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NATALE A NAPOLI, LE SETTE MERAVIGLIE DELLA TRADIZIONE

Posted by on Dic 22, 2020

NATALE A NAPOLI, LE SETTE MERAVIGLIE DELLA TRADIZIONE

La tradizione del Natale a Napoli comincia con il presepe e passando per la tombola, arriva alle specialità culinarie e dolciarie tipiche di quel periodo di feste. Spaghetti con le vongole, baccalà e capitone, “ciociole”, roccocò, raffiuoli e cassatine, gli struffoli e altro ancora non possono mancare in nessun cenone che si rispetti.

Il presepe, dal Settecento in poi, e il simbolo principale del Natale a Napoli. La tombola invece è un momento di aggregazione delle famiglie nel dopo pranzo delle festività natalizie.

Eppure, i napoletani mentre all’aspetto gastronomico del Natale continuano a dedicare la stessa passione del passato, altrettanto non si può dire del presepe e della tombolata.

1 – IL PRESEPE

Naturalmente non in termini assoluti. Dire che il presepe e l’arte presepiale a Napoli siano superati dai tempi sarebbe una bestialità. San Gregorio Armeno, la strada dei pastori, è diventata un’attrattiva turistica. Qui è Natale tutto l’anno.

Infatti, con sughero e terracotta i maestri costruiscono presepi e plasmano pastori. Da diversi anni tra i personaggi classici del presepio vengono inseriti quelli con le fisionomie dei personaggi famosi della politica, dello spettacolo e dello sport con un occhio di riguardo alle figure che entrano o fanno parte della storia del Napoli.

Visitando questa strada è possibile vedere anche i maestri al lavoro nella loro bottega. Con qualche difficoltà di accesso nei periodi da novembre alle feste natalizie dove ci si muove trascinati dalla folla. 

Quindi a Napoli il legame tra Natale e presepe è indissolubile.  Quello che è cambiato è il rapporto dei napoletani con il presepe.

La fine del presepe fatto in casa

Eduardo De Filippo in Natale in casa Cupiello fa quello che si faceva in un gran parte delle case napoletane fino alla metà del secolo scorso. Ogni famiglia aveva il suo “maestro” allestitore di presepi.

natale in casa cupiello
Eduardo col presepe di “Natale in casa Cupiello”.

Ognuno aveva la sua tecnica, il suo stile e i suoi segreti. Alcuni erano bravissimi altri si arrangiavano ma l’importante era che il presepe, essenziale o maestoso, ma fatto con le proprie mani, fosse presente in casa.

La scelta dei pastori determinava anche il valore e la qualità dell’opera. Ce n’erano, e ci sono, di ogni prezzo, misura e caratteristiche.

Le statuine classiche del presepe napoletano sono di terracotta fatte a mano, come quelle di San Gregorio Armeno.

Ma rischiarono di sparire quando negli anni ’60 iniziò la produzione in enormi quantità dei pastori di plastica molto più economici.

I meno fedeli alla tradizione e alle regole dell’arte presepiale “non si fecero scrupolo” di utilizzare per i propri presepi i pastori di plastica ma suscitando la commiserazione dei veri appassionati.

I tempi del presepe

Il presepe dovrebbe essere allestito entro l’8 dicembre, giorno dell’Immacolata, ed essere riposto dopo il 6 gennaio. Inizialmente è ancora privo di 4 personaggi fondamentali. Uno è Gesù bambino che verrà poggiato nella mangiatoia alla mezzanotte di Natale e i tre Magi che “arriveranno” nel giorno dell’Epifania.

Oggi ancora nella maggior parte delle case napoletane si trova il presepe. Di varie forme e dimensioni ma molto raramente gli antichi fai-da-te. È molto comune invece trovare la sola grotta con la Sacra famiglia, il bue e l’asinello.

I tempi sono cambiati. Difficile immaginare oggi una persona che per settimane, o più, armeggia in casa con sughero, listelli, colla a caldo, carta da imballaggio, cartone ondulato e tanto altro alla ricerca dell’artificio più efficace a fornire realismo alla propria opera.

Storia del presepe napoletano

In un atto notarile risalente agli inizi dell’anno Mille, comparve per la prima volta l’accenno ad un presepe.

