizio e fratelli, e cognati, e propinqui, ed affini, ed amici degli uffiziali dicasteriali collaboratori e diletti all’uffiziale supremo.

Che più! Emulando all’assolutismo dei ministri Borbonici, offri lo spettacolo affatto nuovo e ne’ governi liberali e negli assoluti, di trincerarsi chiuso, inaccessibile a chicchessia, dove in due Dicasteri, barricati di suo ordine, si che ad ogni cittadino restò divietato di penetrarvi entro, dove nella propria casa, circondata e tenuta a guardia dai suoi fidati. Ed un più brutto spettacolo offerse quando fatto ornai segno al biasimo ed alle popolari censure, non se ne mostrò menomamente turbato o dolente, ma saldo, fermissimo mantennesi al potere ad insulto della opinione pubblica, mentre di comun voce con aperte, prolungate, tumultuose manifestazioni era imprecato, gridato e ricercato a morte, scacciato di seggio. Mantenersi al potere senza trepidazione a ritroso del suffragio popolare ne’ governi liberali non rileva argomento di coraggio civile; è in vece gran segno certo di smania sfrenatissima, di smisurata ambizione che abbuia l’intelletto, e corrompe ogni virtù del cuore.  .

Ammiratore esagerato delle sole leggi del Piemonte, concentrò il suo potere, e sfrenatamente pose l’animo ad attuare a Napoli la legge Piemontese su la prostituzione, intimando alle povere meretrici la più violenta, implacata persecuzione. Ed in qual tempo? Ne’ giorni di confusione e di trambusto, quando la Capitale era ingombra è. piena zeppa dell’armata Garibaldina, e delle milizie Piemontesi, che di fresco arrivate, come interviene in simiglianti congiunture, facevano orrendo baccano, tra le orgie notturne, traendo a sfogar con quelle che fan copia di se la smaniosa brama troppo a lungo repressa. Cosi ei tolse a diletto l’ignobile gloria di rendersi persecutore inesorato di quelle, che nell’ordine della creazione voglion essere reputate creature reiette e sventuratissime. ché l’umanità pietosa non può avvenirsi in tutto quanto i| creato in un essere più meritevole di compianto e di commiserazione, quanto la. fanciulla infelice, che condotta al doloroso passo di far per mercede vituperoso mercato della propria carne, dee allo spesso patire le turpezze oltraggianti de’ raffinati piacentieri, satisfare ogni voluttuosa voglia di cupidigie lascive, e di bestiale libidine de’ temuti violentatori, e degli avventori affatto ignoti e sconosciuti.

La legge su la prostituzione pertanto parve buona a cotesto funzionario, perché presso noi, ed in tempi liberali, rinnovava la svergognata gabella su le meretrici, imposta con la Prammatica del 1589, che restò poi affatto abolita a’ tempi popolari di Masaniello; e mirava inoltre all’utilissimo scopo di guarentire la salute pubblica. Se non che il morbo contagioso, deridendo alla legge, non cessò, proprio in que’ giorni dell’attuazione, dal diffondersi fuor di modo, e corse voce fondata che giungesse financo a penetrare in aule altissime ad occhio volgare inaccessibili. Il perché la nuova legge su la prostituzione in poco d’ora restò presso che negletta ed obsoleta; ed i postriboli, i bagordi, le dame dalle camelie, le donne di pietra continuarono a moltiplicare: a prosperare, ed a fruttare al paese, meglio che per l’addietro, il mal seme recatoci in dono da’ francesi condotti dall’invasore Carlo VIII, Col suo governo inconsulto cotesto uomo turbò le province napoletane con mali e danni inenarrabili, di funesta e durevole ricordanza. ché mentre a pretesto per mantenersi nell’assoluto potere facea sembianza, e lasciava intendere di aver tra le mani le fila di cospirazioni e di reazioni, imitatore anche in questo della cupa, malvagia politica dei ministri del Borbone, baloccando poi e celiando non porgeva orecchio, e dileggiava alle premure incessanti de’ Governatori delle province, che pressavano immediato, sollecito, poderoso soccorso per combattere fe’ refrenare orde devastatrici di scellerati briganti, e di disperati reazionari, che guastavano all’intorno, e ponevano case e paesi a saccomanno, taglieggiavano i cittadini, uccidevano, spogliavano, commettevano ogni inaudito eccesso di crudeltà, di rapina, di spogliamento. Per siffatta maniera il brigantaggio, per colposa inerzia di lui, ingrossò in tutte parti, si dilatò a tribolare le province, e mancò poco non penetrasse ordinato ed armato entro le mura della stessa Napoli.

Giustizia di Dio se tarda, arriva. Quest’uomo fu revocato; cadde dall’agognato potere, lasciando di sé fama ingloriosa, indi che all’annunzio di un enorme misfatto, ond’era funestata la Capitale, gli sguardi dell’universale ebbero ad intravedere, per le origini del reato, riverberata una fosca luce, ond’era la fronte di lui ottenebrata; tanto è vero che gli eccessi son quelli che fanno spiccar più chiara la natura d’ogni uomo.

Gli fu dato successore.

L’intristito popolo auguravasi speranzoso che alcun bene tornasse alla pericolante, sbattuta nave governativa, per cotesto nuovo che toglieva ad un tempo gli uffizi di timoniere, pilota, e nocchiere. Fallace speranza! Vana lusinga! Il successore pur d’ambizione tinto, pur della consorteria socio e confratello, non potea mentire a sé stesso.

Laonde, Giano bifronte dell’antichità, raccolse avidamente il retaggio, e fecesi fedele esecutore de’ legati scritti nel testamento lasciatogli dall’antecessore. Lo Statuto e la legge restarono nelle congiunture spreti e vulnerati come per l’innanzi; i novelli uffiziali Dicasteriali pur restarono mantenuti, carezzati, riguardati; e l’arbitrio detestevole, l’ingiuriosa deferenza furon veduti tutto giorno vie meglio consolidarsi nel trattamento de’ pubblici e privati interessi. Facea d’uopo pertanto che la nazione, avvegnaché disingannata nelle concepute speranze di trovare sorte più avventurosa, trovasse almeno a notare alcun carattere differenziale trai passato ed il presente, tra l’antecessore e il successore. E bene! Quest’ultimo primamente ebbe a grado di redintegrare due soli tra gli uffiziali già revocati dal dispotico antecessore. Fu un tratto di giustizia, gli è vero, che quelli meritavano, e che egli rendeva; ma corse voce che non fosse affatto scevera, e pur la dettasse paura; ché i due avean fama di maneschi, e cotesto reggitore supremo, malgrado l’altezza dell’uffizio, ebbe a temere non gli conciassero pessimamente le spalle.

Secondamente per tener a bada l’oste e l’avventore, il savio e lo scemo, il ricco ed il povero, il nobile ed il plebeo, il liberale ed il borbonico, il conservatore ed il progressista, tolse egli a regolo de’ provvedimenti il mal consiglio dall’astuto Guido di Montefeltro donato al magnanimo peccatore, a Bonifazio VIII, per far domata la temuta ostile possanza de’ Colonnesi; consiglio malaugurato e detestevole che l’ira traboccante dell’Alighieri tramandava a posterità nella Cantica dell’Inferno:

Lunga promessa con  l’attender corto.

Nella quale sentenza non si scopri da meno di Bonifazio, ed egregiamente riuscì quest’uomo. E ciò basti di lui.

Tali furono due moderatori usciti dalla consorteria. E ciò voglio aver detto un po’ a lungo a certuni, affinché sappiano che come nella società l’odio pe’ delitti vive eterno, così ne’ governi la contumelia inesorata de’ popoli sovrasta, e pur vive eterna, agli ambiziosi, tristi reggitori della cosa pubblica. Che se per avventura fosse sfuggita alcuna parola che potesse parere vibrata, mi si perdoni! Fu zelo e non malizia; fu amore di patria, e della verità; ché io dissi per ver dire, non per odio di altrui, né per dispetto. 

IV

Il mal governo, i coverti malefizi i soprusi, i guasti e le rapine del brigantaggio, le mene de’ cospiratori e de’ reazionari, la miseria tuttodì crescente, la sicurezza interna insidiata dalle aggressioni e da’ furti, consigliati in gran parte dalla fame stimolatrice e dal disperato bisogno; il commercio infiacchito, sfiduciato; ogni ramo d’industria prostrato, invilito; la mancanza del lavoro agli operai; la finanza pubblica istecchita, assottigliata; da ultimo la trepidanza dell’avvenire, tutto questo treno di mali, tutte queste piaghe sociali, avvegnacché penose, possono essere, fino ad un certo punto e per qualche tempo, comportevoli a’ patrioti, agli: onesti liberali, ad uomini assennati, punti dal convincimento, che ogni simigliante gravezza, ogni pubblica afflizione, ella sia sempre da meno, e vuol essere pacificamente accettata a raffronto del detestevole dispotismo, della ignominiosa servitù sotto un aborrita dinastia, dalia quale si è rimaso redento; che le oscillazioni, e gli errori governativi sieno compagni inseparabili de tempi di politiche transizioni, né si possa di subito entrare in via normale e duratura degli ordinamenti civili; che non abbiansi a frammettere ostacoli, e debbasi tener fermo al principio, ornai invulnerabile, della unificazione ed indipendenza d’Italia; che da ultimo le attuali diuturne sofferenze della generazione contemporanea sieno modi da preparare e far conseguire un avvenire prosperoso e lieto a’ più lunghi nepoti.

Coteste magnanime e generose considerazioni però non entrano in mente popolaresca; non suonano alle masse ignoranti. Il popolo, di sua natura leggiero e volubile, di spettacoli ingordo, secondo la frase del Davanzati, o asso o sei, vai dire non ha mezzo. Il popolo vive dì per dì, né altro pubblico pensiero ha che del pane; innegabile avvertenza dello Storico filosofo. Laonde il popolo, più arrogante se digiuna, s’irrita, ringhia, e morde brontolando in palese, ed in segreto, senza riguardare a sue sorti venture, a suoi migliori destini, quantunque volte vedesi spreto ed avvilito, e, facendo raffronto trai passato ed il presente, non trova materialmente immutate in meglio le sue condizioni.

Or che avvenne delle province meridionali?

Fu ferma fama che gli stessi emigrati napoletani, non so ben dire se per maligna avventataggine, o per slancio indomito del proprio orgoglio, ma certo per richiamare a sé esclusivamente tutta la benevoglienza del Governo, per concentrare il potere, per trovare appoggio e difesa reciproca nell’alterna fortuna eiloti, cretini, mancanti d’ogni sapere, non idonei a pubblici uffizi, senza capacità, senza merito.nella dubbiezza degli eventi, eglino i primi avessero colà a Torino dinunziate e dipinte le province napoletane siccome popolate d uomini gretti, meschini,

Il Ministero avea sfolgorate ripruove, storiche e permanenti, della tempera intellettuale, eccellente e sopraffina, de’ napoletani in tutte branche del sapere umano, sì da non aggiustar fede a quelle mendaci dicerie; ma deliberato com’era nell’animo fu rinvigorito, pur è fama, da quelle voci denigranti, ad arte inventate e sparse, e lietamente restò fermato l’accordo di collocare in uffizio i piemontesi a Napoli e nelle province.

Di qui sopravvenne quell’elemento specifico piemontese, ond’è stata preoccupata l’opinione pubblica; quel piemontismo, di cui fu scritto giudiziosamente, che formando una triste attualità, tanti dolori ha cagionati, tante speranze ha tradite, tante passioni ha suscitate da far credere di essere spinoso tema presso che impossibile a trattarsi con serena calma, e senza taccia di municipalismo. Gli uffizi pubblici, e quegli altri dipendenti dal Governo furon largiti a larga mano a piemontesi in tutte le branche dell’amministrazione pubblica, in tutte le gerarchie dal sommo all’imo, il Governo delle province, ed altri uffizi provinciali, anche nella maggior parte, vennero a piemontesi affidati. Non basta. Piemontesi d’ogni ordine, d’ogni età, d’ogni condizione, d’ogni arte, o mestiere; uomini, femmine, fanciulli trassero a Napoli, come al conquisto di terra promessa: e tu avrai a maravigliare se ti prenda vaghezza d’incedere a diporto favilla pubblica; la vedrai presso che popolata e lietamente passeggiata, e ti verrà fatto di udire non altro dialetto, tranne il piemontese, si che tu dubiti se ti trovassi realmente in questa parte meridionale d’Italia. Non basta ancora. Al conducimento ed al lavoro delle pubbliche opere furono allogati artefici senza numero, artieri, ed operai piemontesi; e quanto a donne, e direttrici de’ Conservatori, ed institutrici elementari delle fanciulle, ed altre addette agli stabilimenti pubblici, alle case de’ trovatelli, tutte vennero di Piemonte.

Cotesti impieghi all’arrembaggio per cupidità di lucro più che di fama, il favore illimitato, l’odiosa preponderanza, il portamento in certa maniera borioso de’ piemontesi non potevano non ingenerare necessariamente negli animi una bruttissima impressione, un fondato spiacimento, un riposto rancore. Ed in vero non poteva fra l’altro non muovere a disdegno, avvegnacché importasse una traboccante ingiuria, vedere la reggia de monarchi delle due Sicilie. vetusta e splendidissima, tramutata in albergo, dove, senza mercede, prendevano stanza agiata e gradita, a lor balia e piacimento, cotesti nuovi impiegati venuti di Piemonte, i meno forniti di merito e dignità. Il popolo detestava si gli uomini che aveano abitate quelle aule, celebratissime per magnificenza artistica, doviziose d’ogni genere di capolavori dell’odierna civiltà, ma era geloso ragionevolmente, e volea rispettato un edilizio di storiche ricordanze, un monumento addivenuto ornai nazionale, in simil guisa bruscamente oltraggiato da impiegati, cui non poteva mancar modo di provvedersi d’un modesto ostello. Grazie al prode Cialdini che riparò con la espulsione e col divieto al nazionale oltraggio.

Per la qualcosa la spedizione a Napoli degli impiegati piemontesi rilevava apertissimo un tal quale disegno ostile, ed un errore governative. Rilevava disegno ostile, perché gl’impieghi a larga mano conceduti, ed il collocamento senza fine dei piemontesi era gran segno certo ohe le province napoletane fossero destinate a fornire il miglior vantaggio al Piemonte, la maggiore agiatezza a’ piemontesi. Rivelava errore governativo per due irrecusabili cagioni.

