OTTAVIO CICCHINELLI UN MAESTRO DEL REGNO IN ALTA TERRA DI LAVORO
La scuola primaria nel Regno di Napoli (nella prima metà del 1800)
- Nel Regno di Napoli la scuola primaria, obbligatoria e gratuita per i meno abbienti, nacque durante il “decennio francese”.
La nascita fu sancita da due decreti reali: uno emanato nel 1806 dal re Giuseppe Bonaparte e uno, a integrazione dell’altro, emanato nel 1810 dal re Gioacchino Murat.
Il fine era quello di assicurare un minimo di istruzione ai figli del popolo, per prepararli ad essere cittadini responsabili, efficienti nel lavoro e partecipi nella vita dello Stato, in omaggio ai principi di “liberté”, “egalité” e “fraternitè”.
Praticamente ai sindaci si ordinò di istituire le scuole primarie e ai genitori si ordinò di mandare i figli a scuola.
Sennonché furono proprio i sindaci ed i genitori che frapposero le resistenze maggiori:
I sindaci accamparono pretesti (“Mancavano i fondi… Mancavano gli alunni da istruire e quelli che c’erano, erano sparsi per la campagna…”;
I genitori non riuscivano a spiegarsi l’utilità dell’istruzione, visto che i loro figli erano destinati a coltivare i campi e ad allevare il bestiame, due mansioni, queste, che non richiedevano il saper leggere e scrivere.
Alle donne poi l’istruzione era ancora meno utile, poiché esse erano destinate a rimanere in casa ad allevare i figli e a sbrigare le faccende domestiche, altre due mansioni che non richiedevano una perizia particolare. Senza contare poi che le donne, se avessero imparato a leggere, avrebbero potuto mettersi a sfogliare i libri “profani”, compromettendo così la loro innocenza, che, nell’immaginario maschile, coincideva con l’ignoranza, l’unica che permettesse alle donne di rimanere pure e limpide come l’acqua di fonte).
- Poi i francesi andarono via e a Napoli tornò Ferdinando di Borbone (“IV” come ex Re di Napoli e “I” come “Re delle Due Sicilie”). Il quale neanche lontanamente pensò di abolire i due decreti sull’istruzione. Anzi li trovò talmente utili che volle mandarli ad effetto istituendo una “Commissione suprema di P.I.”, che aveva il compito di costringere i comuni a istituire almeno una scuola maschile e almeno una femminile in ogni comune.
E, siccome mancavano le aule, consentì ai maestri e alle maestre di utilizzare la loro abitazione per insegnare agli alunni, ma ad una condizione: che in casa del signor maestro non ci fosse qualche presenza femminile e in casa della signora maestra non ci fosse qualche presenza maschile. Poiché i sessi andavano separati sempre e comunque, anche, ad es., nell’entrare in chiesa (gli uomini per una porta e le donne per un’altra); nel fare la “spiega” del catechismo (i maschietti in un angolo della chiesa, le femminucce in un altro angolo); nel seppellire i morti (gli uomini in una sepoltura, le donne in un’altra)[1].
Ma siccome oltre alle aule mancava tutto il resto (arredi, sussidi didattici ecc.), qualcuno fece la seguente considerazione: “La Chiesa da sempre ha insegnato il catechismo, le preghiere, gli episodi del Nuovo e del Vecchio Testamento ed ora, per completare l’opera, perché non potrebbe insegnare anche il resto (cioè lettura, scrittura, aritmetica, storia, ecc.)? E fu così che l’istruzione pubblica venne appoggiata alla Chiesa o, più propriamente, ai vescovi.
- Ogni vescovo, nella sua diocesi, divenne una specie di provveditore agli studi “ante litteram”. Egli infatti tutto poteva:
- a) scegliere il maestro (tra quelli proposti dal comune);
- b) controllarne l’operato (tramite gli “ispettori”, che erano ecclesiastici, neanche troppo istruiti, che si presentavano a scuola, osservavano e poi riferivano);
- c) autorizzare la corresponsione dello stipendio (se il maestro s’era comportato bene);
- d) proporre modifiche e aggiustamenti nelle materie di studio e nell’orario scolastico;
- e) accordare premi e castighi agli insegnanti e agli alunni.