Nel 1340 la regina Sancia d’Aragona, moglie di Roberto d’Angiò, legatissima, come il marito stesso al francescanesimo, regalò un presepe alle Clarisse della Monastero di Santa Chiara, annesso alla basilica che lei stessa aveva fatto costruire. Di questo presepe è rimasta solo la statua della Madonna che è conservata nel Museo di San Martino.

Oggi invece proprio all’interno del Monastero di Santa Chiara sono conservati numerosi presepi realizzati a Napoli durante il regno di Ferdinando IV di Borbone. Non a caso questa passione del Re Nasone coincide con il periodo aureo del presepe napoletano che va dal Settecento a buona parte dell’Ottocento.

Durante questi anni nobili e famiglie ricche commissionavano i loro presepi a grandi artisti e importanti scultori.

Ferdinando IV si affidava, per la realizzazione delle figure dei presepi che collezionava, nientedimeno che a Giuseppe Sanmartino, l’autore del Cristo Velato. Il grande scultore acquisì una tale competenza nella materia e si appassionò al punto di avviare una vera scuola di arte presepiale.

Si allarga la scena del presepe

Il presepe napoletano è divenuto famoso dopo che nel Seicento allargò la scena tradizionale formata solo dalla stalla e dalla sacra famiglia. Sviluppò una sorta di villaggio intorno al nucleo tradizionale.

La staticità della struttura precedente prese vita con l’ingresso di nuove figure tratte della vita popolare quotidiana. Un’ambientazione però che non è quella della nascita di Gesù ma un’immagine della Napoli del Settecento, con i suoi pastori, artigiani, venditori ambulanti e contadini.

Nelle opere più raffinate veniva curato persino l’abbigliamento dei personaggi in base alla posizione sociale. Si va dagli abiti laceri dei personaggi popolari a quelli ricchi e ricamati delle figure di prestigio. La cura dei particolari determinava anche il pregio delle figure.

I presepi storici più belli da vedere sono: il Presepe Cuciniello al Museo di San Martino e Presepe della Cappella Palatina di Palazzo Reale, di proprietà del Banco di Napoli. Un presepe fantastico anche se non si trova a Napoli è quello della Reggia di Caserta.

Natale a Napoli: presepe Cappella Palatina
Presepe della Cappella Palatina del Palazzo reale di Napoli. Proprietà del Banco di Napoli

I personaggi del presepe napoletano

Alcune figure non debbono mai mancare in un presepe napoletano degno di considerazione.

Il primo è Benino. Rappresenta i pastori dormienti a cui gli angeli delle Sacre Scritture comunicarono la buona novella. Nella tradizione napoletana Benino rappresenta il pastore che dorme e sogna il presepe. Quindi il presepe stesso è un sogno di Benino, o Benito, per cui se venisse svegliato sparirebbe presepe.

Ciccibacco ‘ncopp ’a votta (Ciccibacco sulla botte). Guida un carro che trasporta botti ed è trainato da un bue. Su una delle botti siede Ciccibacco. Una commistione di sacro e profano. Riferimento al paganesimo e a Bacco, lascivo dio del vino. Vino che invece nel Cristianesimo, insieme al pane, diventa il Corpo di Cristo nell’istituzione dell’eucarestia.

Il pescatore, con ovvio riferimento al pescatore di anime e al pesce, simbolo dei primi cristiani che non potevano raffigurare immagini divine senza incorrere nelle gravi sanzioni previste dalle leggi romani.

Zi’ Vicienzo e zi’ Pascale, detti anche i due compari, rappresentano il Carnevale e la Morte. Ziì Pascale si ritrova anche tra i crani del Cimitero delle Fontanelle. Alla “capa e Pascale”, venivano attribuiti poteri vaticinanti per cui veniva interpellata per conoscere i numeri da giocare al Lotto.

Fruttivendola del presepe napoletano
Scene di strada con mercato

Il monaco del presepe napoletano non è una figura mistica. Al contrario è burlone e dispettoso come il leggendario “Munaciello”. Simboleggia l’unione tra il sacro e il profano.