L’una (che è più) che non era consigliato dalla prudenza civile, dalla imparziale giustizia, che mentre i napoletani oppressi dal governo Borbonico per odiose privative d’impieghi a vantaggio de’ favoriti soltanto, e de’ partigiani dell’assolutismo; mentre gli artieri e gli operai gemevano angustiati in cerca di pane e di lavoro, senza trovar modo ad esserne provveduti, comeché col risorgimento italiano si destasse loro negli animi la speranza e la certezza di fortuna migliore, vedevansi non di meno egualmente reietti, di speme nudi rincacciati inesorabilmente, come per l’addietro, ne’ dolori della fame e della miseria.

L’altra, (che è peggio) che gli alti, o bassi funzionari piemontesi, avvegnacché fossero stati tutti quanti cima d’uomini e d’immenso sapere forniti, non potevano in vero asseguire lo scopo di reggere e condurre convenevolmente la pubblica amministrazione, per invincibile necessità di non poter sapere ben addentro le esigenze del popolo, e gli andamenti della cosa pubblica.

Il governo delle province segnatamente confidato a’ piemontesi non potea non riuscire fuor di modo pregiudizievole alle popolazioni. E come no! Che cosa ad esempio, potevano saperne in teorica, e molto maggiormente in pratica, i Governatori che furon successivamente mandati ad amministrare la Capitanata delle svariate vicende, e dei provvedimenti reclamati ed opportuni a migliorare le condizioni, e l’azienda del Tavoliere di Puglia? Che cosa potevan eglino intendere del tecnicismo delle voci e delle denominazioni usate in quelle contrade, de’ metodi speciali di coltura, delle pratiche agricole pugliesi, della nomade pastorizia degli Abruzzi?

Da vantaggio i governatori provinciali venuti di Torino giugnevano ignari affatto del personale degli uffiziali di loro immediata dipendenza, degli agenti municipali, d’ogni classe de’ cittadini abitanti i Comuni. Di qui l’imperiosa necessità di affidarsi alla scorta ed a’ consigli di altrui: di qui non che la pessima amministrazione provinciale e comunale, ma ben ancora l’aggravio e lo scontento delle popolazioni a cagione delle matte gelosie municipali, dell’influenza conculcatrice de’ trapotenti e de’ ricchi, delle vendette private in tempi di transizione politica, e pur di altre simiglianti anormali gravezze, che un buon amministratore, per propria cognizione, senza richiedere a chicchessia suggerimenti e consigli, dee tenere rimosse, o dee spegnere per promuovere e formare la prosperità della provincia, ed il benessere individuale e collettivo degli amministrati.

Non rimarrò dal dire che ad aperta significazione della soggezione delle province napoletane al Piemonte, non fu risparmiato dal provvedere che le produzioni, ed alquanti articoli, avvegnaché poverissimi di guadagno, ma che lavorati a Napoli recavano in certa maniera alcun profitto agli artieri napoletani, questi eziandio di Torino venissero per essere belli e forti posti in commercio. Cosi di là, come corse voce, vennero spediti i pennacchini da servire alla Guardia nazionale napoletana; vennero certamente financo i miserabili bolli postali.

Ma qui certuni pubblicisti novissimi del diritto internazionale Europeo si cacciano in mezzo obbiettando magistralmente, le cose dette avanti essere ciance canore, lamentanze spigolate, querimonie calunniatrici di pochi scontenti «Il sistema adottato dal governo centrale, essi dicono, a riguardo delle province napoletane è conseguenza logica, indeclinabile del Plebiscito: l’Italia una ed indipendente ha dovuto formarsi, né poteva essere altrimenti formata, se non con la fusione delle province, con la unificazione de’ principi, con la promiscuità degl’impieghi: non ci ha perciò motivo a doglienza; tutto è normale; tutto procede prosperamente in armonia dello scopo sospirato, di quell’unico principio che vuol essere attuato; Italia una ed indipendente».

Bene sta, rispondo io. Ma, s’è lecito osservare, dico esser vera la dottrina, falsa, falsissima la conseguenza. E che ciò sia, non è da rivocare in dubbio, sol uno essere stato il voto sospirato da ogni anima italiana, il lungo desiderio d’ogni buon patriota, sola una la speranza onde sono stati lungamente confortati, a fronte de’ patiboli, de’ cruciati, dell’esilio, di pene inenarrabili, tutti gli onesti liberali, gli avversatori magnanimi del dispotismo e della tirannia, l’unificazione d’Italia, la formazione di una grande e generosa nazione sotto lo scettro di un re costituzionale. Fuori però le immaginose utopie, le illusioni fatali che uccidono la realtà, fanno abortire le più belle e nobili intraprese, fanno abbracciare la nube per Issione, ella è crudel necessità dover di buona fede e conscienziosamente confessare, l’Italia una ed indipendente non ancora essersi formata, la grande nazione italiana non essere ancora costituita. Il nuovo regno italico, qual debbe essere, e qual è naturalmente per sua geografica positura, non ancora esiste. Egli è questo un fatto indisputato e certo, siccome ognun sa, e toccherò a suo luogo.

L’Italia nelle odierne condizioni degli antichi e de’ nuovi reami dell’Europa non può indietreggiare; l’Italia si formerà incontrastabilmente; il regno italico dee risorgere circondato di tutta la vetusta sua gloria, poderoso della prisca potenza italiana. SI, l’Italia, col favor di Dio, deve essere Italia; né forza umana, né le porte d’inferno prevarranno contro di lei.

Ma se l’Italia non è per anco formata, bensì dee assolutamente formarsi, da questo fatto sorge invitto ed incrollabile il dilemma. Delle due l’una. O le condizioni civili, amministrative, economiche, delle province napoletane (chè quanto a condizione politica formano già parte d’Italia per effetto del Plebiscito) dovevano mantenersi nello stato come trovavansi, e man mano, secondo che consigliavano il tempo e le occasioni, modificarsi, aggiustarsi, conformarsi ad un sistema organico di unificazione per tutta quanta Italia, o dovevano livellarsi, senza ombra di supremazia, di preferenza, di privilegio, di dilezione, ad una medesima identica condizione tutte le città, tutte le province dell’odierno reame italiano. Epperò Torino doveva assomigliarsi a Napoli, a Palermo, a Firenze, a Milano, a Bologna; le province piemontesi dovevan essere niente da più delle altre di tutta Italia, salvo qualche osservazione che verrò appresso sponendo relativamente a Napoli.

Or se nello stato attuale del reame d’Italia, indubbiamente si è adottato il sistema di struggere e divellere di subito, e d’un sol colpo, ogni ombra di autonomia delle province napoletane, di smettere ogni antica forma governativa, di tutto concentrare a Torino, di sommettere, senza riserva veruna, Napoli a Torino, le province napoletane al Piemonte, da ciò io dico, e fermamente sostengo, che il governo centrale sbagliò l’indirizzo, peccò diurnissimo fallo, quello appunto di aver cominciata e compiuta erroneamente una riforma intempestiva, inconsiderata, che dovea per opposito essere l’opera progressiva del tempo, e del saldo stabilimento del reame d’Italia una ed indipendente. Il Ministero, a mirar bene, non può evitar la nota di avere, senza maturo consiglio, senza politico avvedimento, cominciato là dove dovea terminare.

E qui non posso tenermi dal riferire di essermi sembrata sottile ed ingegnosa men che salda la differenza che si è posta in mezzo, di un piemontismo ottimo cioè, e di un piemontismo pessimo; esprimente il primo l’elemento nuovo italiano, il secondo l’elemento retrivo e reazionario, che pur esiste e vive nel Piemonte, come in qualsiasi altro paese d’Italia. Che se dunque in tutte parti ci hanno i buoni ed i cattivi, i liberali per l’Italia una, ed i reazionari ed assolutisti, da ciò conseguita che la differenza, dianzi cennata, di cotesto piemontismo non induce che il personale piemontese, ossia il piemontismo ottimo avesse dovuto traportarsi presso che ad assorbire ed impossessarsi degl’impieghi nelle province meridionali.

L’elemento nuovo, o italiano, doveva fondersi nelle province napoletane; egli è questo un vero indisputabile: l’elemento vecchio, tutto quello che parteggiava di assolutismo doveva necessariamente restar rimosso, ma cotesto elemento nuovo facea d’uopo con ispecialità ricercarlo, per essere surrogato da’ napoletani; ché in Napoli e nelle province si hanno abbondevolmente liberali italiani, senza dei quali non sarebbe stato il Plebiscito votato. Non ci era necessità d’introdurre nell’amministrazione napoletana l’elemento italiano col mezzo del personale piemontese.

La quale necessità, se voglia sottilmente esaminarsi la quistione, era suprema ed assoluta ne soli funzionari delle alte sfere governative, ne componenti il Ministero, che dovevano individualmente e collettivamente esprimere e rappresentare il nuovo elemento italiano; non mai però con animo pacato e puro di preoccupazione, di municipalismo potrebbesi consentire a cotesta necessità anche negli ultimi e più bassi uffizi, i meno dignitosi ed autorevoli, attribuiti a’ piemontesi con preponderanza, e senza giusta proporzione a raffronto dei napoletani.

Ma posta, anche la necessità inesorabile di doversi raccomunare tutti quanti gl’impieghi, non par disutile di notare che cotesta necessità, convenienza, o politica che sia, andava intesa con discrezione; dovevasi almeno mantenere una proporzione discreta, approssimativa, per dar. bando ad ogni idea di preponderanza, di privilegio, e far scemate le brutte prevenzioni, producitrici sempre di gelosie e di rancori. Se le province piemontesi, a mo’ di esempio, esprimono una cifra come quattro, e le napoletane un’altra come nove, ogni buona norma direttiva consigliava, che se a Napoli dovevan mandarsi tramutati quaranta piemontesi, quivi a Torino per necessità di giustizia dovevan chiamarsi a collocamento novanta napoletani.

Non è andata a garbo l’osservanza di questa naturalissima proporzione; ed a vece di accettare la ragion diretta si è voluto attuare la ragione inversa, vai dire, cento e più che cento impiegati spediti a Napoli, dieci chiamati a Torino.

E poi, che cosa han di comune con gli uffiziali pubblici gli artefici, gli operai, gli artieri, ogni classe e condizione di popolo? Ite a Napoli, par che quivi a Torino si dicesse, e troverete pronto e parato collocamento nelle opere e ne’ lavori pubblici, nelle ferrovie, nella fabbrica de’ tabacchi, nelle dogane, ne’ municipi, negli instituti di Beneficenza, tra le guardie di pubblica Sicurezza, e via dicendo in tutte le officine, in tutte le instituzioni per conto, o dipendenti dal Governo. De’ popolani napoletani, malgrado la pressura della miseria, niuno si è avviato per alla volta di Torino, né è da credere che avesse per avventura trovato molto benigno accoglimento. Qui, com’è chiaro, non ci ha elemento italiano, non ci ha elemento nuovo da fondere ed accomunare. Fu in vero sfolgorata ed inconcussa verità quella non ha guari di tempo da valoroso pubblicista annunziata, e che vuol essere pienamente assentita, che il piemontismo ottimo cioè, considerato siccome l’idea nazionale ed italiana sostenuta dall’elemento nuovo, non sia quistione di provincia, ma di principii e di nazionalità. E per ciò appunto, io soggiungo, che ella è una quistione di principii e di nazionalità, facea mestieri di essere rimandata a proprio tempo, di essere ben addentro meditata e discussa, sommessa all’autorità dei Parlamento, giudicata e confortata dalla forza costante dell’opinione.

Per la qual cosa la politica ministeriale in proposito non può sembrare laudevole a chicchessia; o noti fu opera di saggia amministrazione: ella ebbe in vece la fisonomia imitatrice de governi stranieri, quando con le armi temute signoreggiano popoli asserviti e regioni conquistate. Niente diversamente praticò la Spagna nel reame di Napoli, attribuendo impieghi a’ suoi spagnuoli che rovinarono in tutte branche la pubblica amministrazione; e nella decennale occupazione francese pur la maggior parte degl’impieghi fu largita a’ francesi. Ma di poi che l’infelice Murat, condotto dalla mala sorte agli orli del precipizio, al tramonto della corta signoria, tentò di ammendare i fatti, complessi, dispogliando d’impiego i suoi francesi, allora, intolleranti più a lungo, i napoletani ripeterono indegnati «É troppo tardi col Roman rispondo».

Nè rileva tener fermo e trincerarsi nella obbiezione contra il fatto permanente di un piemontismo preponderante e trasmodato, che sia esso effetto necessario dell’annessione all’Italia una, sia legalità conseguente dal Plebiscito. No, rispondo io. Cotesta legalità può parere a qualcheduno niente dissimigliante dalle malizie de’ triumviri, rammemorate con orrore dalla storia, voglio dire, che per mandare al supplizio un fanciullo, il vestiron di toga virile, dicendo, sia dell’età dispensato; ed in altra. congiuntura per far donna la vergine, la figliuola di Seiano, idonea allo strangolo ed alle Gemonie, dissero, il manigoldo col cappio a cintola, pria la svergognasse, poi la uccidesse. Bella legalità per far sembianza di non turbare la legge! Via, si faccia senno una volta. Si ponga modo alle esorbitanze: si usi almeno moderazione: l’intemperanza in tutte cose è perigliosa. Il popolo, le masse formano giudizio dalle apparenze, senza ricercar delle origini e delle cagioni, senza porre calcolo né gli eventi attuali, né l’avvenire. Si procuri che i buoni e liberali napoletani, mentre abborriscono a’ protervi Borboni, e veracemente han sospirato, e si sono congiunti a formare la unificazione d’Italia, non abbiano ad assomigliarsi al misero Fedria, in Terenzio, che avendo perdutamente amata la sua donna, indi che avvidesi di essere da lei ingannato, andava sciamando per la doglia insano: 0 indegna tristizia! ora sì che mi avveggo lei essere scellerata, ed io infelice. M’incresce, e pur ardo di amore; e prudente, consapevole, veggente, perisco vivo; né so che farmi ().

