Posted by altaterradilavoro on Ago 20, 2019
Un vescovo polacco bersaglio delle “milizie” Lgbt, ma stavolta viene difeso da tutti i suoi confratelli: succede nell’ex blocco sovietico dove, dopo gli attacchi ricevuti dall’arcivescovo di Cracovia Jędraszewski, è arrivato il sostegno prima dei vescovi polacchi e poi di quelli di Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. La compattezza tra i vertici delle Chiese dell’Europa orientale, figli della dittatura comunista, è dettata dalla sensibilità rispetto ai pericoli di tendenze totalitarie nella società. Una lucidità, quella nel denunciare la dittatura gender e Lgbt, che si vede anche nella difesa della sovranità nazionale.
Le gerarchie cattoliche tornano a tuonare contro l’ideologia gender. Sono i vescovi dell’Europa orientale ad alzare la voce per ribadire la posizione tradizionale della Chiesa: il rifiuto di “ogni marchio di ingiusta discriminazione” non va confuso con un avallo al tentativo di stravolgere la morale sociale e delle relazioni. Questo è il ‘succo’ delle dichiarazioni rese nei giorni scorsi da alcuni tra i più autorevoli prelati dell’ex blocco sovietico schieratisi a supporto dell’arcivescovo di Cracovia.
Monsignor Marek Jędraszewski era finito al centro delle polemiche nelle scorse settimane, bersagliato sui social da attivisti e simpatizzanti della causa arcobaleno per aver sostenuto che la cultura Lgbt sarebbe “una minaccia per i valori e per la solidità sociale e familiare della nazione”. Una tempesta mediatica in cui però non è stato lasciato solo: il presidente della Conferenza episcopale polacca, infatti, ha lanciato un appello in suo supporto per difendere il diritto a criticare l’ideologia gender nel dibattito pubblico. Una ‘chiamata’ a cui hanno risposto i suoi omologhi di Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. I capi dei vescovi di questi Paesi non si sono tirati indietro ed hanno preso una posizione pubblica in difesa di monsignor Jedraszewki esprimendogli solidarietà per gli attacchi subiti in questi giorni.
Quest’ultimo caso dimostra ancora una volta la compattezza esistente tra i vertici delle Chiese dell’Europa orientale, dettata probabilmente dalla particolare sensibilità in merito ai pericoli che potrebbero derivare dall’affermazione di tendenze totalitarie nella società. Si tratta, infatti, per lo più di pastori temprati dagli anni comuni del comunismo. Un altro trait d’union si può individuare anche nell’atteggiamento meno entusiastico mostrato nei confronti dell’Unione Europea rispetto ad alcuni omologhi occidentali – si pensi, ad esempio, a mons. Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente del Comece, che prima delle ultime elezioni aveva pubblicato sul “La Civiltà Cattolica” una sorta di manifesto programmatico ‘europeista’ – con tanto di dichiarazioni che esprimevano inquietudine per quelle “decisioni sovranazionali che impongono, a volte in modo indiretto, soluzioni in contrasto alle costituzioni e culture dei singoli Paesi”.
La difesa della sovranità nazionale, dunque, per la maggior parte dei vescovi dei Paesi dell’Europa orientale non è un crimine, ma un diritto: lo ha dimostrato, ad esempio, mons. Andras Veres, vescovo di Győr e presidente della Conferenza episcopale ungherese, con una dichiarazione pubblica contro la condanna inflitta da Strasburgo al governo Orban, sanzionato – secondo quanto detto dal presule – per aver difeso gli interessi della sua nazione. Nel comunicato, il capo dei vescovi magiari aveva anche criticato la gestione dei flussi migratori voluta dalla governance di Bruxelles e invisa all’esecutivo di Budapest.
Una linea condivisa dal cardinale Dominik Duka, primate della Chiesa ceca, per il quale la causa della crisi migratoria conosciuta negli ultimi anni dal Vecchio Continente sarebbe da addebitare alla politica delle porte aperte voluta dalla Merkel e dall’Ue. Come il suo omologo ungherese, anche il porporato ceco non ha mancato di difendere la sua nazione dall’accusa di non essere abbastanza accogliente con i rifugiati, ricordando al tempo stesso che la soluzione migliore per il problema consisterebbe nell’aiutare questi popoli nella loro patria.