Ma il problema più grave era quello dei maestri. Dove trovarli? Si ricorse agli ecclesiastici, gli unici che possedevano un poco di istruzione. Essi in un primo tempo accettarono l’incarico. Ma poi constatarono che l’orario di servizio troppo pesante e lo stipendio era troppo leggero.
In quanto al servizio, bisognava insegnare per due ore e mezza al mattino e altrettanto nel pomeriggio, senza escludere qualche ora all’alba se c’erano alunni che dovevano lavorare nei campi e qualche ora alla sera dopo che gli alunni erano tornati dal lavoro nei campi; poi alla domenica (almeno nella diocesi di Sora) bisognava accompagnare gli alunni a messa e nel pomeriggio bisognava portarli a spasso per il paese o, se pioveva, intrattenerli a casa del maestro. Però c’erano anche diverse vacanze: nel mese di Ottobre (forse perché gli alunni dovevano aiutare i genitori nel lavoro dei campi, che in quel mese diveniva più intenso); nel periodo natalizio, in quello pasquale e in occasione del Carnevale, il giovedì e la domenica, in tutti i venerdì di Marzo, nei “giorni di gran gala”[2]. Tuttavia il servizio risultava ugualmente pesante. Per contro lo stipendio era molto leggero: nei casi migliori era di 30/40 ducati annui (che spesso si riducevano a 20, a 10 o anche a meno). Un manovale guadagnava il doppio (con i suoi 20-25 grana giornalieri, moltiplicati per 250-300 giorni lavorativi all’anno, davano un guadagno annuo di 60-70 ducati).
Allora gli ecclesiastici rinunciarono all’insegnamento.
Mancando gli ecclesiastici, si ricorse ad un’altra categoria di persone “istruite”: gli artigiani, che, bene o male, avevano imparato a prendere le misure (al cuoio, alla stoffa, al legname); avevano imparato a fare un po’ di conti, a stilare e sottoscrivere un contrattino… Avevano un poco di istruzione, insomma (Beati monoculi in terra caecorum) e pertanto potevano insegnare ai bimbi del paese. Solo che gli artigiani avevano famiglia, e questa non poteva essere mantenuta con lo stipendio di un maestro; perciò i maestri-artigini si misero a fare il doppio lavoro: insegnavano e nello stesso tempo svolgevano il loro mestiere. Ma per fare le due cose, decurtavano l’orario scolastico. Da qui, liti e discussioni con i genitori e con gli amministratori comunali (questi ultimi ebbero un motivo in più per ritardare, decurtare o negare lo stipendio).
Da Napoli allora si proibì ai maestri di insegnare in casa. Poco male. Gli artigiano si organizzarono così: si facevano assegnare l’incarico per insegnare, ma poi lo cedevano a persone di loro fiducia, con le quali dividevano lo stipendio. Così a scuola si presentavano, non i titolari (che erano stati scelti accuratamente dal vescovo), ma i sostituti, che normalmente passavano il tempo nelle bettole e perciò a volte si presentavano a scuola mezzo ubriachi o si abbandonavano ad atteggiamenti non proprio in linea con la dignità di un docente).
- Un altro problema era costituito dal metodo, cioè dal modo di insegnare. Quello praticato era quello ereditato dagli antichi egizi, greci eromani: consisteva nel comunicare il sapere a chi non lo possedeva. Così il sacerdote comunicava dall’altare (o dal pulpito) e il maestro comunicava dalla cattedra; gli altri dovevano solo ascoltare, comprendere e memorizzare, senza aggiungere o cambiare alcunché. Il successo dipendeva da due fattori: la chiarezza nell’esposizione (da una parte) e la capacità di comprendere e memorizzare (dall’altra).
Però, grazie ad alcuni intellettuali ed alcuni pedagogisti, si apportarono alcune modifiche, suggerite, più che altro, dal buonsenso.
- a) Si eliminò la lingua latina (che almeno nella scuola primaria non serviva) e si optò per la lingua materna (lingua italiana parlata in loco).