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V

Ognun sa che rilevasse anomalia politica, contraddizione intransigibile la coesistenza di autonomie locali in reame unico, individuo. Una sola ella è, e debbe essere la suprema autonomia, che va esplicandosi da un potere centrale direttivo, che tiene a sé subbietti tutti i poteri subordinati. Egli è pur notissimo che il principio di centralizzazione assoluta del potere, principio falso e sempre incompiuto, vuol essere risguardato siccome un attentato permanente al diritto di associazione, ch’è base e fondamento d’ogni sistema di pubblica amministrazione, d’ogni bene di popolo; il che agevolmente si ritrae dalle costituzioni politiche di tutte le nazioni.

La legge di associazione è quell’una che tutti abbraccia gl’interessi sociali nelle due grandi precipue branche, d’interessi materiali, e d’interessi intellettuali. Di qui l’assioma fondamentale nella monarchia rappresentativa; al paese l’amministrazione, al re il governo. Di qui la necessità di combinare le specialità amministrative con l’unità legislativa, le libertà locali col potere centrale.

Dalle quali dottrine conseguita innegabile nell’applicazione, che l’autonomia napoletana riusciva incompatibile, e dovea perciò spegnersi, e rimanere scrollata col risorgimento e la formazione del reame d’Italia; che il potere centrale direttivo, che tiene a sé subbietti i poteri subordinati, dovea incontrastabilmente aver sua sede nella capitale d’Italia; che l’unità legislativa dovevasi attuare col debito riguardo alle specialità amministrative delle province napoletane; che il potere centrale dovea largheggiare di protezione e di favori per far rifiorire, fondare e promuovere le libertà locali; che da ultimo la legge di associazione doveva esser largamente incorata e protetta, sì da toglier essa una giusta e legale preminenza rispetto ad un potere illimitato di centralizzazione, che in qualsiasi maniera potesse destare apprensioni, od aver l’aria e le apparenze di assolutismo «Libertà e signoria non s’incorporano insieme».

La politica adottata a riguardo delle province napoletane e pare aver negletti in fatto cotesti principi, ed essersi dilungata dalle norme e dalla via che sola dirittamente poteva guidare a mantenere l’equilibrio di una laudevole amministrazione. Si è adoperato a scrollare in tutte parti l’edificio antico, a scuotere ogni ombra di autonomia napoletana, e di centralizzare ad un tempo tutto a Torino, senza riserva, senza eccezione, senza considerazione a circostanze locali. Son questi i due fatti nuovi, che non sembrano né punto, né poco conseguenti dal Plebiscito del 1860.

Il crollamento dell’autonomia a Napoli se dall’una parte era, come debbe essere, necessaria, indeclinabile conseguenza dell’annessione delle province meridionali all’Italia una, dall’altra non importava che avesse dovuto ella annientarsi di subito, e nello stato attuale del nuovo reame d’Italia, od almeno non andava smessa onninamente in ogni menoma parte, in tutte le branche, in tutte le diramazioni; e molto meno induceva la necessità, o la convenienza che il potere di centralizzazione si fosse a Torino costituito.

L’unificazione d’Italia non ebbe, né poteva in vero accennare allo scopo di rendere piemontesi le province annesse, e con ispecialità le province meridionali formanti la più gran parte dell’Italia medesima. Dovevasi introdurre l’elemento nuovo, che partir doveva dal Piemonte, già sede delle libertà costituzionali; dovevano distruggersi tutte le vecchie instituzioni dell’assolutismo, incompatibili, od opposte al nuovo ordine delle cose; ma cotesto ordinamento civile ed amministrativo doveva formar argomento di serio esame per sceverare appunto il buono dal cattivo, per sopperire saputamente l’elemento libero, o nuovo, all’elemento assolutista, o antico. La quale disamina dovea versare segnatamente, ed innanzi tutto, a formare una legislazione unica, individua; a sanzionare e promulgare tali leggi, che fossero confacenti e ben adatte a tutte quante le province italiane, tenuta ragione delle speciali condizioni locali, delle abitudini e de’ bisogni delle popolazioni, delle instituzioni con che per l’addietro erano state rette ed Amministrate.

Era questa, come ognun vede, l’opera del tempo dovea essere la disamina laboriosa delle Camere legislative; era lo edificamento nuovo che doveva suscitarsi con la compiuta formazione, con l’integrale stabilimento del reame dell’Italia una ed indipendente dalle Alpi alla regina dell’Adria, . Ma no. Si è creduto miglior partito di chiudere gli occhi, e di far presto, rendendo l’Italia piemontese, vai dire traportando, tale quale era, la legislazione del Piemonte a tutte le province annesse, e fra queste alle napoletane, smettendo per via di regola, o di massima ogni anteriore ordinamento civile ed amministrativo, buono o cattivo che fosse stato, e quali che fossero le abitudini, le tendenze, le costumanze, e da ultimo, ch’è più, i bisogni del popolo. Traportare puramente e semplicemente, e rendere operative le leggi del Piemonte a tutte le altre province italiane rileva un dilemma, o che il solo Piemonte avesse tenuti buona legislazione, ottimo ordinamento civile ed amministrativo, utili istituzioni, o che tutto il rimanente d’Italia fosse finora vivuto nella barbarie, nella rozzezza, senza civiltà, senza buone leggi, senza commendevoli ed utili instituzioni. Ma l’uno e l’altro assunto include un paradosso, perché, a parte sempre l’elemento politico e le liberali guarentigie, né il solo Piemonte tenne un ordinamento civile ed amministrativo, che fosse modello di sapienza governativa; né tutto il rimanente d’Italia viveva barbaro, e senza leggi accettevoli e buone. A niuno soffrirà l’animo di contraddire, il primo libro, a mo’ di esempio, delle leggi penali napoletane, se n’eccettui la difettosa graduazione delle pene, essere tipo per tutt’altro dj profondo saper civile, siccome nella stessa Francia è stato giudicato ed elogiato: la legge su l’amministrazione civile, se ne togli alquante sanzioni, in tutt’altro è larga e provvede bene al vantaggio dell’azienda provinciale e comunale. Ed egualmente può dirsi pur di altre buone leggi; le quali in generate stavano ed erano sanzionate, ma pessimamente applicate, tuttogiorno vulnerate e trasgredite dall’avarizia e dal dispotismo del principe, dalla furberia e servile prepotenza del potere centrale, dalla venalità, dall’ignoranza, dalla malizia di protervi e cattivi amministratori locali.

Nè tampoco mancavano alle province napoletane ottime instituzioni, utilissime ad ogni classe di popolo, che stavano in via di progresso, in armonia della civiltà dei tempi, ed attestavano un ordinamento amministrativo, avvegnacché informato sempre del pessimo elemento dell’assolutismo, non affatto dispregevole. A dir breve, faceva mestieri innanzi tutto moralizzare l’amministrazione pubblica, moralizzare il popolo: era questa la precipua, la suprema necessità, il più pressante bisogno cui doveva attendersi nelle province meridionali. Ci ha con sagacia provveduto il governo centrale, ovveramente ha consentito in fatto che la demoralizzazione rimanesse stazionaria qual essa era, se pur non voglia dirsi che volgesse in peggio? Non io pronunzierò l’ingrata sentenza. De’ fatti compiuti sta il giudizio ne’ fatti medesimi.

Ond’è che pria d’immutare instantaneamente i diversi rami della legislazione, alterare e smettere gli ordinamenti in vigore, tranne le modificazioni transitorie per le sanzioni incompatibili col nuovo sistema politico, e sarebbe sembrato più saggio avvedimento, come è detto avanti, di studiare complessivamente gli ordinamenti speciali della pubblica amministrazione di tutte quante le province italiane, non escluso il Piemonte, e sceverando il buono dal cattivo, coordinare poscia il tutto ad un sistema di uniformità e di unificazione, informato delle novelle guarentigie politiche, dell’elemento nuovo liberale italiano.

Il traportamento puro e semplice delle leggi piemontesi alle province meridionali, a vece di recare all’amministrazione ed alle popolazioni quei vantaggi che erano da sperare, ha ingenerato, come era ben naturale, confusione e disordine, e quindi molto notevole pregiudizio. E di vero, che cosa è accaduto con la promulgazione e l’attuazione nelle province meridionali, a cagion di esempio, della legge piemontese del 23 ottobre 1859 sull’amministrazione provinciale e comunale? Mentre dall’un de’ lati nelle province napoletane non per anco è stata estesa, introdotta, e sanzionata la maggior parte de’ mutamenti e delle disposizioni che trovansi in vigore nel Piemonte, e che formano materia di quella legge, dall’altro a forza di dubbi proposti, d’interpretrazioni stentate, di analogie incompatibili, di eccezioni spigolate, di risoluzioni speciali. e precarie, la nuova legge nella massima parte rimane inosservata, e si mantiene per opposito tuttavia in vigore la legge antica ed abrogata.

Nella formazione de’ novelli Bilanci, ossia degli antichi Stati discussi, quante difficoltà non sonosi manifestate, quanti e quali dubbi non si sono proposti, quante risoluzioni in opposizione alla legge nuova non trovansi rendute? Tutto quello che risguarda i luoghi Pii Laicali e gli Stabilimenti di Beneficenza contemplato nella nuova legge municipale, si è dichiarato non poter aver vigore nelle province napoletane, prima che fossero pubblicati i novelli ordinamenti intorno alla Beneficenza pubblica. A peso de’ Comuni per effetto della legge abrogata gravitavano i ratizzi per sopperire alle spese delle opere pubbliche provinciali: nella legge novella non sono riconosciuti cotesti ratizzi: e pure, si è risoluto che dovessero continuare a figurare a peso de’ Comuni ne’ novelli Bilanci, non ostante il silenzio de’ moduli venuti di Piemonte. La nuova legge niente arreca sanzionato intorno alla nomina degli esattori della fondiaria, ed alla loro responsabilità: non per questo si è dichiarato nulla essersi innovato, e doversi continuare il sistema finora praticato. La nuova legge prescrive restar sottoposti all’amministrazione provinciale gl’interessi dei Diocesani quando ai termini delle leggi sono chiamati a sopperire a qualche spesa; si è dichiarato non essere il caso di spedire regolamenti sul proposito, perciocché alcuni non esistono, ed altri non sono o non possono per ora essere in vigore nelle province napoletane. Ed egualmente dee dirsi di altri innumeri dichiaramenti, pei quali si fa ritorno al sistema antico, e non è la nuova legge né attuata, né eseguita.

L’amministrazione municipale di Torino qual confronto può sostenere con quella di Napoli? Non si possono, a mirar bene, menomamente assomigliare queste due città l’una dall’altra cotanto diversissime per popolazione, per redditi, per opere pubbliche, per azienda finanziera, E pure, si è reputato non che cosa utile, ma agevole e facilissima applicare al vasto e dovizioso municipio di Napoli quella legge medesima che va soltanto bene adagiata all’azienda municipale di Torino.

Di par guisa si è traportata a Napoli puramente e semplicemente la legge piemontese intorno alla Sicurezza pubblica. Niun vantaggio ragionevolmente era da sperare; ed in fatto la Polizia non ha raggiunto lo scopo della utilissima sua ìnstituzione, anzi, per quello che manifestamente apparisce, rimane tuttodì schernita e vilipesa da’ malandrini, dalle ruberie, dalle aggressioni., dalle risse, dai diuturni e spessi uccidimenti. E come no! Egli è bastante notare per tutti un solo manifesto errore: mentre due o tre Sezioni insieme di Torino formano una sola di Napoli, sia che guardi la popolazione, sia l’amplitudine territoriale, non per questo ad ogni Sezione napoletana si è allogato quel medesimo ristretto personale di agenti della pubblica sicurezza, che trovasi per legge stabilito in ciascuna Sezione torinese. Si può dunque condurre a Napoli efficacemente Io svariatissimo servigio della Polizia con sì scarso numero di uffiziali addetti a ciascuna Sezione sul modello delle picciole Sezioni, ond’è divisa la città di Torino? Epperò o più Sezioni a Napoli, o maggior numero di uffiziali in ciascuna delle attuali.

Dette le quali cose, riuscirebbe opera lunga e noiosa, e non è mio proposito di venir qui annoverando tutte le leggi novatrici degli ordinamenti preesistenti. Le quali leggi, a vedere ben addentro, se han scosso e demolito l’antico, non sono state proficue a redificare il nuovo, tra perché l’attuazione di esse per talune fu prematura e non opportuna, tra perché per altre o non fruttarono positivo vantaggio, o recarono in vece pregiudizio alle province napoletane. La legge abolitiva delle corporazioni monastiche, ad esempio, è utilissima; era necessaria al bene della nazione: non era prematura la promulgazione; ma faceva d’uopo che senza por tempo inmezzo, ed incontanente fosse stata attuata e recata a compiuto eseguimento. Lo indugio sopravvenuto finora alla esecuzione di quella legge ha pregiudicato al Governo, ed alle province napoletane; al Governo perché ha fornito argomento, se non di debolezza, almeno d’incertezza nella promulgazione di una legge di cotanto pubblico interesse; alle province, perché il clericato ed i numerosi ordini monastici, fatti accorti dei loro futuri destini, non allentarono le maligne pratiche, e crebbe anzi una più energica, attiva, e pericolosa influenza per ispargere tra le popolazioni, con ispezialità negli animi de popolani, il mal contento contra i provvedimenti governativi, ed il nuovo politico reggimento. Così ad un pari l’improvvida legge dello scioglimento dell’antica armata napoletana ha fruttato i danni inenarrabili, ed i guasti dello spietato brigantaggio, che necessariamente doveva tuttodì ingrossare a cagione che meglio di centomila uomini furon posti in su la via, demoralizzati si, incodarditi, come erano, ma che pur avean bisogno di pane, e di alcuna considerazione.