Nemmeno i vescovi polacchi sono mai stati sostenitori della causa delle “porte aperte” in termini di politiche migratorie: monsignor Tadeusz Pieronek, ex segretario della Conferenza episcopale nazionale, in rotta di collisione con l’indirizzo attuale dell’organismo, ha accusato la Chiesa polacca di appoggiare il governo conservatore “contrario all’accoglienza dei profughi e degli immigrati”. Un parere espresso due anni fa all’indomani di “Un Rosario al confine“, la riuscitissima iniziativa appoggiata anche dalla Conferenza episcopale polacca e organizzata per “implorare l’intercessione della Madre di Dio per salvare la Polonia e il mondo” dalla secolarizzazione, che fu presentata polemicamente dalla stampa mondiale come “manifestazione anti-migranti”.
Anche monsignor Stanislav Zvolensky, arcivescovo di Bratislava, non ha mai nascosto di nutrire perplessità sulla politica di accoglienza indiscriminata a cui Bruxelles vorrebbe condurre anche i Paesi del “Gruppo di Visegrad”. Per il capo dei vescovi slovacchi, esisterebbe il rischio che gli attuali flussi migratori verso l’Europa, considerando la consistente componente islamica, possano cambiare “radicalmente la nostra civiltà”. Per impedirlo, il presule ha detto di ritenere “legittimo chiedere informazioni sulla religione che professano queste persone e su quanto sia benefico per la nostra società” il loro arrivo.
Tutte posizioni, queste, che dimostrano l’esistenza di un ‘fronte comune’ tra i presuli di Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia e che, come visto in questi giorni davanti agli attacchi piovuti addosso all’arcivescovo di Cracovia, non riguarda solo le politiche migratorie ma tocca anche altri temi importanti, tra cui quello del contrasto dell’ideologia gender è ai primi posti, insieme alla difesa delle radici cristiane del Vecchio Continente e al sostegno alla vita e alla famiglia.
fonte http://lanuovabq.it/it/una-luce-dallest-quei-vescovi-contro-gender-e-porte-aperte
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Posted by altaterradilavoro on Lug 27, 2019
Scrive Francesca Romana Poleggi su notizieprovita.it:
Tutti sanno che gli uomini hanno, in ogni cellula del corpo, cromosomi sessuali X e Y e le donne hanno due cromosomi X. E – anche senza essere genetisti – tutti sanno che le differenze tra il maschio e la femmina vanno ben oltre l’apparato sessuale e l’apparenza fisica.
Ma un recente articolo della professoressa Jenny Graves su The Conversation spiega che al di là dei geni X e Y, un terzo degli elementi del nostro genoma si comporta in modo molto diverso negli uomini e nelle donne.
Uomini e donne hanno circa 20.000 geni
L’unica differenza fisica è la presenza del cromosoma Y nei maschi. Questo Y, come potete vedere dalla foto, è più piccolo dell’X e contiene solo 27 geni. Uno di questi è il gene che determina il sesso e che si chiama SRY . E’ presente nell’individuo fin dal concepimento e dà il via alla crescita dei testicoli già 12 settimane dopo la fecondazione.
Fino a poco tempo fa, si credeva che solo la presenza o l’assenza di questo gene SRY distinguesse gli uomini dalle donne.
Ma ci sono altri 25 geni nel cromosoma Y, e un centinaio di geni nel cromosoma X (che nelle donne sono doppi perché hanno due X).
I geni producono le proteine che formano le diverse parti del corpo umano
I nostri 20.000 geni producono proteine che vanno a formare i tessuti, i capelli, o fanno contrarre i muscoli o portano l’ossigeno nel sangue ecc. Insomma, fegato e cervello condividono gli stessi geni, ma li esprimono in modo diverso.
I geni lavorano facendo copie di se stessi: la sequenza base del DNA viene copiata in molecole di RNA che si impegnano a creare le proteine. Più copie fa un gene di RNA, più proteine vengono prodotte.
Ora siamo in grado di misurare il numero di copie di RNA che ciascun gene produce . Un gene attivo può fare migliaia di copie, un gene inattivo può farne poche o nessuna.
Attività dei geni negli uomini e nelle donne
I genetisti Gershoni e Pietrokovsk hanno misurato l’RNA prodotto da 18.670 geni in 53 diversi tessuti (45 comuni a entrambi i sessi) di 544 donatori post mortem adulti (357 uomini e 187 donne).