La zingara è una ragazza appariscente ma mal ridotta nell’abbigliamento. Tra le sue capacità quelle della chiaroveggenza. Raffigurata spesso con un bambino tra le braccia. Qualcuno ritiene ci sia una correlazione con la Sibilla Cumana.

Tra i tanti mestieri rappresentati non poteva mancare quello più antico del mondo. La prostituta rappresenta l’erotismo in contrapposizione alla verginità della Madonna e alla Natività.

I re magi seguono la stella cometa per raggiungere la grotta dove è nato Gesù. Portano in dono oroincenso e mirra. Nella tradizione antica arrivavano su tre diversi animali, il cavallo, il dromedario e l’elefante che rappresentano rispettivamente l’Europa, l’Africa e l’Asia.

Un mestiere per ogni mese

Prevista anche per ogni mese dell’anno una categoria di venditori di cibo:

  • Gennaio: macellaio o salumiere.
  • Febbraio: venditore di latticini e formaggi.
  • Marzo: pollivendolo e venditore di uccelli.
  • Aprile: venditore di uova.
  • Maggio: una coppia di sposi reca un cesto di ciliegie e di frutta.
  • Giugno: panettiere o farinaro.
  • Luglio: venditore di pomodori.
  • Agosto: venditore di cocomeri.
  • Settembre: venditore di fichi o seminatore.
  • Ottobre: vinaio o cacciatore.
  • Novembre: venditore di castagne.
  • Dicembre: pescivendolo o pescatore.

2 – TOMBOLA DI NATALE A NAPOLI

Dopo gli abituali banchetti delle festività del Natale a Napoli, nella fase dell’inevitabile abbiocco è necessario rianimare un po’ l’ambiente.

Natale a Napoli: una classica tombola napoletana
Classica tombola napoletana

Quindi i convitati si riuniscono con il “panariello”, che contiene i bussolotti numerati da estrarre, e le cartelle, composte ognuna di 3 cinquine a disposizione dei giocatori e si parte con la Tombola. Un Bingo casareccio. Anche se per un diritto di primogenitura è il Bingo ad essere una Tombola trasformata in business.

In ogni caso, la tombolata familiare è, almeno in teoria, un momento di relax dopo il lauto pasto. Nella realtà non sempre lo è. Spesso i giocatori, nonostante il clima natalizio, si lasciano trasportare dall’ardore della contesa e si scaldano oltre la giusta misura. Insomma, si prendono molto sul serio.

Ma fino ad un certo punto. Alla fine della competizione prevale lo spirito festaiolo e riposte cartelle e “panariello” si ritorna allegramente a discutere di attualità e argomenti di interesse condiviso.

Tuttavia politica e sport rischiano inevitabilmente di riaccendere gli ardori sopiti.

3 – INSALATA DI RINFORZO

Quest’insalata dal nome piuttosto ambiguo è un piatto che non può mai mancare nel menu del cenone di Natale. Un piatto a base di cavolfiore con l’aggiunta di olive verdi, acciughe salate, “papaccelle”, un tipo di peperoni rossi e tondi, sottaceti vari e condito con olio e aceto.

natale a napoli: insalata di rinforzo
Insalata di rinforzo

È un piatto ricco e sostanzioso ma perché viene definito “di rinforzo”? Sono talmente tante le ipotesi che è molto più lecito supporre che non lo sappia nessuno. Vediamo comunque le ipotesi più diffuse, poi ognuno potrà scegliere quella che gli sembra più verosimile.

Una delle tesi è fondata sulla necessità di un rinforzo “energetico”. Infatti, il cenone di Natale è ritenuto magro con spaghetti e piatti a base di pesce.

Almeno in teoria. Infatti, il verdetto della bilancia nei giorni successivi lascia qualche dubbio sul basso contenuto calorico di questa cena.  

Il rinforzo potrebbe riferirsi anche all’aggiunta degli ingredienti che durante tutto il periodo natalizio tendono a consumarsi. Infatti, abitualmente l’insalata viene accompagna a tutti i pasti da Natale a Capodanno. Quindi in questo caso il rinforzo va all’insalata che gradualmente perde la “grinta” iniziale.