Nè si vuol tacere che la riforma introdotta nelle branche diverse della pubblica amministrazione avesse indotta e sparsa nel popolo una confusione d’idee e di principi, a cagione eziandio delle novelle denominazioni a maniera piemontese, e de’ nuovi vocaboli con che vengono indicati”gli uffici pubblici, e le cose. Il popolo dura fatica ad intendere che il distretto antico oggidì si addimanda circondario, e che questo dicesi di presente Mandamento; che il Tribunale civileCorte d’appello, che le Parocchie son nominate Fabbricerie, che l’uffizio del registro e bollo chiamasi uffizio d’insinuazione, e via dicendo di tutte le altre denominazioni, e degli altri vocaboli piemontesi. Niente è più necessario alla osservanza delle leggi quanto la proprietà de’ vocaboli, che riuscissero al popolo di chiara e facile intelligenza. La sapienza Romana tenea sanciti per questo appunto que’ due aurei libri della significazione delle parole, e delle regole del diritto, la cui sola conoscenza, secondo osserva il dottissimo Cuiacio, è bastevole a formare ogni profondo giureconsulto.della provincia chiamasi

Cotesto mutamento di denominazioni e di vocaboli, sopperendo agli antichi quelli usati nel Piemonte, maggiormente è venuto rifermando negli animi la fallace idea, che pur nel tecnicismo delle parole, e nel dialetto abbiansi a piemontizzare le province napolitane; siccome le barbare denominazioni introdotte a tempi della dominazione Spagnuola rivelavano a’ napoletani di essere eglino signoreggiati dalla Spagna. Le nuove voci adottate non sono certamente di popolo straniero; sono pur italiane; ma non può negarsi essere di bruttissimo conio, derivate da un dialetto, non dalla lingua italiana universale, né le meglio adatte ad esprimere le cose. Se ci ha opinione incontrastabile è verissima, quella è del Montesquieu, che il decadimento cioè della potenza romana meno derivò da altre cagioni, quanto dalle native forme del linguaggio adulterate, e tramutate barbare ed incivili. Cominciò a scrollare allora veramente la potenza romana quando la bella lingua del Lazio accettò nuovi vocaboli, che man mano deturpandone la bellezza, alterandone il significato, rendettero corrotti i costumi, ed il popolo imbarberito e schiavo. 

VI

La coppa non era colma per far appieno rivelata, una compiuta centralizzazione a Torino. La popolosa Napoli e le province meridionali dovean restare affatto dispogliate d’ogni menoma ombra di autonomia locale, d’ogni decoro antico, di qualsiasi lustro, e dovean essere onninamente governate e dipendenti dal solo potere centrale.

A tenere l’uffizio di Luogotenente a quelli in principio nominati era succeduto il generale Cialdini. Il quale da prode soldato, da integerrimo liberale, da uomo di cuore indipendente, volendo divincolarsi da’ lacci imperiosi e tenacissimi della infausta consorteria, e lasciando di consultare le ambagi di una studiata ed incerta politica, avea vedute le ingrate attualità ond’eran premute le province meridionali, ed avea posto l’animo a procurare ogni possibile immegliamento, ed a conquistare a sé le simpatie popolari. Sul bel principio gli fu troncata la via; o perché rinnovò egli l’esempio unico nella storia napoletana del 1644, quando l’Almirante di Castiglia, venuto viceré, scriveva alla corte di Spagna: si degnasse il re di rimuoverlo, affinché premendo un cosi prezioso cristallo non venisse a rompersi tra le sue mani; siccome s’infranse poi in quelle del suo successore, quell’insigne oppressore, capo di scherani del Duca d’Arcos; o perché gl’intendimenti del Cialdini non andavano a sangue, e non procedevano in armonia co’ principi e con le vedute del potere centrale. Fu quindi deliberata ed eseguita l’abolizione della Luogotenenza a Napoli, e con essa quella de’ Segretari generali, e quella eziandio de’ Dicasteri.

Non entrerò nella disamina spinosa e molto malagevole dello intendimento del ministro Ricasoli, come si è scritto e divolgato, di voler combattere cioè il piemontismo pessimo o retrivo con questo mezzo dell’abolizione dei segretarii generali. Ritenuto anche questo vero, il mezzo certamente si chiarisce di per sé non esser tale da raggiungere scopo; od almeno dovea arrestarsi circoscritto là nella sede del ministero per infirmare, o spegnere, come si voglia, cotesto piemontismo retrivo, che niente avea di comune e d’influenza nelle province napoletane.

Molto meno mi fermerò ad investigare le cagioni che avessero potuto consigliare l’abolizione della Luogotenenza a Napoli, conservando l’altra di Sicilia, in grazia forse di quella terra famosa e celebrata pe’ suoi Vespri, sempre intensa alla razza abborrita de’ papisti ed ambiziosi Angioini.

Qui accade di notare soltanto che l’abolizione della Luogotenenza, de’ Segretarii generali, de’ Dicasteri nelle province continentali esprime un avvenimento inopportuno, rende compiuto il fatto, ed è suggello che Napoli non sia più Napoli. Ornai tutto è Torino. Il che è stato nuovo alimento alla pubblica preoccupazione; ha destate novelle e più gravi apprensioni; ha ingenerato maggior confusione, più palpabile incertezza segnatamente negli uffiziali di ogni ramo e di ogni rango, più visibile disordine nell’andamento della pubblica amministrazione, e nei civili ordinamenti.

No, non dovevansi condurre a questo stato le province napoletane. Napoli, città speciosa e magnifica da primeggiare fra le altre d’Italia, centro di una grande popolazione, la terza capitale dell’Europa pe’ suoi abitatori, celebratissima e ricca di singolari monumenti in ogni specie di arte, sede per otto secoli di una successiva monarchia, capitale finora di un floridissimo reame, Napoli non doveasi ridurre all’abbietta condizione di stare a paro con ogni altra piccola città, con ogni paese delle province meridionali.

Una città di frontiera non può essere giammai sede del Governo, centro del potere, capitale di un reame. Tal è Torino. Laonde anche nella odierna composizione del reame italiano, Torino non potea, e non dovea rimanere sede del Governo. Di poi che le province meridionali si dettero all’Italia una, non altra città pareva meglio adatta, né verun’altra poteva ospitare temporalmente la residenza del Governo, ed essere centro del potere direttivo, tranne Napoli, fin quando la capitale naturale d’Italia, Roma, sarebbe stata acquistata per far compiuto lo stabilimento del regno italico. Ridurre Napoli alla condizione di semplice città di provincia, dispogliata di ogni decoro, di ogni, preminenza, assoggettita a Torino in tutte le esigenze pubbliche, in tutte le congiunture, no, non è questo da reputare ottimo consiglio. A parte il principio invulnerabile dell’unità italiana; a parte lo spirito di municipio; egli è l’amor proprio cittadino che sentesi scosso, violentemente ingiuriato; e l’amor proprio d’una nazione è immensa parte delle tendenze, delle simpatie popolari, e del. politico elemento.

Non ci ha cittadino che possa, o voglia di buon grado accontentarsi di portare sue instanze, o sue querele a Torino per qualsiasi menomi interesse, per qualsivoglia faccenda. Non par bene certamente che, ad esempio, un concorso a cattedra per l’università di Napoli abbiasi a sperimentare a Torino; siccome molto meno vuoi essere assentito che a Napolie nelle province meridionali l’istruzione pubblica, cominciando da’ primi rudimenti, dagli studi elementari, debba praticarsi a maniera del Piemonte, come se in questa parte d’Italia non si fossero finora conosciuti buoni metodi d’insegnamento, o non si fosse mai saputo né leggere né scrivere. Dalle cose discorse agevolmente s’inferiscono e le precipue cagioni perché Napoli non sia più Napoli, e le condizioni niente prospere delle province meridionali. Le quali essendosi volenterosamente e spontaneamente raccomunate a formare l’Italia una, veggonsi in vece contro la lettera e lo spirito del Plebiscito non che dispogliate d’ogni autonomia locale, ma in tutto piemontizzate, e sommesse ad una centralizzazione assoluta stanziata a Torino. Siccome non è cosa che donna, privatasi d’Onestà, non facesse, niente dissimigliante nella politica, adottato un principio fallace ed erroneo, tutto volge inconsideratamente, né ci ha cosa che non si faccia per tener fermo a quel principio medesimo. Ed il governo centrale adottò in vero un principio erroneo e fallace allora che divisò di fare dell’Italia un Piemonte, e segnatamente di piemontizzare le province meridionali, anzi che di tramutare italiano, come doveva essere, anche il Piemonte.

Nè rileva obbiettare forse che il Parlamento avesse in cotesto intendimento interposta la sua autorità, ed avuta sua parte di adesione nel conferimento degli impieghi, nella promulgazione delle leggi, ed in tutte altre novità compiute pel nuovo ordinamento della pubblica amministrazione. Se dall’un de’ lati le province napoletane con aperte manifestazioni non ebbero gran fatto a lodarsi d’una buona porzione de’ loro rappresentanti, che non corrisposero convenevolmente al mandato lor conferito, perché siccome interviene in tutte le elezioni ad assemblee parlamentari, si cacciano innanzi d’ordinario o ambizioni satisfatte, o ambizioni deluse e scontente, dall’altro egli è un vero innegabile. che il Parlamento non si associò alle vedute ministeriali, non interpose la sua autorità per plaudire al governo centrale in tutto quanto ha praticato a riguardo delle province meridionali. Il perché giova vagheggiare la speranza che la Camera de’ Deputati, riunita di presente in sessione ordinaria, facendo miglior senno, e meglio dagli avvenimenti instrutta de bisogni della nazione, voglia portare serio conscienzioso esame, e la sua autorevole attenzione su le condizioni odierne delle province meridionali; siccome è pur da confidare nella imparzialità, nella lealtà, nella fede del nostro re galantuomo, affinché stenda la sua mano soccorrevole a rialzare la prostrata sorte de suoi sudditi napoletani.

Non è più tempo d’illusioni, di lusinghe, di parole vaghe, di trovati immaginosi. Ornai siamo a tale arrivati, che per ridurre gli animi a stato di calma in Napoli e nelle province meridionali ci ha d’uopo di pronti, efficaci provvedimenti non che governativi, ma ben ancora economici e morali. II bisogno è stringente. Di comun voce tali provvedi menti van reclamati che mirassero a rilevare materialmente le angustie popolari, ed a ridestare intera negli animi de’ liberali italiani la fede e la fiducia nel Governo.

Ella è dottrina divolgatissima assentita da’ pubblicisti, da’ politici, dagli storici, che ogni nuovo governo debbo adoperarsi studiosamente, con industre maniera a conquistare l’amorevolezza e lo attaccamento de’ popoli, e ad un tempo mantenere in favore ed in credito quelli che abbiano contribuito a stabilire il novello reggimento, e sieno devoti al nuovo ordine delle cose. Sarà forse fatale inganno anzi che una realtà positiva, ma sventuratamente don si è fatta giusta applicazione di cotesta dottrina alle province napoletane. Non si è inteso, né affatto mirato al conquisto dell’amore de’ popoli, anzi e pare essersi di proposito studiato a dilungare dal governo lo affetto popolare, ed ingenerare in vece negli animi lo scontento. D’altra parte sembra che si fosse balestrato di fronte lo stesso principio liberale italiano, tenendo spreti, non curati, reietti, ingiuriati i veri patrioti, gli onesti liberali, moltissimi in somma che in qualsiasi maniera hanno contribuito al risorgimento italiano, od han durate pene e sofferenze per la redenzione d’Italia.

C’è egli de’ giornali che non sonosi trattenuti dall’affermare sul serio, che 11 popolo napoletano traesse vita lieta e contenta: ricacciandone la pruova dal passeggio pubblico, dalla letizia che traspare in sul viso, dal concorso con che il popolo muove a togliere diletto delle luminarie, degli spettacoli, de pubblici divertimenti. Italiano, come sono, non partigiano di chicchessia, mi caccio innanzi animoso, forte della mia fede, e do sulla voce a cotesti giornali. Il fatto nella sostanza non è vero; né quelle esterne manifestazioni sarebbero pruova certa e bastante a riconoscere il contento popolare.

Professiamo una volta in buona conscienza la verità, e mente altro che la verità; non facciamo torto uso delle parole: la politica divisa dalla morale vagella tra la stupidità e la pazzia, come scrisse un dotto e sommo italiano, mio amico e collega. Gli uomini savi ed onesti, e con ispezialità i Principi, non vogliono che sia defraudata la fede pubblica, ed ingannata là posterità con le menzogne degli scrittori.

E poiché me l’offre il soggetto, non mi rimango dal recare un magnifico brano di quell’insigne medesimo detto avanti, che può riuscire a noi tutti di utilissimo ammaestramento «Il giornale e la meteorologia, scrisse il liberalissimo valentuomo, son gemelli: or siccome le correnti elettriche vibranti dall’un capo all’altro della terra abitata, apportando l’annunzio delle meteore lontanissime come se Sresenti, e convocando i dotti dispersi a studiarle el punto medesimo, e compararle come se tutti fossero in una stanza, può di quello studio fare una scienza davvero, così del giornale può farsi un ministero educatore ed emancipatore delle anime, se la parola preparata dalla meditazione e dall’esperienza, voli rapidissima ispiratrice de’ fatti. Al sacerdozio della parola l’Italia se non la prima, non sarà l’ultima, spero; ella che espiò col pensièro l’iniquità gloriosa delle armi, che già diffuse arti e leggi, scoperse astri e mondi» ().

Or ritornando in sul filo del mio proposito, ella è fatale, perigliosa illusione il credere che Napoli e le province meridionali si tenessero lietissime ed appagate del nuovo ordine delle cose. Intendiamoci però. Esse amano l’Italia una, amano re Vittorio Emmanuele, amano il Governo italiano; si tengono salde nell’abborrimento e nell’odio a’ Borboni: questo, mercé di Dio, è un vero fulgentissimo; ma è pur vero ad un tempo che sieno scontente delle ordinazioni governative, del sistema adottato, de’ provvedimenti del governo; siccome d’altra parte egli è verissimo che il contento popolare non si ritrae e non si apprende dal concorso della plebe a’ pubblici spettacoli, ed al passeggio ne’ dì festivi; e’ fa mestieri penetrare entro le diserte officine degli artefici, entro le case degli operai e degli artigiani, entro gli abituri e le casipole de’ popolani; e fa mestieri di origliare alla porta per formarsi concetto del disperalo dolore, ed ascoltare le parole strazianti che vengono fuori dal petto per la miseria, per la fame, per lo scontento contea le ordinazioni governative. Il popolo pur traeva a sollazzarsi, pur conveniva agli spettacoli, pur incedeva numeroso le vie e le piazze, lieto, contento, tranquillo all’apparenza, sotto il. giogo pesante degli odiati Borboni, ma non per questo covava in cuore, il. dispetto, Io sdegno, la vendetta, abboniva e detestava quell’iniquo, scellerato Governo.

