NICOLA GRATTERI PARLA DI…..SE

“Ogni volta che mi guardo allo specchio scopro di assomigliare sempre di più ai miei genitori. Le radici sono tutto. Mia madre e mio padre mi hanno fatto capire l’importanza del sacrificio, dell’onestà e dell’amore verso il prossimo.
Io sono il terzo di cinque figli. Da mio padre
ho preso la rettitudine, ma anche la sobrietà dei sentimenti. Ricordo che i
miei erano misurati anche quando succedeva qualcosa di cui gioire. Dicevano:
«Pari bruttu», sembra brutto gioire eccessivamente, faremmo un torto a chi sta
peggio di noi e non ha motivo di rallegrarsi.
Mio padre Francesco, negli anni Cinquanta, aveva comprato un piccolo camion con
cui trasportava cereali e ghiaia nei paesi della Locride, in Calabria, per
conto di agricoltori e imprenditori della zona. Poi rilevò un negozio di generi
alimentari da suo zio e cominciò a vendere pasta, ma anche vino che produceva
in proprio con l’uva acquistata a Cirò. Gli ultimi quindici anni della sua vita
li ha vissuti su una sedia a rotelle, in seguito a un ictus che lo privò anche
della parola.
Era taciturno, parlava con gli occhi. Da piccolo io ero vispo, non stavo mai
fermo. E bastava uno sguardo di mio padre per mettermi in riga. Spesso le
prendevo. E mi ricordo ancora oggi tutte le ragioni per le quali mio padre mi
dette qualche ceffone. Ma la cosa che ricordo di più è la sua generosità. Aveva
un appezzamento di terreno dove coltivava di tutto. E ogni anno ammazzava due
maiali, uno per la famiglia e un altro per i poveri. Era una festa, c’era il
senso della comunità. Quando poi acquistò il negozio di generi alimentari,
diventò ancora più triste. Odiava stare fermo dietro un bancone. A Gerace quasi
tutti acquistavano con la “libretta”, a credito. Pagavano una volta
all’anno con i soldi ricavati dalle vendite delle bestie alla fiera della
Madonna del Carmine.
«Poveretti,
devono mangiare pure loro» diceva per giustificare i continui ritardi nei
pagamenti. Mia madre era simile a mio padre, anche lei molto parca nella
manifestazione dei sentimenti. Ma sapeva essere dolce, affettuosa. Era anche
molto forte. Pesava le persone con lo sguardo e i suoi giudizi erano
cassazione. Non si sbagliava mai sulle persone. Come mio padre, aveva studiato
poco. Mi pare che avesse fatto la terza elementare.
Ai suoi tempi, le ragazze, più che a scuola, andavano dalla sarta a imparare a
cucire. Anch’io ho fatto quella trafila. E di questo sono grato ai miei
genitori. Da piccolo ogni estate andavo a imparare un mestiere. Ho fatto il
calzolaio con mastro Felice, ma anche il meccanico, il panettiere e il
manovale.
Ho imparato a stare e a vivere tra la gente, a capire l’importanza del lavoro e
del sacrificio.
Ho frequentato le elementari a Gerace e le medie e il liceo scientifico a
Locri. A Gerace dove ho avuto insegnanti molto sensibili mi sono trovato subito
a mio agio. Eravamo tutti figli di gente modesta. A Locri invece ho studiato
con figli di professionisti o comunque con gente molto diversa economicamente
dalla mia famiglia e dalle mie abitudini che erano molto frugali.
Ricordo il mio compagno di banco. Era un ragazzo taciturno. Gli avevano
ammazzato il padre in un agguato di mafia. Quando gli facevo qualche domanda si
infastidiva. Molti anni dopo fece la fine del padre. Era entrato nello stesso
giro. In classe con me c’era anche la figlia di un noto boss della ‘ndrangheta,
mentre un compagno di giochi me lo sono trovato di fronte in un’aula di
tribunale. Abitava vicino a mia zia Savina, la sorella di mio padre, in
contrada Gabella, a Locri. Giocavamo a nascondino. Era un ragazzo molto
generoso, anche lui figlio di contadini. Da grande cominciò a frequentare il
clan Cataldo. Durante una perquisizione la polizia gli trovò in casa un
arsenale. Come pubblico ministero chiesi e ottenni la sua condanna per
associazione a delinquere di stampo mafioso, detenzione di armi e munizioni da
guerra. Ci siamo guardati negli occhi e, senza parlare, ci siamo detti tante
cose. Poi le nostre strade si sono nuovamente divise.
Oltre a essere vispo, io studiavo poco. Avevo una memoria di ferro e riuscivo a
ricordare tutto ciò che gli insegnanti dicevano in classe. Poi, arrivato a
casa, prendevo la bicicletta e pedalavo per ore. Ogni tanto giocavo anche a
calcio, ma non ero bravo. Poi comprai un ciclomotore e cominciai a provare
l’ebbrezza della velocità. Correvo come un pazzo.