Secondo alcuni il rinforzo sarebbe fornito al sapore del cavolfiore dall’aceto e dalle acciughe salate. Altri lo vedono addirittura come stuzzichino per rafforzare l’appetito in vista del cenone.

4 – CAPITONE E BACCALÀ

La tradizione di portare a Natale il capitone in tavola ha la funzione simbolica di esorcizzare la cattiva sorte. Il capitone viene identificato con il serpente biblico che sedusse Eva e cercò di fare altrettanto con la Madonna.

Quindi la quintessenza della malvagità. Anche se il tentativo con la Madonna fu un disastroso fallimento e lo fece ritrovare con la testa schiacciata dal piede Vergine.

Così, come l’uomo sulla terra paga le conseguenze del peccato originale commesso da Adamo ed Eva, il povero capitone paga la somiglianza con il malvagio rettile.

capitone
Capitone fritto

E ad eseguire la sentenza sono chiamate le donne che devono decapitarlo, tagliarlo e cucinarlo per ricordare la disubbidienza della progenitrice.

Il consumo e la tradizione del capitone non è più quella che era fino alla metà del secolo scorso. In quegli anni Natale senza capitone in tavola era impensabile. Nonostante, portarlo in tavola fosse tutt’altro che facile.

Non si lasciava tagliuzzare senza opporre resistenza. Era più scatenato del diabolico serpente biblico. E in cucina si combatteva una dura battaglia.

Capitone o anguilla?

Oggi la scelta è abbastanza semplice. Si va in pescheria e si compra il capitone. In quegli anni non era così. Con tanti estimatori c’erano tanti intenditori, o presunti tali. E come ittici Guelfi e Ghibellini si combattevano i fautori dell’anguilla e quelli del capitone.

Ma qual è la differenza tra l’anguilla e il capitone? In teoria solo di sesso, l’anguilla è il maschio e l’altro la femmina. Ma non è proprio così.

Il capitone può raggiungere il metro e mezzo e pur essendo un pesce riesce a sopravvivere fuori dall’acqua anche 48 ore.

Può vivere senza problemi in acque dolci o salmastre ma la scelta del suo habitat preferito sarà definitiva. Ha una vita molto lunga e può arrivare fino a 50 anni. Il termine deriva dal latino caput ovvero testa.

L’anguilla è il maschio appartenete alla stessa famiglia ed è conosciuto anche come “ceca”. Le sue dimensioni sono molto ridotte rispetto alla femmina. Attualmente è molto difficile da trovare in commercio.

Infatti si vende quasi esclusivamente il capitone, tenuto vivo nelle apposite vasche.

In commercio si trova anche quello congelato ma ad un napoletano ancora amante della tradizione sarebbe quasi un’offesa proporglielo. Può essere cucinato in molti modi ma nel Natale partenopeo deve essere fritto come il baccalà.

Uno storico estimatore delle anguille di Lesina fu Federico II di Svevia. Lui le preferiva alla scapece, vale a dire fritte e poi marinate sott’aceto.

Si narra che l’imperatore per farsi mandare questi pesci dal lago di Lesina si sia rivolto addirittura alla curia di Foggia, con una lettera datata 28 febbraio 1240.

Il baccalà fritto

Il baccalà è un altro piatto tipico che non può mancare sulle tavole di Natale a Napoli. Ma il baccalà in Campania si consuma durante tutto l’arco dell’anno in tutte le sue varianti e le innumerevoli ricette.

baccalà fritto
Baccalà fritto

La tradizione lo vuole fritto e in pastella nel cenone di Natale e di fine anno. Riuscire a rifiutarlo quando arriva in tavola caldo, profumato e croccante è quasi impossibile.

Baccalà è il nome comunemente usato per definire tutta la gamma di prodotti ittici di questo tipo. Si tratta di merluzzi pescati nei mari del nord e puliti direttamente sul luogo di pesca.

Una prima suddivisione tra quelli arrivati in Italia avviene in base al tipo di lavorazione cui vengono sottoposti: stoccafisso e baccalà.

Il baccalà è conservato sotto sale, lo stoccafisso viene fatto essiccare al sole e a volte anche affumicato.