Nè poi è da fidare alle sembianze esteriori del popolo, il quale allora è più da temere quando s’infinge, e manifesta il riso in su le labbra mentre ha la disperazione in cuore, e medita nella mente l’opportunità per levarsi a tumulto, e prendere vendetta contro gli autori de’ suoi patimenti, e delle sue sofferenze. Quel tipo de’ tiranni, quel mostro dell’umanità, Tiberio, non si scosse, né fu commosso a pietà, opprimendo senza misericordia il popolo, fin quando mostrossi questo angosciato, e dal dolore affranto; fu però veduto quel malvagio impallidire in sul volto in quel dì che il suo fido Seiano venne annunziandogli che il popolo sembrava, contro l’usato, più tranquillo e rassegnato, anzi lieto all’aspetto e spensierato.

Quanto poi a’ liberali delle province meridionali, non sanno eglino darsi ragione del come il governo centrale, se non con animo deliberato, certo però con fatti apparenti, faccia intravedere di urtare lo stesso principio italiano, tenendo per mille guise non che vilipesi i veri liberali, e di aperto disfavore guiderdonati, ma ben ancora avvolta tra ombre ispessite ed incertezze, irresoluta tra le pratiche studiate ed il buio arcano della politica e della diplomazia, la stessa causa italiana, eh’ è stata l’aspirazione, e forma tuttodì l’aspettativa di tutti i cuori, concitati ad ansia smaniosa, d’un popolo di ventinove milioni. Tolga Dio, che i liberali italiani avessero per avventura a ripetere, e neanco a pensare, compiangendo sé stessi, le parole di lagrimevol pietà che dal duro esiglio l’Arpinate indirizzava alla sua Terenzia: Sostentati, come tu puoi, e diceale: consoliamoci di questo, che la presente disavventura non ce l’abbiam meritata: honestissime viximus: non vitium nostrum, sed virtus nostra nos afflixit: peccatum est nullum.

Provvedimenti adunque fan mestieri. E quali? A proprio luogo vedremo. 

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VII

Passo a toccare dell’Italia.  ‘ Dio diede ad ogni nazione sua lingua e sua terra. lapperò non ci ha nazione costituita se tutta quanta dall’un estremo all’altro non possegga la estensione del suo natural territorio; non ci ha nazionalità vera ed indipendente fin quando alle native forme del linguaggio s’intramette l’idioma dello straniero, attestante dominazione con che la tenga assoggettita e schiava. Dalle Alpi all’Adriatico, questa è la naturale amplitudine dell’Italia: il barbaro idioma del Teutonico commisto al venusto dialetto italiano è pur lingua parlata tra le incantevoli lagune della regina dell’Adria, tra le città ed i paesi, pieni d’interminabile sorriso, della Veneta regione. L’Italia dunque non è, né sarà una ed indipendente fin quando Roma, sua natural capitale, non addivenga effettivamente sede del Governo, capitale del nuovo regno italico; fin quando Ja Venezia sommessa tuttora al giogo servile, ed all’abbonita dominazione austriaca, non sia redenta e raccomunata alle altre province italiane, libere e dallo straniero indipendenti.

Laonde per la formazione del regno italico, qual’è naturalmente, restano tuttavia a sciogliersi, come ognun sa, i due malagevoli problemi, che apprestano argomento di profondo esame e di combattuta discussione a tutta quanta Europa, addimandati; quistione romana, questione veneta. Delle quali quistioni si è scritto ornai e divolgato da valorosi ed insigni pubblicisti, da profondi dottori in Divinità cotanto lucidamente per porre in piena luce la incompatibilità assoluta e della potestà temporale del Papa, e del dominio straniero in Italia, che non saprebbesi aggiungere altro di meglio, né potrebbonsi arrecare in mezzo nuove, o più sfolgorate ragioni a conforto del duplice assunto.

Se non che posto dall’un de’ lati il vero, che rifugge a qualsiasi illustrazione, ché i, (atti non abbisognano di argomentazioni, quello appunto che, l’Italia non è, perché alla sua integrale formazione manca tuttavia la capitale, Roma; manca, il Veneto; dall’altro reputo non affatto disutile di aggiungere, come che sia, alcuna parola intorno alle due enunciate quistioni; ché ogni buon italiano dee conferire il suo obolo per vedere compiuta la grande opera del risorgimento italiano, della redenzione ed unificazione di tutta quanta Italia. Ed intorno alla quistione romana dico, che l’Italia dovendo formarsi una e cattolica, principio eminente ed invulnerabile, annunziato e svolto maestrevolmente dall’insigne ed animoso Passaglia, cotesto scopo santissimo, cui aspirano i voti di tutti i patrioti italiani, che pur sono veri, non ipocriti credenti, buoni cattolici, onesti cristiani, non mai sarà raggiunto se nel Papato potessero mai restar riunite le due incompatibili potestà, la spirituale e la temporale.

Nello sviluppamento intellettuale, cui oggidì sono pervenute tutte le intelligenze, non è un misterioso arcano, si bene ognun sa come un fatto fulgidissimo che il potere temporale del Papa, questione antica e secolare, sia riuscito infausto e scandaloso alla cristianità, e danni incalcolabili abbia prodotto alla civile società men da tempo più remoto, quanto dall’inizio è da’ successivi anni del secolo XIV.

E di vero, dominato Bonifazio VIII dalla smisurata ambizione, dalla smaniosa boria di signoreggiare tutto il mondo, e di tenere a sé subbietti, anche nel temporale, e principi e popoli; di poi che alle doppie chiavi aggiunse il doppio gladio, e rendeva la famosa Bolla Unam Sanctam, che eccitò a buon diritto le ire scandalose, e la lotta a lungo combattuta con Filippo il Bello di Francia, pur di tempera non pieghevole com’era Bonifazio, e che dette origine alle rinomate proposizioni della Chiesa Gallicana, in quell’attrito politico, in quella disputa svergognata intorno alla potestà temporale, che il Papa irremovibilmente mantenne in quel giorno, sempre nefasto all’orbe cattolico, in che Bonifazio, vecchio ad ottantnn’anni, ebbe a patire, chiuso in Anagni, il doloroso scorno di essere percosso in sul viso dalla destra sacrilega di Stefano Colonna, in quel giorno nella niente de’ credenti s’intenebrò per sempre l’idea altissima del Pontificato. L’eco ripercosse quello schiaffo in tutte parti della cristianità scandalezzata; e giudiziosamente fu scritto, che in quel giorno medesimo terminò l’Epopea papale, e cominciò quella de’ popoli.

Crebbero gli scandali è le contumelie, a strazio della cristianità, alla morte di Bonifazio, che dopo un mese dall’oltraggio patito trapassava per dolor d’ànimo, trambasciato di sdegno e di rossore. ché rincacciato pur nel sepolcro a Perugia per crudel veneficio il successore di lui, Benedetto XI, il buon Niccolò da Trevigi, indi a sette mesi del Pontificato, . Filippo il Bello, iroso e vendicativo fin a turbare con solenne giudizio la memoria dell’odiato Bonifazio, ed a smuoverne le ceneri inoffensive, pose l’animo a volere imprigionato in Francia il Papato. Riuscì nel suo proposito. Il papa lungamente fu mantenuto prigione in Francia per meglio di settantadue anni che durò quella nuova vituperosa cattività di Babilonia.

Filippo profferse a patti il papato ad un pessimo ambizioso francese, l’arcivescovo Bertrando Got, rotto ad intemperanza ed a nefande passioni, che giacevasi in malvagi sollazzi con la bella contessa Brunisinda. Il quale Bertrando accettò le turpi condizioni, e fu papa col nome di Clemente V. Ei mantenne gli accordi: traportò la sede in Avignone; rivocò le Bolle di Bonifazio e ne condannò la memoria. redintegrò negli uffizi i Colonnesi: abolì l’Ordine dei Templari per sete di vendetta, per ingordigia di ricchezze, parteggiandosi fra loro le opime spoglie dell’Ordine e Clemente, e Filippo, e Carlo Angioino di Napoli, pur com’essi d’avarizia tinto» e de’ Templari nemico.

Non fu mai però congiuntura in che giustizia di Dio, ad ammonimento de tristi, meglio sfolgorasse di tutta sua luce, quanto all’appellazione del conte di Molay, gran maestro de’ Templari. Il quale nel cacciarsi animosamente tra le Gamme del rogo apprestatogli, professandosi innocente col suo Ordine delle compre e calunniose incolpazioni, ond’era stato accagionato, citava e Clemente e Filippo, consorti nelle nequizie, a comparire davanti al giudizio di Dio entro un anno ed un giorno. Ed in questo pendente di tempo moriva appunto Clemente, vivuto già sempre malaticcio, nella tristezza, e nella irascibilità (), dell’orribile rarissimo morbo, addimandato Lupulo, con dotta illustrazione per valoroso professore (), mio onorando amico e collega, rischiarato essere il canchero o l’ulcero corrodente delle cosce, morbo affatto incurabile; moriva pur Filippo, straziato da’ rimorsi e dalla disperazione incerto de’ destini e della signoria nella sua discendenza, coverto di onta e di rossore per tener disposati i tre suoi figliuoli a sterili donne di malavita, rotte a lascivia e al meretricio.

Infino al traportamento della sede papale in Francia, le mura del Vaticano avean tenute ascose la difformità e la bruttezza dei costumi della corte papale e della cheresia, né occhio mortale area osato di penetrarvi entro. Ma quando poi là in Avignone i costami del chericato si ruppero ad aperta licenza, senza precauzione, senza ombra di pudore, i popoli siffattamente affisarono lo sguardo ne’ ritinti di que’ palagi a spiarne le azioni, che niente potè loro sfuggire per vederne a nudo gli andamenti, la cupidità di lucro; la ignominiosa venalità, le smodate avarizie, il vituperoso mercato d’intrighi, le turpezze lascive e gl’inverecondi sollazzi, indegni financo de’ più raffinati e brutali piacentieri. Alta tuonò allora in tutte parti la voce de’ popoli; si levò unanime il grido che accennava alla necessità della riforma, indarno poscia ottenuta nella Sinodo di Costanza, ed in quella successiva e tumultuosa di Basilea.

Il papato finalmente, dopo la lunga ingiuriosa cattività, volle divincolarsi dalle catene onde tenevalo la Francia avvinto e signoreggiato. Gregorio XI., fattosi superiore alle contrarietà del re di Francia e de’ cardinali francesi, riportò e restituì alla città eterna la sede pontificia. Ma dopo il vergognoso esiglio più fosco e tempestoso abbuiavasi l’orizzonte religioso e politico dell’Europa. ché alla morte di Gregorio, l’anno appresso al ritorno della sede a Roma, destavasi ferocissima la Scisma, dà più lunga che fosse mai durata, la più scandalosa di quante ne erano surte per l’addietro, addimandata Grande Scisma d’Occidente che dopo dilaniata la Chiesa e la cristianità per ben altri quaranta anni, al seguito de’ settantadue dell’esiglio Babilonico, ebbe fine con la Sinodo di Costanza, in continuazione dell’altra di Pisa, restando eletto Martino V in legittimo ed unico papa.

La quale Scisma fu per certo da tutte le altre diversa affatto e dissimigliante. Ella fu, a mirar bene, una lunga quistione pura e semplice di di ritti personali, una grande lite che dilacerò la Chiesa. Ond’è che per cotesta dissimigliante vituperosa indole, e per le esecuzioni tra le fiamme di un rogo, malgrado le guarentigie e l’imperial salvocondotto, di Giovanni d’Hus e Girolamo da Praga, dannati d’eresia, i popoli più stizzosi imbaldanzirono; ché nella Sinodo furon esse le nazioni che discussero e decisero de’ diritti e della legittimità del Papato. Forti allora del sentimento di nazionalità, che fatto gigante cominciò ad agire in aspetto. minaccevole, i popoli, fuori ogni esitanza, trapassarono d’un salto la via che per l’addietro stava loro serragliata, e mossero per necessario impulso ad attaccare la potestà delle chiavi, e ad un tempo il civile potere.

Per la qual cosa impallidì per primo sul soglio Sigismondo imperadore, ultimo della casa di Lucemburgo: si combatté a tutta oltranza la guerra degli Ussiti, guerra spaventevole e fratricida, perché religiosa: non guari dopo gli animi trovaronsi predisposti e parati ad accettare le nuove dottrine predicate da Fra Martino; sopravvenne da ultimo la guerra de’ Trentanni, feconda d’illustri uomini, che segna una delle grandi Epoche della storia mo, derna, e che condotta a fine col celebre Trattato di Munster, ossia con la pace di Vestfalia, una novella società fu veduta sorgere e stabilirsi nell’Europa.

Questi flagelli onde furon balestrati i popoli e la cristianità, se si attende all’indole delle peculiari circostanze, non di altro furon derivazioni, se non dal potere temporale del Papa. Per la qual cosa da’ primi anni dei secolo XIV, fin dal tempo dell’ambizioso Bonifazio Vili, che entrò primo nella schiera dei cattivi papi che l’un l’altro di poi si successero, tutto lo studio, tutti gli sforzi della filosofia, della storia, della politica, delle scienze economiche sono stati indiritti a raggiungere l’altissimo scopo di separare ornai lo spirituale dal temporale.

Fu idea del Bossuet di collocare tutti i popoli sotto la condotta di Dio; ma al nostro Vico, all’immortale fondatore di una Scienza nuova dell’umanità, è. dovuta l’idea della Provvidenza, che importa una. legge buona che si manifesta fra gli errori e le iniquità. La eccelsa dottrina del Vico va esplicata con la enunciativa di questa splendida verità, che i fatti cioè si sviluppino in rapporti più o meno diretti ad una legge, alla quale è sottoposto il mondo delle nazioni. E poiché le vie di Dio non sono le vie degli uomini, e quanto avviene quaggiù, tutto al bene della umanità è da Dio indirizzato, perciò il male eziandio entra negli ordinamenti inscrutabili della Provvidenza.