Hanno scoperto che circa un terzo di questi geni (più di 6.500) svolge attività molto diverse negli uomini e nelle donne. Alcuni geni erano attivi solo negli uomini o solo nelle donne. Molti geni erano molto più attivi in un sesso o nell’altro.
Ma la maggior parte di questi geni non appartenevano ai cromosomi sessuali Y o X.
Le diversità tra uomini e donne non dipendono solo dal cromosoma Y
La complessa combinazione di geni, proteine e ormoni – che qui non è luogo per approfondire – determina un grosso impatto sulle caratteristiche fisiche e fisiologiche, e le conseguenti diversità fra maschi e femmine. Ma tutte queste differenze tra uomo e donna non sono determinate dai geni appartenenti al cromosoma X o Y.
Influenzano, ovviamente, il sistema riproduttivo – per esempio le ghiandole mammarie e i testicoli – differenziano lo sviluppo muscolare, la pelle (in particolare la pelosità), il tessuto adiposo, il cuore, il metabolismo e le funzioni cerebrali, che già sappiamo sono molto diverse nel cervello maschile e in quello femminile.
Queste scoperte potrebbero far fare un passo avanti alla “medicina di genere” e far capire perché gli uomini e le donne sono spesso diversamente suscettibili alle malattie e rispondono diversamente alle cure. Infatti, alcuni di questi geni associati al sesso – ma non appartenenti al cromosoma X e al cromosoma Y, sono anche associati a determinate malattie (cardiovascolari, osteoporosi, ipertensione).
Piaccia o no, uomini e donne differiscono geneticamente molto più profondamente di quanto finora si sia riconosciuto.
Chissà se davanti al dottore che deve prevenire o curare – per esempio – un infarto uno/a può pretendere – per legge – di essere curato non in base al sesso, ma in base al “genere che si sente”… e se si sente “neutro”…?
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Posted by altaterradilavoro on Lug 9, 2019
Oggi
assistiamo tutti con stupore – che rischia però di cedere il posto
all’assuefazione e alla rassegnazione – ad un fenomeno che dovrebbe rammentare
angosciosi precedenti storici: l’imposizione forzata di un’ideologia.
L’ideologia di cui parliamo, ovviamente, è quella del “genere” (gender), inteso come percezione
psico-culturale della sessualità distinta dal sesso biologico: l’essere
uomo/donna sarebbe cioè slegato dal
sesso biologico e determinato unicamente da
condizionamenti culturali.
L’ideologia gender si
prefigge lo stesso obiettivo delle campagne per l’introduzione del matrimonio
gay: scardinare
gli assetti sociali basati sulla famiglia e sulla complementarietà di sessi che
ne è premessa.
Se parliamo di “imposizione forzata” di quest’ideologia è perché –
come dovrebbe balzare agli occhi di tutti – si tratta di campagne calate
dall’alto, senza nessun radicamento sociale, propagandate con insistenza
ossessiva dai media e
imposte innanzitutto da sentenze di tribunali, le quali vogliono creare il
“fatto compiuto” e, quindi, la rassegnata assuefazione delle persone.
In Italia, per approvare a spron battuto la legge Cirinnà che
introduce il simil-matrimonio omosessuale, il governo Renzi non ha avuto remore
a ricorrere al voto di fiducia, cosa mai avvenuta su temi sociali (e
addirittura senza che si fosse concluso il dibattito in commissione).
Senza considerare, inoltre, la violenta espulsione dal dibattito
pubblico delle opinioni contrarie, tacciate in maniera liquidatoria di
“omofobia” (il dissenso retrocesso a malattia mentale) e accompagnate dal
tentativo di sanzionarle penalmente, introducendo un reato d’opinione.
In questo articolo, però, piuttosto che rimarcare – come
abbiamo già fatto altrove – l’assurdità e la pericolosità distruttiva di questa
ideologia, vogliamo puntare i riflettori su un altro aspetto: come ha fatto a
imporsi se non ha radicamento sociale? Chi la sostiene? E a quale scopo?
L’azione delle multinazionali USA
Non dovrebbe essere difficile rilevare la violenta pressione su
questi temi delle maggiori multinazionali USA.
Questi poteri economico/finanziari di dimensioni enormi
condizionano pesantemente la volontà democratica dei popoli: con l’azione dei media (che
controllano); investendo centinaia
di milioni di dollari in campagne politiche e in azioni
lobbistiche sulle istituzioni nazionali e internazionali (agenzie delle Nazioni
Unite e dell’Unione Europea); minacciando e ricattando chi esprime pareri
difformi (Guido Barilla, Domenico Dolce, Phil Robertson, ecc.); boicottando
Stati che promuovono leggi non gradite (di recente il North Carolina); premendo
addirittura perché siano discriminati i Paesi in via di sviluppo nella concessione
di aiuti (!).