- b) Si dette vita a gruppi omogenei di alunni, tenendo conto dell’età e dell’esperienza acquisita: cioè i bambini di 5 o 6 anni che non erano mai stati a scuola, andarono a formare un certo gruppo o classe; quelli più grandicelli o che erano già stati a scuola, andarono a formare un altro gruppo, in modo che ai primi si parlasse in un certo modo e ai secondi si parlasse in un certo altro modo.
- c) Ogni materia venne divisa in lezioni collegate tra loro, in modo tale che ogni lezione si ricollegasse a quella precedente e fosse di preparazione a quella successivaa).
- d) Si fece una distinzione tra scuola primaria (con modi, tempi e contenuti propri) e scuola secondaria (ciascuna con modi, tempi e contenuti propri).
Così migliorato, il metodo si definì “normale”. Si chiamò anche “simultaneo”, poiché, con le classi omogenee, il maestro poteva insegnare “simultaneamente” ad un numero più alto di alunni.
Si trattava pur sempre, però, di un metodo “analitico”, che procedeva cioè di particolare in particolare, poiché allora si pensava che la mente umana potesse percepire solo un particolare alla volta. Così nella scrittura (che era separata dalla lettura (tanto che qualcuno sapeva leggere ma non sapeva scrivere e qualcun altro sapeva scrivere ma non leggere), si partiva dagli elementi più semplici (dalle lettere dell’alfabeto, si passava alla sillaba, alla parola e quindi alla frase). Per arrivare alla frase, però, si impiegava uno o due anni. Nel frattempo l’alunno s’era stancato e preferiva andarsene a lavorare o giocare nei campi.
Oggi questo metodo non si usa più. Si fa l’esatto contrario, poiché si è scoperto che la mente umana prima conosce globalmente e solo successivamente scopre i particolari. Se ad es. mettiamo una matita in mano ad un bambino di un paio di anni e lo invitiamo a raffigurare (ad es.) la mamma, il bambino traccia, se ne è capace, un cerchio: un insieme importante, per lui, dove ancora però non si distinguono i particolari; solo dopo un certo tempo il bambino aggiungerà due linee in basso (le gambe), quindi due linee ai lati (le braccia), poi un cerchietto in alto (la testa), infine i capelli, gli occhi, il naso ecc. A scuola pertanto le materie vengono presentate prima a larghe linee e poi nei particolari. Ad es. nella storia partiamo dalle grandi epoche storiche, nella geografia dalle grandi aree geografiche o dai grandi problemi di carattere geografico. E nella scrittura (che è unita alla lettura) partiamo dalla frase o, meglio, da un’esperienza vissuta dagli alunni e riassunta in una frase; dalla frase passiamo parole, dalle parole alle sillabe e dalle sillabe alle lettere dell’alfabeto (grosso modo). Così facendo, otteniamo risultati apprezzabili: nel giro di qualche settimana gli alunni leggono e scrivono con sicurezza e speditezza. Nel passato neanche dopo due o tre anni di scuola gli alunni riuscivano a fare altrettanto, come attesta il vescovo Montieri in una lettera ai “signori parrochi e vicari foranei della diocesi di Sora”.
Quindi il metodo di insegnamento nel passato era piuttosto macchinoso, ripetitivo e poco produttivo. Però ad un certo punto si arricchì di un’invenzione geniale: il “mutuo insegnamento”, che consisteva nel dividere la classe in gruppi, affidando poi ciascun gruppo ad un tutor (un alunno più bravo degli altri, che faceva ripetere la lezione ai compagni, mentre il maestro sorvegliava, pronto ad intervenire in caso di necessità).
In verità non si trattava di una novità assoluta, poiché il mutuo insegnamento era stato usato nell’antichità (presso gli Egizi e i Greci) e si usava ancora presso alcuni popoli primitivi. Ma venne elevato a sistema da due benemeriti inglesi, Joseph Lancaster (che operò in Inghilterra a favore dei bambini poveri, che pagavano metà retta) e Andrew Bell (che operò in India a favore degli orfani di guerra). Il metodo ebbe un successo tale, che si propagò rapidamente sia in Inghilterra che in altre regioni europee (Francia e Italia specialmente), soprattutto perché con un solo maestro si poteva insegnare ad un gran numero di alunni.