Per le quali filosofiche ed ortodosse dottrine non sa conscienziosamente persuadermi come il chericato, ed il. papa ei medesimo, non veggano di buona fede e da cristiani, prendendo le mosse dal secolo XIV, e dopo le traversie, le vicissitudini, le lotte durate dalia Chiesa e dalla cristianità, che l’incompatibilità del potere temporale del Papa, affinché eia compiuta la redenzione e la unificazione d’Italia, ornai abbiasi a’ di nostri a riconoscere ed accettane, siccome l’opera della Provvidenza, siccome la. legge buona fra gli errori e le iniquità. Che se i cuori duri ed increduli in questo fatto volessero anche ravvisare un male, eglino rinnegano alla Provvidenza di. Dio, che per le sue vie. inscrutabili cotesto male ha dovuto indirizzare al bene della umanità.

«Cristo è venuto a perfezionare l’umanità nella virtù, a redimerla dai vizio, a togliere il popolo dall’avvilimento e dalla miseria, non per usurpare ricchezza e dominio che lasciava a Cesare, perché spetta a’ laici e non alle mitere ed a’ pastorali, i quali con l’esempio e con la parola debbono dirigere le coscienze a procedere pure in mezzo alle sozzure, alle passioni ed alle vanità di questo mondo. Rilevate il seggio abbattuto de’ Consoli, la dignità dei Senato, l’autorità degli Ordini; rifate Roma qual’era, e che la secolare astuzia del Clero ha depressa, e ritornerete Signori del mondo; poiché in voi è la legittimità, ogni altro l’ha usurpata» ().

Siffattamente Arnaldo da Brescia predicata agli oppressi Quiriti d’incontro a’ palagi dorati dei Prelati e della Curia, e ricordando l’umiltà degli Apostoli, improverava al Clero l’apostasia del Vangelo.

Ed è così: il potere temporale del Papa non è conforme, anzi urta di fronte l’autorità incrollabile. del Vangelo; rinnega alle dottrine santissime del Cristo fondatore della cattolica Chiesa. Che cosa aver potrebbono di comune interesse la Sovranità su i popoli e la candida sposa del Nazareno? Quella ha il potere temporale; questa niente ha di potestà terrena, come insegnò il suo Divin fondatore, dicendo, il suo regno non essere di questo mondo. Lo spirituale soltanto, questo è il regno della Chiesa; e perciò ella è madre di tutti i credenti; ella è sola, infallibile maestra del dogma e della Fede.

Epperò considerata la Chiesa siccome la comunione de’ Fedeli, e la congregazione del Pontefice Sommo, successore di Pietro, e de’ Vescovi, successori dell’Apostolato, i quali ragunati insieme alla inspirazione del Paracielo, decidono del dogma e della Fede con la formola «Placuit Spiritui Sancto et Nobis»Petrus locutus est, causa finita est.per lo bene spirituale di tutto il mondo, a questa Chiesa la potestà temporale è incompatibile: questa Chiesa non può avere, né ha potere temporale, che sarebbe affatto contrario ed opposito alla sua divina instituzione, niente dissimigliante dalla potestà secolare che non può stendere al petto della Chiesa la sua mano sacrilega. Siccome i Sovrani non hanno giudizio sul dogma, né potrebbero altrimenti giudicarne che come uomini, così il Papa non può tenere Sovranità temporale, perché è incompatibile con la essenza della sua potestà spirituale, a cagione che sul dogma e su. la fede il giudizio della Chiesa, di cui è Capo visibile il papa, Vicario di Cristo in terra, il giudizio della Chiesa è giudizio di Dio. Di qui la dottrina ortodossa e la formola:

 Questo e non altro è l’unico sostanziai carattere di origine, questo il solo elemento divino, abborrente da ogni terrena potestà, principio vitale ond’è informata la Chiesa, che per ciò è, né cesserà mai. di essere, la diletta sposa di Cristo. Se non che in cotesto elemento divino alquanti propugnatori del potere temporale riconoscono ed involvono eziandio l’elemento umano, nei quale con linguaggio seduttore ed illusorio danno a divedere che abbiasi a raffigurare la sovranità temporale del papa.

Egli è questo uno spacciato ingannò; è un arianamente intransigibile. Imperciocché non mi consente l’animo di contraddire a’ canonisti che nella Chiesa abbiasi ad ammettere. il duplice elemento, divino ed umano; ma cotesto elemento. umano non è già il potere temporale, 1 assolata sovranità del papa; ché io questo. senso rileverebbe un paradosso evidentissimo. Imperciocché se la Chiesa è, come debbe essere, quella medesima fondata da Cristo fin dalle sue origini, cotesto duplice elemento, divino ed umano, dee trovarsi di esistere nella Chiesa fin dalla sua fondazione, altrimenti sarebbe ella per volger di tempo, e per temporali mutazioni e vicende, disfigurata e nella sostanza e nelle forme da quella che era nella sua prisca e nativa origine; il che rileva un assurdo, anzi una spacciatissima eresia.

Se dunque l’elemento divino e l’elemento umano coesistono nella Chiesa fin dalla sua fondazione, quest’ultimo non è, né può essere il potere temporale, perché ne’ secoli anteriori alle prime claudicanti concessioni di Pepino nel 754, i papi non possedettero una zolla di terreno, non ebbero menoma ombra di giurisdizione temporale, non tennero soggetto un solo villico né a titolo di sudditanza, né a titolo di vassallaggio. Il perché ne secoli che precessero l’anno 754 nella Chiesa sarebbe esistito il solo elemento divino, discompagnato dall’elemento umano; il che importa una idea vana e chimerica, ed include un’impossibile assoluto.

L’uomo e la società civile, l’umanità, ecco qual egli è l’elemento umano della Chiesa. ché i suoi componenti sono uomini, chiamati da lei nel suo seno per rigenerarli, tali quali sono nell’ordine nrturale, accogliendoli con le loro facoltà, i loro interessi personali, la loro debolezza e le loro passioni, i loro vincoli sociali, ed i loro doveri. E poiché la Chiesa non è altrimenti che una società, un corpo morale, cotesta società, cotesta Chiesa appunto ella è quella che apparisce informata nella sua unità sociale di cotesto duplice elemento, divino ed umano, ad immagine dell’Uomo-Dio suo fondatore. Epperò assai lucidamente da ciò s’inferisce che la sovranità temporale del papa niente ha di comune con l’elemento umano della Chiesa; e che il potere temporale urta di fronte la instituzione divina della Chiesa medesima, ed è spacciatamele contrario ed opposito al Vangelo.

Tralasciando d’intrattenermi da vantaggio intorno alla;sovranità temporale del papa sotto il rapporto di essere invittamente resistita dalla instituzione divina della Chiesa, verità ornai divolgatissima, e posta in piena luce dagli stessi dottori in Divinità, non ometterò dal notare, che i canonisti, che maggiormente si mostrarono strenui propugnatori de’ diritti temporali del papa, essi medesimi con le loro spigolate e sottili dottrine non hanno giammai ammessa e riconosciuta nel Pontefice una sovranità assoluta, una monarchia vera ed indipendente. Il cardinale Bellarmino, un gesuita famoso, lasciò scritto: jam vero doctores in eo conveniunt, ut regimen ecclesiasticum hominibus a Dea commissum, sit illud quidem monarchicum, sed temperatum ex aristocratia et democratia (). Il che importa, secondo la opinione de’ canonisti, che ci ha intramesso eziandio. il potere popolare, osservazione assai degna di nota per le conseguenze che appresso, farò aperte.

Da vantaggio vuoisi notare, che il cardinale Pallavicino, un altro gesuita, narra che nella Dieta di Vormazia i Principi cattolici, ed eziandio i Vescovi portarono rimostranze contra gli abusi introdotti delle annate, delle pensioni, de’ regressi, degli spogli, delle dispense, e di altre simiglianti gravezze con che la Curia Romana ritraeva da tutto il mondo immensa moneta. Contra le rimostranze querelavasi il Legato di papa Alessandro, obbiettando non dover sembrare strana cosa, perciocché il papa, per mantenere lo splendore della sua altissima dignità, necessariamente avea dovuti a sé richiamare le grazie, le dispense, ed altrettali gravosi emolumenti. E nel Concilio di Trento proposto questo medesimo argomento nel fine di apportarvi alcuna riforma, l’anzidetto cardinal Pallavicino, storico di quella Sinodo, narra aperto che riformare la Dataria rilevava, come sostennero i Prelati pontificii, dissolvere il corpo morale, per ciò appunto che que proventi formavano il sostentamento del papa, ed il mezzo da mantenere splendidamente il suo lustro e decoro ().

Or se indubbiamente la pretesa monarchia papale non è assoluta ed indipendente, ma, secondo che dicono i canonisti, terrebbe eziandio congiunto l’elemento democratico, conseguita non trovarsi ragione, né potersi impedire, per teorica indisputata di diritto pubblico universale, che il popolo, esercitando il suo diritto d’impero, prescelga ed adotti quella forma di governo che meglio il voto popolare crede confacente ed utile al benessere collettivo, ed al vantaggio dell’universale. E se il papa negli opprimenti ed incomportevoli emolumenti, scogitati ed inventati dall avarizia e dalla venalità della Dataria, trova il mezzo sovrabbondante a mantenere il decoro della sua dignità, circondata del fasto terreno, mutata in tutto la semplicità e l’originaria sua forma a’ tempi dell’Apostolato e de’ primi secoli della Chiesa, non ci ha ragione, a simiglianza de’ monarchi secolari, di tenere un principato e là sudditanza di un popolo, che con tasse e balzelli fornisca la lista civile alla corte del proprio principe. 

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VIII

Coteste argomentazioni, od illazioni son elle pertanto di poco o niun momento rispetto alla vera indole, al vero carattere del potere temporale del papa che meditato pacatamente in riscontro alla istoria, e Considerato a traguardo delle dottrine inconcusse della ragion pubblica, e delle leggi positive, non pub non essere raffigurato siccome vizioso e nella sostanza e nella forma, e perciò vulnerato alla base, illegittimo, illegale, niente saldo e pertinente.

Niuno può mutare a sé il principio e la causa del suo possesso. Questo canone di ragione più che di di ritto non trova opportuna e più salda applicazione, quanto nella quistione della combattuta sovranità temporale del papa. Imperciocché dal secolo VII popoli incolti, vagabondi e feroci dallo native lor Sedi irrompendo al conquisto delle parti più incivilite dell’Europa, portarono da per tatto la barbarie e la desolazione. Le pagine della storia sono ripiene di orrore, di lutto, di pietà, di spavento, e d’indignazione pe’ sconvolgimenti e pe’ danni, che fin dalle sue origini il Sistema feudale produsse alla misera ed intristita Europa.

I barbari conquistatori ed invasori non intesero ad altro, se non ad usurpare ed estorquere dagli uomini tutto ciò che potevano dalle persone e dalle proprietà di quell’infelici. I popoli gemettero lunghi secoli sotto il giogo de’ baroni oppressori, che di tempo in tempo coi nome di diritti introdussero ed esercitarono i soprusi più scandalosi ed intollerabili, oltraggienti La natura, la religione, la morale. Il jus faeminarum, altrimenti cunnatico [Lo ius cunnatici o diritto di “prima notte” – NdR], l’assegnamento a’ cani del barone; quello alle favorite nominatamente descritte, e poscia perpetuato per quelle che avrebbero rimpiazzate le prime; le giornate d’amore e le prestazioni di cortesia; la prestazione di pesce, di guanti e di cappelletti; la prestazione addimandata di Dio volesse; il jus stercoris, questi ed altri innumeri eccessi d’impurissima e nefanda origine tolleravano i popoli, sì che gli stessi protervi baroni ne velavano l’orrore, tramutandoli in prestazioni pecuniarie.

Tra le guerre desolatoci, le invasioni de’ barbari, gli arruffamenti politici, le sfrenate ambizioni, gli odi de’ partiti, le matte ire municipali, le usurpazioni de’ tirannelli, onde la misera Italia fu sempre travagliata, ebbe ella a soffrire il grande mutamento operato da Carlo Magno nelle condizioni politiche della penisola, che fu lo stabilimento del sistema feudale, di cui esisteva già il principio ne’ ducati di origine longobarda. Soffermandoci a questa epoca, riuscirà niente malagevole la ricerca delle origini e della vera indole de’ possedimenti del papa.

Astolfo re de’ Longobardi erasi impadronito del l’Esarcato di Ravenna e della Pentapoli, ed avea intimato al Senato ed al popolo romano, libero allora ed indipendente, di prestargli obbedienza. Papa Zaccaria, che teneva a que’ dì (750) il Pontificato, ito in Francia, implorava protettore Pepino il Piccolo. Il quale combatté i Longobardi, e costrinse Astolfo di venire a patti, ed ebbe ceduti l’Esarcato. e la Pentapoli. Pepino ne faceva concessione alla Chiesa nell’anno detto avanti 754.

A siffatta concessione non si acquetò Desiderio successore di Astolfo; e per la morte di Pepino, mosse ostile contro Roma ed il Pontefice Adriano I, che dopo spenta la Scisma di Teofilatto e di Costantino fratello di Totone, un de grandi di Roma, era succeduto a papa Stefano IV.

Come Zaccaria a Pepino, così Adriano ricorse a Carlo Magno, che calò in Italia con poderoso esercito. Desiderio fu battuto e vinto, e si spense in lui la dominazione Longobarda, sotto la quale gl Italiani erano stati per due secoli subbietti. Carlo Magno facendo risorgere l’impero d’Occidente, confermò alla Chiesa la concessione di Pepino, e vi aggiunse il paese de Sabini. Ma 1 arcivescovo di Ravenna non cessò, anche vivente Carlo, dal contrapporre al papa le sue pretensioni e prerogative su quella città e su i paesi soggetti, come Faenza, Forlimpopoli, Cesena, Forlì, Comacchio, Imola, Bologna, ed altre.

Or la concessione largita da Pepino, rifermata da Carlo Magno, di questi primi possedimenti alla Chiesa, e per essa al Papa, costituente la origine del potere temporale, non fu certamente a titolo di Sovranità assoluta ed indipendente. La Storia e la Diplomatica ne assicurano indubbiamente, che in armonia del sistema feudale che Carlo introdusse e venne a stabilire in Italia, la concessione fu puramente e semplicemente a titolo di feudo, riserbandosi il Principe concedente l’alta sovranità su i paesi conceduti, e ricevendo in ricambio il rinnovato titolo d’Imperadore d’Occidente. E di fatto, nell’ultimo anno del secolo VIII nel dì di Natale, mentre Carlo Magno assisteva alla messa solenne, papa Leone III ponevagli da prima sul capo il diadema imperiale, e di poi prostrato a lui davanti, come a proprio Sovrano, con tutto il popolo convenuto a quella cerimonia, gridava «Salute e vittoria a Carlo, nostro augusto e pacifico imperadore, il quale ebbe la sua corona dalla mano di Dio».