Mussillo e coriniello

Il baccalà è tipo che viene fritto per il cenone di Natale. Una seconda suddivisione riguarda i filetti che rappresentano la parte più pregiata e gustosa di entrambi i tipi. “Mussillo” per il baccalà e “Coriniello” per lo stoccafisso.

A Napoli era considerato il cibo dei poveri perché i ricchi lo rifiutavano perché troppo salato. I napoletani ne facevano largo consumo, non solo per i prezzi molto contenuti ma anche per rispettare divieto al consumo della carne nei giorni di astinenza.

Il venerdì era tra questa e la dieta delle famiglie meno ambienti, più rigida fino agli anni ’50-’60 del Novecento, prevedeva appunto baccalà. Non era particolarmente gradito ai bambini.

Oggi le cose sono cambiate. Il baccalà, specie le qualità più pregiate, se non un alimento per ricchi, certamente è diventato poco accessibile ai meno abbienti.

5 – ‘LE CIOCIOLE’ DEL NATALE A NAPOLI

Le “ciociole” sono la definizione che raccoglie quei prodotti che chiudono i pasti del periodo natalizio, prima dei dolci. Frutta seccanocinocciolemandorle e volendo anche pistacchi e arachidi.

frutta secca
Frutta secca

C’è chi ha cercato astruse e complicate provenienze del termine ma probabilmente c’è andato molto più vicino chi lo ha ritenuto un termine onomatopeico. Infatti, “cio cio” è il rumore proveniente dal cestino quando si sceglie la noce, la nocciolina o altro.

Nel cestino non devono nemmeno mancare ’e castagne d’o prevete (le castagne del prete) così dette perché in origine erano prodotte da alcuni monaci della provincia di Avellino. Tuttavia, nonostante l’evidenza di questa paternità qualcuno ha voluto fantasticare ne è nata una leggenda.

Il protagonista è un prete che sovraccaricò il suo mulo con una enorme quantità di castagne ricevute in dono. La povera bestia per il peso eccessivo della soma o forse per l’imperizia del padrone, incespicò rovesciando nel fiume l’intero carico di castagne.

Da zimbello dei concittadini a geniale creatore

caldarroste
Caldarroste

I compaesani attribuirono alla goffaggine del curato la disavventura e lo sbeffeggiavano con le loro battutine velenose. Tuttavia, il reverendo anche se si era dimostrato imbranato non si dimostrò altrettanto arrendevole.

Tornato a casa con le sue castagne inzuppate provò a recuperale infornandole. Il risultato fu straordinario. Le castagne sottoposte a quel trattamento risultarono molto gustose e apprezzate. In omaggio all’involontario creatore vennero denominate, appunto, le castagne del prete.

Oggi Montella con la produzione di castagne ha ottenuto il marchio Dop per tutta l’Irpinia. Nel trattamento delle castagne del prete, si parte dal prodotto umido che si mette ad essiccare per dieci giorni su graticci all’interno di apposite strutture. La fase successiva è la tostatura in forni ad altissima temperatura. Infine, vengono immerse in bidoni di acqua e vino per restituirne la giusta morbidezza.

6 – STRUFFOLI E DOLCI DEL NATALE A NAPOLI

Gli struffoli sono un dolce tipico del Natale a Napoli. Un dolce composto da un gran numero di palline di pasta (realizzata con farinauovastruttozucchero, un pizzico di sale e liquore all’anice) che non dovrebbero superare il centimetro di diametro.

struffoli
Struffoli napoletani

Dopo l’impasto e la preparazione vengono fritte in olio o, per i meno attenti al colesterolo, nello strutto. Dopo che si sono raffreddate vengono condite con miele caldo che le avvolge totalmente, quando sono già disposte nel piatto di portata.  

Generalmente si realizza una forma a ciambella, ma non è importante. Importante invece la decorazione con frutta candita, pezzetti di zucchero e diavoletti, cioè confettini colorati. Per i salutisti esiste anche la variante che non prevede la frittura. La cottura delle palline avviene in forno.

Gli struffoli come tanti altri dolci entrati a far parte della tradizione napoletana non sono nati a Napoli. Il babà viene attribuito ad uno scatto d’ira di un re polacco “esiliato” in Baviera. La sfogliatella pare sia nata in un indefinito convento della costiera amalfitana. La pastiera si fa risalire addirittura a qualche migliaio di anni fa ad opera delle sacerdotesse di Cerere per celebrare il ritorno della primavera.