Due erano le condizioni per attuare il mutuo insegnamento: classi abbastanza numerose (da potersi dividere in gruppi) e maestri sufficientemente preparati (nel programmare e nel condurre quel tipo di attività). Queste condizioni si trovavano solo nelle grosse città (Napoli, Palermo, Catania) e perciò solo in quelle città si poté attuare il mutuo insegnamento (a Napoli molto attivo fu l’abate Scoppa, che a Parigi aveva seguito dei corsi di aggiornamento). Dopo i fatti del 1820, queste scuole suscitarono delle perplessità, poiché non sembravano perfettamente in linea con i “principi di autorità e di subordinazione”; ma intervenne personalmente il Re per “risparmiare alcune scuole mutue della capitale e quelle di Palermo”[3].
- La scuola primaria, dunque, fu avviata ed anche discretamente sostenuta; ma non dette risultati apprezzabili. Per quali motivi la scuola non dette i risultati sperati? Sicuramente per la mancanza di esperienza, sicuramente per la ristrettezza dei mezzi; ma sicuramente anche per la mancanza di idee chiare in materia di istruzione pubblica. In quel tempo infatti esistevano diverse opinioni in proposito: alcuni erano favorevoli, alcuni erano contrari ed altri erano favorevoli con riserva.
- a) Erano favorevoli gli intellettuali ed alcuni alti prelati della Chiesa, i quali ritenevano che comunque l’istruzione avrebbe dirozzato i costumi e migliorato le capacità produttive. I vescovi sorani della prima metà del 1800 in particolare (Lucibello, Mazzetti e Montieri) erano convinti che tutti i mali della diocesi (che erano tanti) derivassero quasi esclusivamente dall’ignoranza, che era molto diffusa anche tra le persone ritenute istruite. Il vescovo Montieri specialmente si adoperò moltissimo sia per istituire le scuole (almeno una maschile ed una femminile in ogni comune) sia per farle funzionare al meglio e a tal fine emanò anche un regolamento (composto da 11 articoli), con cui definì l’orario delle lezioni, la materie da studiare, il comportamento dei maestri (che doveva essere attento e premuroso verso tutti gli alunni)[4].
- b) Erano contrari coloro che stavano bene ed avevano interesse a mantenere le cose così come stavano: proprietari terrieri, ricchi commercianti, industriali, aristocratici, professionisti. Temevano che le masse contadine, una volta istruite, avebbero potuto accampare diritti fino ad allora ignorati ed avrebbero potuto anche cambiare mestiere: in tal caso, chi avrebbe lavorato la terra? chi avrebbe prodotto il necessario per vivere? L’istruzione generalizzata, dunque, costituiva un pericolo per l’assetto socio-economico esistente e quindi non andava incoraggiata.
- c) C’erano poi i favorevoli… a metà, che dicevano: l’istruzione sì, ma a tre condizioni: 1) che sia un’istruzione piccola piccola, poiché non c’è bisogno che diventino tutti “scienziati”; 2) che l’istruzione si ritagli ad ogni singola classe sociale, in modo che i figli dei contadini ricevano un’istruzione adatta ai contadini, che i figli degli artigiani ricevano un’istruzione adatta agli artigiani, che i figli dei militari ricevano un’istruzione adatta ai militari… In modo che ognuno continuasse a lavorare sulla scia del mestiere paterno (poiché la paura era che, istruendosi, ognuno se ne andasse poi a fare l’avvocato o il medico o l’ingegnere… e nessuno rimanesse a lavorare la terra)[5]; 3) che l’istruzione formi sudditi operosi, pacifici e obbedienti alle leggi e alle autorità costituite (che andavano accettate così come esse erano).
Le valutazioni sull’istruzione pubblica, quindi, arano diverse e spesso contrastanti. Forse fu per questo che il Governo Borbonico si astenne dall’adottare provvedimenti drastici e risolutivi, che pure si sarebbero dovuti adottare, se vi voleva far funzionare al meglio la scuola primaria.
Invece da Napoli si continuò a spedire circolari, richiami, ordini e raccomandazioni: tutti provvedimenti cartacei, che poco incidevano sulla situazione reale.