Del che rimane invittamente rischiarato i primi possedimenti della Chiesa non essere stati attribuiti a titolo di sovranità indipendente, si bene a solo e mero titolo di feudo, soggetti all’alto dominio ed alla sovranità del concedente, che largiva que’ paesi non solo secondo la condizione politica dell’Italia in que’ tempi, per lo recente stabilimento del sistema feudale, ma in certa maniera come ricambio, ed a testimonio di gratitudine per aver il Papa riconosciuto esso concedente in Imperadore del rinnovato Impero Occidentale.

Comecché si eccitasse sotto le apparenze d’una quistione relativa alla investitura a’ Vescovi, non di meno nella sostanza la disputa del potere temporale del papa cominciò ad essere combattuta accanita mente, divampando vastissimo incendio nell’Europa, all’epoca di due uomini potentissimi, Papa Gregorio VII, (il monaco Ildebrando) e l’Imperadore Enrico IV. Si ridestarono allora le sopite reminiscenze, covate in animo fin da’ tempi di Ottone il Grande, e cominciò la lotta terribile trai sacerdozio e l’impero. Quanta strage non fu fatta; quante barbarie non furon commesse! Lo Scisma pur travagliava la Chiesa; ma né stragi, né barbarie, né scisma valsero a far piegare l’animo di Gregorio, o quel di Enrico.

Venuto Roberto Guiscardo aiutatore al papa, disponevasi all’assalto di Roma ribelle, che teneva per l’imperadore, quando gli riusciva di guadagnare spalancata la porta Flaminia. Nella quale congiuntura desta orrore e pietà la descrizione degli eccessi e delle crudeltà da’ Normanni commesse «Arrestate le lance, recòo le parole dello storico di Gregorio VII, i Normanni s’avventarono al varco, sfondarono la plebaglia, che con la calca Ostruiva il passeggio, e ne fece orrendo macello () Essendo già notte ferma, tutta Roma fu preda al ferro, al fuoco, al saccheggio; ché il nerbo delle truppe normanne erano i Saracini di Luceria, gente che non conosceva pietà. Le donne e le vergini, vittime di brutale libidine, patirono l’oltraggio nefando su i cadaveri de’ mariti e de padri che il musulmano avea trafitti. Il barbaro recideva le dita alle giovani spose per trarne senza stento le asella. Ai tre lati della città ardeva l’incendio che distrusse i più sontuosi edilizi. La basilica de’ santi Silvestri) e Lorenzo e tutti i tempi dal Laterano al Coliseo avvamparono e sotto le loro rovine seppellirono reliquie e tesori Roberto tre giorni imperò da padrone, facendo schiavi molti vassalli di Roma stati traditori del papa Al quarto la disperazione del popolo rinnovò la guerra e le stragi; furono versati torrenti di sangue, e Roberto abbandonò la città» (). Ecco i primi frutti amarissimi del potere temporale del papa!

Non io mi leverò a dinegare a Gregorio VII la gloria di essere stato uomo straordinario nel secolo in che visse, mente formata a grandi concepimenti, tenace, inflessibile riformatore, ma non mi rimango dal dire che la Provvidenza non arrise resisté anzi a suoi propositi; e comecché tenesse fermo inesorabilmente in vita a sostenere le sue preroga live, non di meno ei medesimo, morente in terra di esiglio, ebbe a confessare a Dio ed a tutta la Chiesa nelle ore estreme, molto aver (leccato nel tenere il Pontificato, ed a suggestione d’inferno avere contra tutto il genere umano l’odio e lo sdegno concitato (). Ed alla preghiera che volesse levar le scomuniche, di animo indomato com’era, rispose tre di prima di morire: «Escluso Enrico, cui dicono re, escluso Guiberto usurpatore della sede romana esclusi i maligni che co’ consigli e con l’opera favoriscono l’empietà di ambidue, io stendo il perdono e la benedizione di Dio su tutti gli uomini che credo no fermamente e confessano che io sono vero erede e vero vicario degli Apostoli S. Pietro e S. Paolo» ()

In questa guerra con l’imperadore, nelle traver sie durale con l’antipapa Guiberto, ebbe Gregorio a trovare un potente saldissimo ausilio nella rinomata contessa Matilde, la bella figliuola di Beatrice che vastissimo Stato possedeva nella Toscana e nella Liguria, redato dal conte Bonifacio suo padre. Della quale Matilde, ricchissima, guerriera, fanatica, e bacchettona, la vita e le gesta Sono siffattamente circondate e ripiene di favole, di dubbiezza, e d’incertezza tra la coorte degli storici e de’ cronachisti, che non saprebbesi neanco affermare con certezza storica, se avesse ella mantenuto il celibato o fosse andata a nozze, ovveramente stata fosse successivamente coniugata ad un solo marito, o a due, od anche a tre, siccome mi venne fatto, egli è qualche tempo, di toccare io una mia scrittura. Certo è soltanto che l’unico scopo dell’intiera sua vita fu l’ingrandimento della sede romana, e le sue cure furono ognora consacrate alla Chiesa (). E per questo gli scrittori papalini non si rimasero dall’encomiarla, levando a’ cieli il Coraggio guerriero di lei, e la pietà religiosa fin a riguardarla siccome l’eroina del medio evo ().   Tenendo sempre a’ fianchi assiduo consigliere un nemico implacato dell’imperadore e dell’antipapa, il vescovo Anselmo di Lucca, che moriva poi tra le sue braccia, piangendone ella amaramente la dipartita, ed accagionata eziandio dal cardinal Bennone di colpevole dimestichezza con lo stesso Gregorio, in Canossa, regina delle rocche lombarde, munitissima e ben presidiata, reputata a que tempi inespugnabile, () fece a sue instanze riparare, ed accolse, il papa, affinché sfuggisse alle insidie di Enrico. Se non che perseguitata di poi ella stessa dalle armi vittoriose, e scoraggiata da’ trionfi dell’esercito imperiale, dal quale, data battaglia, era stata sconfitta, inseguita, distruggendo i castelli, invadendo il territorio toscano, e venendo ad oste contro Firenze che avea ricusate le chiavi all’imperadore (), Matilde in questo frangente tristissimo, per giusto timore che avea di Enrico, tolse il partito e s’indusse a dichiarare Patrimonio di S. Pietro i paterni possedimenti nella Toscana e nella Liguria. E da ultimo vecchia, insensata, e sempre bigotta, venuta a morte (an. 1115), con suo testamento, come dicesi, fece legato alla Chiesa di tutti i suoi Stati. Questa è la seconda pretesa donazione, dalla quale trae origine il potere temporale del papa.

Pertanto a traguardo della storia e della diplomatica niente è più incerto, dubbioso, ed illegittimo quanto le toccate concessioni che voglionsi largite dalla contessa Matilde alla Chiesa; bastando notare innanzi tutto che manca affatto un valido titolo sincrono, una autentica scrittura, cui possa aggiustarsi piena fede, e non dovesse reputarsi viziosa ed apocrifa;manca qualsiasi testimonianza pura di suspicione, e di fondata autorità storica, con ispecialità intorno al preteso patrimonio di S. Pietro, se ne togli Donizone e Fiorentini che ne parlano, scrittori sospetti e papalini. Da vantaggio consentite anche quelle donazioni come autentiche e vere, fin ad oggidì si è disputato, se comprendessero elle i beni allodiali soltanto della contessa, ovvero eziandio i feudi, che erano ereditari di maschio in maschio, raramente in femmine, e sempre sotto la supremazia o beneplacito imperiale. Ed in fatto, indi alla morte di Matilde, l’imperadore Enrico V, succeduto al padre, non pose tempo in mezzo volendo esercitare suoi diritti su i paesi rilevanti dall’impero, discese in Italia, occupò il retaggio e tolse possesso degli Stati della contessa. Si raccese la guerra; e st disputò così a lungo, che non è nemmeno possibile forse determinare, secondo osserva giudiziosamente il Balbo, come e quando finisse la disputa, se pur non vogliasi accettare l’opinione di alcuni storici, che per intervento de’ principi di Alemagna, e per opera di due Concilii, ragunati pria a Reims, poi a Roma, le parti fra loro si acconciassero. In somma la legittimità e la legalità della donazione restò sempre avvolta tra le tenebre e le dubbiezze; ed il papa ha posseduto e possiede senza titolo certo ed autentico e, tutto al più, per amor di pace e per bonario ignoto accomodamento in quella età lontanissima posto in sodo con l’imperadore.

A coteste inferme e claudicanti origini del potere temporale, derivato e dalla concessione di Carlo Magno, e dalle donazioni di Matilde, i papi in processo di tempo, ambiziosi ed intenti senza pudore a creare signoria a’ propri figliuoli, od all’inverecondo nepotismo, che tanto danno cagionò alla civile società, non ristettero, secondo si offerse loro il destro, di aggiungere spietate ed ingiuriose usurpazioni. allargando cosi i possedimenti della Chiesa.

Recherò alquanti esempi. Alessandro vi, un Borgia pessimo e lascivo, il padre della notissima Lueresia, e di quell’insigne ribaldo Cesare, cognominato il duca Valentino, aveva al figliuolo assicurato il ducato di Romagna, che ritolse poi con novella usurpazione il papa successore Giulio II il quale usurpò eziandio e tolse Perugia ai Baglioni, Bologna a’ Bentivoglio, Ravenna e Cervia, che da un secolo innanzi eran possedute dalla Venezia.

Paolo III al suo diletto figliuolo Pierluigi Farnese, che era già duca di Castro, pugnando meritamente indi a due anni siccome usurpatore, fondava ih Italia un novello stato di Parma e Piacenza.

Clemente VIII usurpò violentemente Ferrara, che disse a lui devoluta, facendo escluso il duca di Modena, Cesare, figliuolo di Alfonso II, pretestando lui essere bastardo di casa d’Este; mentre Alfonso I poco avanti di morire, siccome invittamente ha rischiarato il Muratori, avea disposata in terse nozze la sua Laura Eustachia, la figliuola del barrettaro, tenuta per l’innanzi a suoi piaceri.

Trapassati intorno a due secoli da che Paolo. Ili contra gli oppositori delle prerogative della Chiesa e del potere temporale avea renduta la rinomatissima Bolla In Coena Domini, che avvegnacché si leggesse a Roma il Giovedì Santo di ogni anno, noi di meno non era stata ricevuta ed accettata in veruno Stato cattolico, Clemente XIII, che moriva praeter omnium expectationem, come dice la Bolla del papa successore, certo però aiutato da pietosi Gesuiti, la cui Compagnia avea in animo di abolire, ed avrebbe abolita il dì vegnente alla potte in che fu trovato estinto, Clemente in forza della enunciata Bolla usurpava, e bruscamente impossessavasi del ducato di Parma (1768), destando nell’Europa scandalose quistioni, per maniera che i re di Francia, di Spagna, e di Napoli non solo levarono querele contra l’attentato, ma senza por tempo in mezzo quel di Francia andò difilato ad impossessarsi di Avignone, e quel di Napoli di Benevento. Le quali quistioni furon spente e troncate dal papa successore, Clemente XIV, quel Fra Lorenzo Ganganelli, ito eziandio all’altro mondo con un passaporto di S. Ignazio per aver abolita la Compagnia de’ Gesuiti, avendo cotesto papa cassata e condannata all’obblio la Bolla In Coena Domini, ridonando così agli Stati cattolici la pace, turbata dalle mire ambiziose del pontefice antecessore.

Senza arrecare da vantaggio altri esempi comprovanti le usurpazioni di tempo in tempo commesse da’ papi per estendere il dominio temporale ed allargare i possedimenti della Chiesa, e quanto altro di vituperevole e scandaloso. essi fecero per apprestare signoria a’ propri figliuoli ed al nepotismo, non può revocarsi menomamente in dubbio per le cose avanti discorse, che il potere temporale del papa sia illegittimo, arbitrario, e sostenuto non da altro titolo, tranne te transazioni diplomatiche, e gli accordi de’ prepotenti monarchi, che trattarono i popoli, e si cedettero a vicenda le terre, ed eziandio gli ‘ uomini a maniera d’un branco di pecore, e peggio che schiavi, simigliami a cose fungibili e commerciabili.

I possedimenti del papa, risguardati nelle origini, sono aperte derivazioni di dubbiose incertissime sorgenti, mancanti di giusto e legittimo titolo, sia che si attende alle vantate concessioni di Carlo Magno e di Matilde, sia che volgasi sguardo alle successive usurpazioni. I papi mutarono per violentissima prepotenza la causa ed il titolo del loro possesso; ché le concessioni a mero titolo di feudo tramutarono in sovranità assoluta e indipendente; mentre caduto ché fu l’Impero Occidentale rinnovato da Carlo Magno, ossia spenta l’alta Sovranità del concedente, venne meno ad un tempo la concessione a titolo feudale, e fin d allora restarono caducate, per opera di legge, le vantate donazioni, e redintegrati i popoli nella loro libertà naturale e politica, prosciolti e redenti da ogni soggezione al potere temporale dei papi. E molto maggiormente a dì nostri, e nella penisola italiana, egli è incompatibile il potere temporale del papa, che importa, a ben vedere, la continuazione oltraggiosa e singolare di una feudalità che più non esiste, e che trovasi ornai per pubblico diritto abolita in tutta Italia, e nei reami della maggior parte dell incivilita Europa.

Che se poi si attende a paesi in processo di tempo usurpati, non accade sprecar parole per far chiarito, come ognun sa, che la usurpazione e la violenza non che non apprestano giammai legittimo diritto, ma ben ancora per decorrimento di tempo, anche immemorabile, non perdono il vizio d’illegittimità, onde sono originariamente e sostanzialmente informate.