Struffoli, strangolapreti o piñonate

Tuttavia, questo richiamo a lontane provenienze è a volte un poco forzato. Tanto più che questi dolci sono diventati quelli che conosciamo oggi solo dopo l’elaborazione di pasticcieri o conventi napoletani e hanno poca attinenza con i presunti progenitori.

Gli struffoli sarebbero stati portati dalle nostre parti dai greci. E la prova sarebbe la derivazione del termine “struffolo” dal greco “strongoulos” che vuol dire arrotondato e “pristos”, tagliato. Quindi con un po’ di fantasia, struffolo sarebbe un’assonanza di “strongoulos pristòs” cioè pallina tagliata. Se questa è la prova della provenienza greca sorgono molti dubbi.

L’assonanza di “strongoulos pristòs” sembra molto più vicina a strangolapreti, altro nome con cui vengono volgarmente definiti gli struffoli, perché per la loro compattezza potrebbero strozzare delle persone particolarmente avide. E chi se non i preti, e i prelati in particolare, sono tacciati di questo peccato?

Molto più verosimile sembrerebbe essere la provenienza andalusa. Infatti, in quella cucina esiste il piñonate, dolce molto simile agli struffoli con una leggera differenza nelle palline che sono più allungate. Se a questo aggiungiamo i tre secoli di dominazione spagnola a Napoli, le probabilità sono veramente numerose.

E ancor più se si considera che gli struffoli sono entrati a far parte dei dolci tipici della cucina natalizia napoletana non prima del Settecento. Quindi qualche millennio dopo l’arrivo dei Greci.

Roccocò

roccocò
Roccocò

Tra i dolci della tradizione del Natale a Napoli merita una certa considerazione il “roccocò”, il più amato dai dentisti. Quello che potenzialmente gli potrebbe procurare non pochi clienti tra quelli che addentano il roccioso dolce senza le dovute accortezze.

Potrebbe sembrare, e forse è, un’esagerazione ma la durezza del roccocò è fuori discussione. Infatti, la prima precauzione prima di mangiare il coriaceo dolce è quello di spaccarlo in due parti.

Bisogna anche dire che il rischio odontoiatrico sarebbe scongiurato se secondo l’antica tradizione fosse prima imbevuto in un vino liquoroso e poi mangiato.

Tanto per cambiare anche questo dolce pare sia nato dalla creatività pasticciera delle monache. In questo caso quelle del Real Convento della Maddalena.

Paste di mandorle o paste reali

A quelle di San Gregorio Armeno, le stesse che sfornavano pastiere in grande quantità per i nobili, andrebbe il merito delle paste di mandorle o paste reali. Ma i diritti d’autore sono alquanto contesi.

paste reali
Paste reali

Infatti, mentre i Siciliani le mettono tra i loro dolci tipici, ed è vero, c’è chi sostiene che lo sono diventate solo in seguito. A portarle sarebbe stato Ferdinando IV, re di Napoli, che era rimasto fulminato dalla loro bontà dopo averle assaggiate nel Convento delle suore napoletane.

Secondo la leggenda il Re Nasone, che pure in quanto a voracità non era secondo a nessuno, si ritrasse davanti ad un tavolo imbandito con innumerevoli ghiottonerie.

Su insistenza delle suorine si convinse ad assaggiare qualcosa ma con sua grande sorpresa quei manicaretti, aragostecacciagione e ogni ben di Dio non erano altro che dolci scolpiti e dipinti a mano.

La pasta reale è un dolcetto colorato dalle forme più svariate e poggiate su una base di ostia. E leggende a parte i migliori artigiani di questa lavorazione si trovano proprio in Sicilia. Anzi le origini si fanno risalire al 1100 nel convento palermitano della Martorana.

Mustaccioli

mustaccioli napoletani sono dei biscotti sia a pasta dura che pasta morbida, con miele e un mix di spezie tipico della tradizione napoletana, detto pisto. Il tutto glassato con cioccolato.