Lavoravo, mi davo da fare. Nel 1974, dopo aver aiutato i miei nella pigiatura
dell’uva, con il Caballero di un amico andai a fare una passeggiata a Locri.
Era settembre, faceva ancora caldo. Feci incautamente una inversione a U e
venni travolto da una Citroën. L’impatto fu tremendo. Sono stato in coma per
dodici giorni, e tre mesi senza camminare.
Mio padre legò il motorino a una trave del garage e fui costretto a camminare a
piedi.
L’anno dopo accadde qualcosa che cambiò la mia vita.
Mio zio Antonino, il fratello di mia madre, si ammalò seriamente. Gli
diagnosticarono un tumore al pancreas e si spense in poco tempo. Era un
avvocato civilista molto apprezzato. Conosceva i classici e recitava a memoria
le tragedie di Shakespeare.
Negli ultimi mesi della sua vita dormivamo nella casa di nonna Sina, la sera mi
fermavo davanti al suo letto e rimanevo incantato dai suoi ragionamenti. Capii
che dovevo cambiare vita. E cominciai a studiare. Dopo la maturità scientifica,
mi iscrissi alla facoltà di Legge dell’università di Catania. E lo feci per evitare
Messina, dove si erano iscritti molti amici e conoscenti della Locride. Ho
cominciato a studiare come un pazzo. Mi facevo la barba una volta alla
settimana, di sera non uscivo quasi mai e leggevo di tutto.
Ero ossessionato dal trascorrere del tempo. Mangiavo yogurt, pomodori e panini.
Dormivo pochissimo, mi addormentavo quasi sempre con la luce accesa. Una notte,
durante un temporale, un cortocircuito provocò l’incendio della termocoperta,
delle lenzuola e di parte del materasso. Anche in quella circostanza, la sorte
è stata dalla mia parte. Ma dormivo poco anche perché mi sentivo in colpa con i
miei.
Non
volevo gravare più del dovuto sulle loro finanze. Mio fratello e mia sorella
erano andati all’università prima di me, a casa c’erano altri due figli che
ancora studiavano. E mio padre non stava più bene. Anche lui si stava spegnendo
lentamente su quella sedia a rotelle, con gli occhi lucidi e l’orgoglio di
sempre. Riuscii a laurearmi in quattro anni.
Alla cerimonia con me c’era solo il mio compagno di stanza, Antonio Angelico,
che oggi fa l’avvocato in provincia di Siracusa. Provai molta gioia, ma quando
tornai a casa feci finta di nulla. Anch’io come mio padre ho imparato a
centellinare le emozioni.
Ho avuto sempre in mente di fare qualcosa per la mia terra. Ho sempre odiato i
prepotenti. Dopo la laurea in Giurisprudenza, mi è subito balenata l’idea di
fare il concorso in magistratura, ma me la sono tenuta per me. Ho frequentato
per un po’ lo studio che era stato di mio zio. E poi ho cominciato a prepararmi.
Due anni, senza tregua, inchiodato a una sedia. Nessuno sapeva che cosa stessi
facendo. Mi venivano in mente le parole di mia madre ossessionata dall’idea di
non fare brutta figura.
Quante volte le ho sentito dire le stesse parole. Non bisogna fare brutta
figura, perché altrimenti la gente parla. E noi non dobbiamo dare nell’occhio.
Ho superato lo scritto, arrivando diciassettesimo su dodicimila candidati e poi
ho superato l’orale. Anche in quell’occasione, con mio padre ci siamo parlati
con gli occhi. Mia madre invece mi ha dato una pacca sulle spalle e mi ha
detto: non dimenticare mai chi sei e da dove vieni. Ai miei devo molto,
soprattutto ora che non ci sono più. Non finirò mai di ringraziarli.
L’impatto con il mondo della magistratura è stato entusiasmante.
Ho avuto dei colleghi che mi hanno aiutato a capire meglio questo mestiere.
Dopo due anni da uditore a Catanzaro, dovetti prendere una decisione
importante: la scelta della sede. C’erano posti vacanti a Sanremo, Venezia,
Brescia e Torino, ma io scelsi di restare in Calabria, dove sono nato.
Non è stata una scelta sofferta. Non c’è posto migliore di quello in cui sei
nato e cresciuto. Ho deciso di restare, pur sapendo di andare incontro a molte
privazioni. Ma l’ho fatto con la convinzione di poter contribuire a risolvere i
problemi di questa terra. Io sono rimasto accanto alle mie radici per costruire
il futuro, il mio e quello della mia famiglia.