Lo scopo immediato che
si prefiggono, come anticipato inizialmente, è
molto semplice: la disarticolazione della famiglia tradizionale.
Si tratta di una strada indiretta e parzialmente mascherata: non è mai bello
dire apertamente che si è “contro” qualcuno o qualcosa; meglio sostenere che si
è “a favore dei diritti” di qualcun altro… (i gay, la cui protezione dalle
“discriminazioni” è una foglia di fico).
Ma qual è lo
scopo ultimo che intendono raggiungere disarticolando la
famiglia?
Ebbene: promuovere
il controllo delle nascite e indebolire l’autonomia sociale delle persone, per
salvaguardare l’assetto socio-economico globale che garantisce la preminenza di
chi detiene il potere.
Ci stiamo abbandonando alla tentazione del “complottismo”, sulla
falsariga delle “scie chimiche”?
Ci facciamo prendere la mano
da forme stantie di antiamericanismo e anticapitalismo?
Beh, innanzitutto non è neanche esatto parlare di “complotti”,
visto che queste multinazionali sono schierate apertamente…
(Peraltro, se Obama chiama
Renzi per congratularsi il giorno stesso dell’approvazione della legge Cirinnà,
significa forse che al di là dell’Atlantico non sono così disinteressati a
queste vicende… Il Presidente del Consiglio potrà essersi vantato di aver
eseguito prontamente le indicazioni ricevute)
(…)
Ma vediamo su quali dati di fatto si poggia l’asserto che lo scopo
immediato dell’ideologia gender è
la disarticolazione della famiglia, e che lo scopo ultimo è quello di
promuovere la denatalità e indebolire le autonomie sociali.
La strategia contro la natalità
Negli ambienti delle élites economico-finanziarie
USA, a partire dalla fine degli anni Sessanta, si diffusero le teorie
neomalthusiane sui pericoli derivanti dall’incremento demografico della
popolazione mondiale (la “bomba demografica”). La famiglia Rockfeller fu tra i
principali sostenitori della costituzione del celebre Club di Roma, che nel
1972 pubblicò il Rapporto
sui limiti dello Sviluppo che formulava una serie di
previsioni catastrofiste sullo sviluppo economico (esaurimento di gran parte
delle riserve di petrolio entro il 2000, ecc.): questo rapporto ebbe
un’influenza incredibile nel dibattito culturale e politico degli anni
Settanta, anche se le sue previsioni si rivelarono ben presto esagerate o
infondate (peraltro, sarebbe interessante andarsi a rileggere la stroncatura
che ne diedero le forze di sinistra, accusandolo – col linguaggio di quegli anni
– di voler ostacolare il progresso e l’emancipazione delle classi lavoratrici
per conservare gli assetti di potere borghesi).
Le teorie neomalthusiane
ebbero grande influenza soprattutto sull’amministrazione USA, che decise di
attivarsi con energia in questa direzione: contenimento della natalità, anche e
soprattutto all’estero. Non per sensibilità rispetto ai destini del pianeta, ma
perché lo riteneva necessario per la sicurezza nazionale (come emerge dal “Rapporto
Kissinger”, ormai desegretato e disponibile su internet).
Anche oggi, tutte le politiche
promosse dalle agenzie ONU e definite di “salute riproduttiva” hanno una forte
impronta di questo tipo e sono attivamente sostenute da ong finanziate dai
Governi e dalle multinazionali USA (sono emerse anche iniziative finanziate dai
Governi USA sotto copertura, perché violavano la sovranità di Stati esteri).
È importante sottolineare, sia
pure per inciso, che la
bomba demografica non è scoppiata. La popolazione mondiale è
cresciuta, ma non ai ritmi temuti. La povertà e il sottosviluppo sono
diminuiti. Il ritmo di crescita si è invertito, come avrebbe dovuto sapere ogni
demografo avveduto (la crescita è caratterizzata dai cicli di “transizione
demografica” – equilibrio, crescita, nuovo equilibrio – descritti da una curva
“logistica”).