Susamielli

Susamielli, sono dolci molto antichi con una caratteristica forma ad esse e, tanto per cambiare, sono nati in convento. In questo caso quello delle Clarisse di Santa Maria della Sapienza nel centro storico di Napoli.

dolci di natale
Dolci di Natale a Napoli

 Il nome deriva dalla ricetta con cui venivano preparati contenente tra gli ingredienti il sesamo ed il miele.

In passato venivano preparati in tre varianti a seconda dei destinatari. Quelli dei nobili, ovviamente i più raffinati. Quelli dello zampognaro, costituiti da farina grezza e ingredienti riciclati. Quelli del buon cammino per il clero.

La ricetta dei giorni nostri è quella dei nobili. Preparazione con farina bianca di prima scelta. Anche questo dolce è arricchito con pisto.

Paste del Divino Amore

Le Clarisse di San Gregorio Armeno furono le creatrici delle paste del Divino Amore. Che sia storia o una leggenda pare che le suore prepararono questi dolcetti per Beatrice di Provenza, madre di Carlo d’Angiò.  

Questi dolci sono fatti di pasta di mandorlecanditi e ricoperti prima di marmellata di albicocche e successivamente di glassa di zucchero. Le pasticcerie tradizionali napoletane ne hanno sempre un po’ di scorta durante tutto il periodo natalizio, quindi sono di facile reperibilità.

Raffiuoli napoletani

raffiuoli o raffioli in italiano, sono dei dolci molto simili nella forma romboidale ai mustaccioli. Sono preparati con una pasta simile al pan di Spagna e ricoperti con una glassa di zucchero.

Raffiuoli o raffioli

Ennesimo prodotto della “pasticceria” delle monache di San Gregorio Armeno, nel centro storico di Napoli. È strano quindi che come si è ipotizzato si siano ispirate alla forma dei ravioli freschi che sono tipici della cucina del Nord Italia.

Nel Settecento quindi anche i napoletani cucinavano i ravioli freschi? Questi dolci non sono facilmente deperibili quindi possono essere conservati durante tutto l’arco delle feste natalizie e anche dopo.

La cassatina

La cassatina è un dolce tipico della tradizione natalizia di partenopea. Una miniatura della più famosa cassata siciliana. È sicuramente più leggera e meno elaborata ma nonostante questo una bomba calorica.

Rispetto all’originale siculo il dolce agli ingredienti comuni aggiunge la pasta di mandorla.

La forma classica è a forma di una semisfera. La farcitura di crema di ricotta con gocce di cioccolato e glassa bianca risulta a qualcuno troppo dolce.

Pur essendo un dolce tipico del Natale, è possibile trovarlo nelle pasticcerie durante tutto l’anno, sempre monoporzione e di dimensioni più ridotte.

7 – LA MINESTRA MARITATA

’A menesta ’mmaretata cioè “la minestra maritata” è un antico piatto tradizionale della cucina partenopea. Il matrimonio di cui si dice nel nome è quello tra la verdura e la carne.

minestra maritata
Minestra maritata

La minestra maritata era detta anche “pignato grasso” per le caratteristiche dei suoi ingredienti. L’unione delle varie verdure e i diversi pezzi di carne di maiale danno un sapore molto ricco al piatto ma di certo non proprio magro.

In contrapposizione ci sarebbe un’antica e famosa zuppa di fagioli e scarole, detta “pignato magro”, per l’assenza di carne nella sua preparazione.

La tendenza salutista dei giorni nostri e la lunga elaborazione della minestra maritata, pur rimanendo un piatto tipico del Natale a Napoli, ha perso molto dell’antica diffusione.

Le trattorie tradizionale si sono adeguate ai tempi e ne servono una versione meno magra ma senza snaturare la ricetta di base.

Alcuni studiosi ritengono che di una ricetta simile ne parli già Marco Gavio Apicio, gastronomo e scrittore di circa duemila anni fa.

Ma sembra essere più realistica l’ipotesi che a Napoli fu portata dagli Spagnoli nel 1300. Infatti dal nome della ricetta spagnola, “Olla Potrida“, letteralmente “pentola marcia” si potrebbe arrivare a “pignato grasso” progenitrice della finestra maritata.

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1 Comment

  1. COMPLIMENTI: M’è venuta fame!

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