E così la scuola continuò a trascinarsi nell’incertezza e nell’approssimazione.
Altrove invece qualcuno ebbe il coraggio di adottare decisioni radicali. In Piemonte, ad es., nel 1848 si emanò la legge Boncompagni, con cui si stabilì un principio fondamentale (che poi fu fatto rispettare): l’istruzione pubblica compete esclusivamente allo Stato ed è lo Stato che provvede a tutto. 11 anni dopo seguì la legge Casati, che praticamente ricalcava la legge Boncompagni e che venne poi estesa a tutte le altre regioni italiane, man mano che queste venivano occupate dalle truppe piemontesi. Nacque così l’ordinamento scolastico italiano (quello attuale), che si rifà, come la legge Casati, ad un principio scaturito dalla Rivoluzione Francese, questo.
- In uno Stato moderno e veramente civile, la prima preoccupazione deve essere quella di istruire i cittadini, poiché un popolo ignorante non apprezzerà mai il valore della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà umana, della divisione dei poteri, della partecipazione, della giustizia e di tutte quelle altre “cosette” elencate puntualmente nella nostra Carta Costituzione. Ora, siccome i privati potrebbero perseguire fini diversi o contrari al principio enunciato, è lo Stato che si fa carico dell’istruzione pubblica. Questa è obbligatoria e gratuita nei primi anni, facoltativa nei gradi successivi; ma a tutti indistintamente è data la possibilità di percorrere tutti i gradi dello studio, dalla scuola materna all’università ed anche oltre (facilitazioni sono concesse ai meno abbienti). La struttura verticistica (con organi centrali e periferici), ossia il sistema degli ordini che partono dal centro e si diramano alla periferia, ha un duplice scopo: assicurare a tutti la effettiva possibilità percorrere tutti i gradi dello studio e conferire all’istruzione un minimo di omogeneità su tutto il territorio nazionale (altrimenti ogni regione avrebbe un certo tipo di istruzione, il che non gioverebbe all’unità culturale (ma anche politica, economica e amministrativa) dello Stato.
[1] Nella chiesa di Vicalvi la cappella di S. Carlo aveva due sepolture: una per i maschi e una per le femmine; a Posta Fibreno il vescovo di Sora minacciò l’interdizione della chiesa, se non si fosse smesso di tumulare maschi e femmine nella stessa sepoltura).
[2] Onomastico del re o della regina, nascita di un principe ecc.
[3] Grande Dizionario Enciclopedico, Roma 1970, VIII, p. 1102.
[4] Poiché in quel tempo anche tra gli alunni esistevano delle divisioni: quelli benestanti potevano scegliere tra scuola privata e scuola pubblica; gli altri, i poveracci, dovevano accontetarsi della scuola pubblica, ma venivano divisi in due categorie: “foresi”, che lavoravano i campi situati “fuori” del centro abitato, e “terrazzani”, che rimanevano in città (erano figli di artigiani, impiegati, aristocratici ecc.). I foresi andavano a scuola la mattina presto e dopo qualche tempo se ne andavano a lavorare nei campi; invece i terrazzani osservavano l’orario regolare (ore 2,30 al mattino e altrettante al pomeriggio) e questo non andava bene, per Montieri, poiché anche i foresi avevano diritto ad un’istruzione completa e perciò dovevano essere trattenuti a scuola per tutto il tempo stabilito (ma non era una cosa semplice, questa, poiché i genitori preferivano mandare i figli a lavorare nei campi).
[5] Questa paura, in verità, s’è protratta fino al Secondo Dopoguerra. Ricordo che, quando con alcuni compagni mi recavo a Sora a frequentare la scuola media (a piedi: 7 km. all’andata e altrettanti al ritorno), lungo la strada i contadini al lavoro nei campi, così ci dicevano: – Andate a studiare? Per diventare tutti professori, medici, ingegneri? Ne soffriremo di fame, quando nessuno più userà la zappa!
Ottavio Cicchinelli
Lezione tenuta dal M.so Ottavio Cicchinelli al Liceo Classico G.Carducci di Cassino come ultima tappa dei Seminari Storici organizzati dall’Ass. Id. Alta Terra di Lavoro.