Non mi sono mai pentito di quella scelta. Anche se ci sono stati momenti
difficili. Ricordo la mia prima indagine. Feci arrestare l’assessore alla
Forestazione e, in seguito a quel provvedimento, la giunta regionale fu
costretta a dimettersi. Cominciarono così i primi problemi. Minacce al
telefono, lettere minatorie. Qualcuno esplose alcuni colpi di pistola contro
l’abitazione della mia fidanzata, seguiti da una telefonata: stai per sposare
un uomo morto. Il Comitato per l’ordine e la sicurezza mi assegnò una scorta.
Intervenne anche l’Associazione nazionale magistrati e, alla riunione che ne
seguì, un collega più anziano cercò di dare un’interpretazione diversa alle
minacce, ipotizzando che a sparare fosse stato un rivale in amore. Capii che
non sarebbe stato facile fare il magistrato. E che forse mia madre aveva
ragione a diffidare anche della propria ombra.
Nel 1993 ci furono altre minacce. Un collaboratore disse che stavano per
preparare un attentato contro di me. C’era un’aria molto pesante attorno a me.
Avevo fatto diverse indagini sui traffici di droga, nei quali erano coinvolti i
clan della Locride, e il tuffo improvviso nell’universo della ’ndrangheta era
stato appassionante, intenso e formativo. A Platì, per esempio, avevo scoperto
come le principali famiglie di quel paese avessero strappato ai proprietari
un’intera montagna che sconfinava nel comune di Varapodio. Molti avvocati mi
rimproveravano di assecondare troppo il lavoro delle forze dell’ordine.
Prestavo attenzione a ogni minimo segnale.
La mia famiglia ha reagito con preoccupazione, comprendendo che non c’era
alternativa. Non avrebbe avuto senso vivere da vigliacchi.
Nel 2005 due ’ndranghetisti sono stati intercettati mentre discutevano nel
carcere di Melfi di come far saltare in aria me e la mia scorta. «Perché tutto
questo sangue?» chiedeva uno dei due. E l’altro: «Perché Gratteri ci ha rovinato».
Qualche giorno dopo nella piana di Gioia Tauro venne scoperto un arsenale:
pistole, lanciarazzi, kalashnikov, un chilo di plastico e alcune bombe a mano.
Ho cercato di mantenere i nervi saldi e di continuare nel mio lavoro. Per
fortuna non mi annoio mai. Ormai sono abituato. Con la morte bisogna convivere.
Quando è morto mio padre non sono potuto andare neanche al funerale. Era un
momento particolare, anche allora si parlava di attentati.
Mi sono sempre mosso con estrema cautela, evitando sia le false complicità che
gli atteggiamenti autoritari o arroganti. Non ho mai umiliato nessuno, abusando
del mio potere. Ma ho sempre preteso che il mio ruolo venisse riconosciuto.
Tra me e loro c’è sempre stato un tavolo di mezzo. Il lavoro del magistrato consiste anche nel padroneggiare una griglia interpretativa dei segni. Per un calabrese come me, rientra nell’ordine delle cose. Nella ’ndrangheta tutto è messaggio, tutto è carico di significati. A volte i silenzi valgono più di mille parole. Non esistono particolari trascurabili.
Quella in trincea è anche una vita di rinuncia. Per i profili di sicurezza, la mia vita privata è fortemente condizionata dal lavoro che faccio. Negli ultimi vent’anni non sono mai entrato in un cinema, né ho potuto seguire una partita di calcio allo stadio o fare una passeggiata sul corso. Ma a due cose non ho mai rinunciato. La prima è coltivare la terra. La seconda è andare nelle scuole per spiegare ai giovani perché non conviene essere ’ndranghetisti. La passione per l’agricoltura l’ho ereditata da mio padre, perché a Gerace, dove vivo con mia moglie e i nostri due figli, abbiamo sempre avuto della terra e l’abbiamo sempre coltivata.
Sono i miei momenti di libertà. Parlare con i giovani è altrettanto gratificante perché è come lavorare la terra, coltivare nella speranza di raccogliere frutti. Un mio caro amico, Antonio Nicaso, quando abbiamo scritto La Malapianta, mi ha chiesto qual è il primo pensiero quando mi sveglio. Ho risposto: «Quello di potermi guardare allo specchio, senza avere nulla da rimproverarmi.
E l’ultimo? «Addormentarmi con la coscienza a posto». Hans Kelsen, un grande giurista, diceva che il singolo non può raggiungere mai la felicità individuale perché l’unica felicità possibile è quella collettiva. La felicità sociale si chiama giustizia, che non è qualcosa di già dato, ma qualcosa che bisogna costruire giorno per giorno. Questa tensione verso la giustizia caratterizza tutta la vicenda umana, senza questa idea di giustizia non può esistere la libertà, non può esistere la felicità, non può esistere il progresso”.
Nicola Gratteri
segnalato da Patrizia Stabile