Posta adunque l’incompatibilità assoluta del potere temporale del papa con la potestà spirituale, come si ritrae invittamente dalle dottrine evangeliche e canoniche, dalla storia, dalla diplomatica, dal diritto pubblico universale, dalle leggi positive, egli è interesse di tutti i Principi dell’Europa, e segnatamente de’ Sovrani cattolici, egli è interesse di tutti gli Stati e di tutte le nazioni, che cessi ornai, e venga meno un potere anormale, tenendosi il Pontefice Sommo della cristianità quella potestà altissima soltanto, che vennegli da Cristo conferita, potestà che non ha pari su la terra, e che avanza immensamente qualunque umano potere, qualsiasi dignità di tutti i monarchi del mondo. Quantunque volte al papa con sufficienti guarentigie rimane assicurata l’indipendenza decorosa del potere spirituale, l’indipendenza della Chiesa, non può egli arrecare in mezzo diritto veruno né divino, né umano a tenere possedimenti signorili, dominazione temporale, popoli soggetti «Pasci le mie pecorelle» cosi disse Cristo; non disse già a Pietro «sii Sovrano della terra, sii Signore di popoli italiani». Pasci le mie pecorelle, disse Cristo; il che importa conduci tutto il mondo, tutti gli uomini, dall’un polo all’altro della terra, al regno eterno dei cieli, al conquisto dell’eterna salute, alla compiuta felicità ne’ regni immortali. Questa è la missione divina del papa; questo è il regno della Chiesa. 

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IX

Toccherò brevemente della Venezia. ché le storie speciali di tutte le nazioni tengono una pagina, nella quale sta scritta incancellabile la indipendenza mantenuta dalla famosa repubblica Veneta, che stette imperturbata. come torre salda che non piega per infuriar de’ venti, a mezzo le vicende politiche, le guerre desolatrici che nel volger de’ secoli funestarono l’Italia.

Dalla fondazione delle sue democratiche instituzioni (an. 697) intese ad estendere la sua dominazione e la sua potenza: ed essa solamente sostenne intera la sua fama nel secolo X, quando l’Italia, disputata da Guido di Spoleti e da Berengario del Friuli, era in preda alla confusione ed all’anarchia; e nel successivo secolo XII, quando l’Italia sventuratamente dilacerata dalle matte fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini, dové soccombere alla forza prepotente delle armi degl’imperadori Alemanni;e da ultimo ne’ secoli XV e XVI, quando l’Italia era travagliata dalle gelosie municipali, delle guerre fratricide delle piccole emule repubbliche, e dalle invasioni straniere, sollecitate da Ludovico il Moro, il primo gran traditor d’Italia. Nè fu menomamente scossa o turbata, anzi riuscì salva, e sempre indipendente a fronte di una guerra mortale, ond era minacciata per la famosa Lega di Cambrai formatasi contra di lei tra le potenze principali d’Europa.

Tra tante agitazioni e vicende politiche, Venezia grande in terra ferma e nella Dalmazia; temuta in Oriente; signora di Cipro, di Candia; padrona assoluta del commercio del Levante, riuscì mirabilmente a far sempre rispettare, ed a mantenere invulnerata la sua indipendenza nella bilancia politica dell’Italia e degli altri Stati.

L’Europa pareva riposarsi nella pace all’ombra del Trattato di Aquisgrana; ma in sul tramonto del secolo passato(1789) la rivoluzione francese, ed i successivi avventurosi destini del gran capitano del secolo, di Napoleone, tutto quanto sconvolsero il suo sistema politico. Nel quale solo frangente, la Venezia, giunta ornai all’ultimo stadio di sua gloria e di sua grandezza, ebbe a perdere nome, libertà, e territorio per violenza del temuto conquistatore, per aggressione delle armi fortunate, e fu parteggiata; a gran vergogna d’Italia, tra la Francia e l’Austria.

Qual è dunque il legittimo diritto che possa mai giustificare al barbaro straniero il possedimento della Venezia, che per lunghi secoli fu gelosa e mantenne inviolata la sua libertà ed indipendenza? I popoli italiani del Veneto per effetto di convenzioni diplomatiche, informate dell assolutismo dispotico, e della violenza soverchiatrice, viventi sotto il peso d una servitù abbiettissima, possono eglino rimanere abbandonati a crudel servaggio, e non farsi redenti e raccomunati alla madre comune, all’Italia? La natura creò libere in sino alle bestie: epperò le province Venete, chiuse nel diritto naturale de popoli, possono elle non reclamare l’originaria indipendenza, e riunirsi alle altre province italiane sotto lo scettro di un re costituzionale? Ed il dominio Austriaco in Italia non è forse un insulto politico, un’amara ironia, una oltraggiosa violenza, cui resistono la civiltà de’ tempi, la ragione universale, i novelli principi, umanitari e liberali, del diritto pubblico dell’Europa? 

X

Poste le quali cose, non è più a lungo comportevole che si lasciasse tuttavia pendente ed indeciso lo scioglimento delle quistioni romana e veneta; e non abbiasi perciò a formare l’Italia unificata ed indipendente, e risorgere poderosa e splendidissima la nazionalità italiana, siccome è voto unanime de’ popoli della penisola.

Napoleone III che tiene ornai per sé una bella e gloriosa pagina nella storta contemporanea, uomo di mente ardita, profondo politico e riformatore, vedrà di leggieri quanto torni esiziale alla pace dell’Italia, anzi dell Europa e della cristianità, l’indugio che tuttavia frammette con la sua politica a non far deporre al papa il potere temporale. Non mi caccerò tra le spine delle ragioni diplomatiche che potessero per avventura consigliare siffatto indugio; né mi fermerò ad investigare se pur ragioni dinastiche facessero piegare l’imperadore a mostrarsi tuttavia arrendevole a’ voti dell’episcopato e dei chericato francese, che pende nella maggior parte à favoreggiare la causa del papato. Parmi soltanto dover enunciare che a Napoleone, principe cattolico, dovrebbe interessare che il papa abdicasse al potere temporale, ovveramente, richiamando di Roma le armi francesi, si lasciasse non vincolata e libera la volontà popolare ne’ paesi soggetti al papa; e liberi restassero eziandio gl’italiani di tutta la penisola a revindicare la propria nazionalità, e l’integrai territorio formante l’Italia non che dalla soggezione al papa, ma ben ancora dalla schiavitù dello straniero.

E dissi che e’ sarebbe questo interesse di Napoleoni, siccome principe cattolico, ché la quistione dei disputato potere temporale del papa nella contrarietà delle opinioni, nelle difformi tendenze e simpatie degli animi tracredenti dell’Italia, ed eziandio della Francia, e degli altri stati cattolici dell’Europa, accenna per mala ventura ad ingenerare una Scisma, che sarebbe fatale a tutta la cristianità, prodacitrice di deplorevoli conseguenze, e durevole forse più che non fu la grande scisma d’Occidente. Che Napoleone, e gli altri principi cattolici dell’Europa si accontentino una volta che l’Italia sorgesse Una e cattolica, fuori il potere temporale del papa; né credano senza fondamento l’ingrato vaticinio, che sperda Iddio, che avversando questo principio, 0 intrammettendo più lungo indugio, secondo che gli animi de’ popoli son predisposti, si vada incontro, presto o tardi, a promuovere la brutta e dete’ stevole scisma.

Parmi anco da dar conto come siesi dato ad intendere, che la quistione romana potesse andar risoluta al seguito del ritorno compiuto della calma e della tranquillità nelle province meridionali d’Italia per le turbazioni interne onde sono di presente commosse. No; cotesto assunto esprime un trovato diplomatico, include evidentemente una petizione di principio ché il brigantaggio onde sono infeste e turbate le province meridionali tiene il punto di partenza da Roma, ed il saldo appoggio nella corte papale, nella curia romana, nel potere temporale del papa, li quale appresta ospitale accoglimento e stanza sicura al Borbone, ai suoi satelliti, a’ suoi briganti. Come potrà essere intera la calma restituita alle province meridionali se di Roma non saranno snidati il Borbone e gli assolutisti, che non cesseranno mai dall’ordire acerbi fatti, e somme sceleraggini? E come cotesti implacati, apertissimi i nemici d’Italia i avversatori crudeli della libertà. popolare e delle liberali iostituzioni, potranno mai’ scacciarsi di Roma, se non vien meno, e non sia levata via quell’ombra di re nel potere temporale del papa? Dicasi aperta la verità: un monarca irremissibilmente detronizzato; un altro monarca che necessariamente dee detronizzarsi, il Borbone ed il Papa, ecco i due nemici della libertà italiana, ecco i nemici delle province meridionali. Che se a questi si aggiunga l’Austria fedigrafa, barbara, incivile, questi tre insieme sdu eglino i nemici eterni della Europa, gli spietati conculcatori de’ diritti inviolabili de popoli, gli autori e ad un tempo i fautori ‘malvagi delle politiche turbazioni, delle intestine discordie onde sono agitati i reami del continente.

Di qui è che l’orizzonte politico dell’Europa sembra buio e minaccioso d’un tempo fortunevole: l’attitudine armata in tutte parti accenna, se non ad altro, a tenersi gli Stati muniti e parati a difesa. Per la qual cosa l’odierno reame d’Italia ha pur d’uopo di montare poderosa la sua armata. Quali che saranno le vicende, e gli eventi; quali che’ saranno i venturi destini dell’Europa, l’Italia coraggiosa e forte delle. proprie armi, farà da sé pel riconquisto dell’antica sua gloria, per la redenzione dei popoli di tutte le sue regioni, per riprendere trai fulgore delle armi posto onorato tra le nazioni, siccome fu sempre regina e maestra a tutte nelle scienze, nelle lettere, nette arti. L’Italia farà, e dee fare da sé: Iddio aiuta i forti: l’appoggio e la speranza nell’ausilio di armi. straniere riuscì sempre ad ingiuria, ed a’ danni della nazionale indipendenza; né sarà più mai che l’Italia pugnasse col braccio di straniere genti per servir sempre o vincitrice, o vinta. 

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XI

Restami or di dire de’ provvedimenti, siccome ho cennato avanti, che sembrano opportuni, e van reclamati instantemente nelle odierne condizioni di Napoli e dell’Italia. Farò di enunciarli soltanto; ché sotto conseguenti dalle cose discorse, ed e sembrano di tanta evidenza da non abbisognare; nè’ punto né poco, di contento, o d illustrazione..

Riduco a quattro, secondo che io credo, cotesti provvedimenti; e verrò sponendoli, indirizzando da buon italiano, da fedel suddito rispettosa e reverente la parola al re galantuomo, al magnanimo Vittorio Emmanuele. E dico da prima: a Sire, occhio e dimora aiutano il vero: venite a Napoli; traportatevi col governo centrale in questa nobile, antichissima metropoli: visitate personalmente le province meridionali: i popoli vi saluteranno, vi acclameranno, vi benediranno. Il popolo che nulla tace, per comun voce vi ama, vi desidera. Con la vostra giustizia, con la clemenza, con la prudenza, Voi saprete provvedere al meglio delle esigenze e de’ bisogni di nove milioni di popolo, che vi hanno eletto a loro padre e Sovrano, ed attendono dalla vostra sola presenza lo immegliamento delle loro odierne condizioni, e de loro venturi destini: la calma e la fiducia, fuori ogni dubbio, saranno cosi restituite».

«Secondamente, l’attuale Ministero non ha secondate le vostre intenzioni; non ha studiate, né conosciute le esigenze, non ha provveduto a’ veri bisogni del popolo in questa parte meridionale d’Italia. Il governo centrale non si arrende e non risponde alle severe interrogazioni della scienza governativa. La Vostra prudenza, o Sire, saprà ben che farsi su questo proposito d’importanza gravissima».

«In terzo luogo, armate, o Sire, la nazione. Voi valoroso, intrepido soldato, strenuo duce, circondatevi di un’armata poderosa, che possa lasciarci indipendenti dall’ausilio straniero, e formare della nostra patria comune una nazione temuta, che con la propria forza sappia ridonare a sé stessa l’antica gloria mantenersi difesa da ogni ostile aggressione».

«Da ultimo rialzate, o Sire, il partito di azione. Non concedete largo favore, si che possa sbrigliato trasmodare senza assennata direzione, senza maturità di consiglio, senza impulso meditato. Fate però di ristorarlo dall’avvilimento, dalla prostrazione, dall’ingiurioso abbandono in che vedesi umiliato. Ancor vive l’invitto Garibaldi. Il partito di azione assennatamente revindicherà l’Italia dagli elementi far compatibili alla sua formazione, alla sua compiuta unificazione ed indipendenza.»

«Questi sarebbero i provvedimenti. Esaudite, o Sire, il voto unanime de’ vostri italiani non compri al mendacio, de vostri sudditi gelosi ed amanti della vostra gloria, della vostra grandezza, della vostra dinastia».

Il mio impegno è compiuto. Dissi di Napoli e dell’Italia come mi consigliarono l’amor di patria e la verità intransigibile. Che sia prestamente provveduto a ristorare le sorti delle province meridionali; a rendere compiuta l’unità e la redenzione di tutta Italia, spero in Vittorio Emmanuele.

Facendo fine, il bisogno pare stringente, ripeto. Non sarò in opposito profeta di tristo augurio: no, non sorga mai di che abbiasi a dire dell’Italia «ossa aride profetate» né che per colpa degli Italiani l’orgoglioso e barbaro straniero possa ripetere «sillaba di Dio non si cancella». No, non sarà mai; l’Italia e la croce Sabauda, Dio aiutatore, trionferanno de’ loro nemici; l’Italia sarà una, potente, gloriosa.

ESTIO LEUCOPETRO
Antonio Alfieri D’Evandro
NAPOLI
STABILIMENTO TIPOGRAFICO DI G. GIOIA
Vicoletto Mezzocannone, n. 4
1861

NEL DÌ OTTAVO DI NOVEMBRE MDCCCLXI
Al SUOI CONCITTADINI ONESTI LIBERALI
Al VERI PATRIOTI ITALIANI
AI VERI PROPUGNATORI DELL’ITALIA UNA INDIPENDENTE
AI VERI AMICI DI RE VITTORIO EMMANUELE
QUESTO OPUSCOLO
NON A PREMIO NÉ A FAVORE VENDUTO
IMPAVIDO SPOSITORE DEL VERO
L’AUTORE INTITOLAVA

fonte

https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1861-LEUCOPETRO-Napoli-e-Italia-2019.html

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