Attualmente nei Paesi
occidentali siamo anzi entrati in pieno “inverno demografico”,
che soffoca lo sviluppo (indebolimento e distorsione degli investimenti,
latenza del capitale umano, ecc.) e crea dissesti sociali (popolazione
invecchiata, cui non è più possibile pagare pensioni dignitose né garantire la
necessaria assistenza sanitaria. La “soluzione” è quella dell’eutanasia
diffusa… e anche questa non è una “deduzione”, ma una prospettiva apertamente
dichiarata: Jacques Attali, ecc.).
La “crisi finanziaria” del
2008, la più lunga della storia, è stata provocata – oltre che dalle concessioni
troppo disinvolte di mutui immobiliari – dalla necessità di garantire
rendimenti sufficienti ai fondi pensioni USA: da lì la crescita artificiosa
delle obbligazioni-spazzatura collegate al mercato immobiliare, l’esplosione
della bolla. Si tratta di una crisi non più ciclica, ma strutturale, perché la
composizione demografica delle popolazioni occidentali non consente riprese
stabili.
Il problema non è solo
dell’Occidente: in Cina hanno abolito la politica del figlio unico.
In alcuni Paesi africani e asiatici
la crescita è ancora alta; ma l’esperienza insegna (…) che la prima ricetta
utile a tale scopo è lo sviluppo, non le politiche neomalthusiane.
E invece siamo ancora qui a
sentir parlare di “decrescita felice”… Perché?
Perché il vero obiettivo
di certe multinazionali USA resta la difesa degli attuali assetti
geopolitici, non la salvaguardia del pianeta (tralasciando il fatto che quando
un obiettivo politico diventa ideologico, si innesca – anche nelle classi
dirigenti – un processo di autoconvincimento difficile da controllare…).
Ad ogni modo, per tornare alla
questione da cui siamo partiti: che cosa c’entra tutto questo con
l’ideologia gender?
Beh, basta
leggersi le proposte per ridurre la natalità formulate
nel marzo 1969 da Frederick Jaffe, vice-presidente della potentissima IPPF, in
un memorandum per Bernard Berelson (presidente del Population Council) e per
l’Organizzazione Mondiale della Sanità: “ristrutturare la famiglia”
(rinviando o evitando il matrimonio, alterando l’immagine della famiglia
ideale); avocare allo Stato l’istruzione obbligatoria dei bambini [anche in
tema di sessualità]; incrementare la percentuale dell’omosessualità; adottare
forme di penalizzazione fiscale e sociale per le famiglie; ecc. (in «Family
Planning Perspective» 1970, 2, 4, 25-31. Una sintesi qui: http://www.amen.ie/downloads/26009.pdf,
in particolare alle pagg. 15 e 16).
La famiglia era dunque
considerata il primo obiettivo strategico da colpire per contenere la natalità
(ovviamente venivano proposti altri strumenti, tra cui… la “depressione
economica cronica”! Negli anni successivi si è aggiunto all’arsenale anche
l’ecologismo radicale: l’ “impronta ecologica” dei nuovi nati, ecc.)
Come mai la famiglia fu posta
nel mirino?
Perché i sociologi hanno
evidenziato che le
donne procreano più facilmente all’interno di un rapporto matrimoniale,
quando hanno la sicurezza di poter condividere stabilmente con un uomo il
compito genitoriale. E questo accade anche in Paesi “evoluti”, in cui le forme
di convivenza alternative sono diffuse – e spesso addirittura prevalenti – da
decenni.
Le teorie gender,
la promozione del “matrimonio omosessuale” (istituto che fino agli anni Novanta
i gay hanno orgogliosamente sbeffeggiato), alterando la naturale
complementarietà dei sessi – uomo/donna -, hanno esattamente questo scopo:
“alterare la famiglia ideale”, suggerire che “quello che conta è l’amore”
(perché non importa il sesso di chi si ama o il progetto di vita che ci pone) e
quindi che il matrimonio è un inutile “pezzo di carta” (utile tutt’al più per
spuntare qualche beneficio legale), che i figli non ne sono il cuore, ecc.
Il movimento gay ha
deciso molto tempo dopo (la
successione temporale è incontestabile) di far propria una battaglia di altri,
vedendovi l’occasione di ottenere dallo Stato non solo la tutela dei propri
diritti, ma anche un pubblico riconoscimento “etico” della propria condizione.
E va detto anche che in questo cambio di strategia i movimenti gay (ILGA in primis)
sono stati “incoraggiati” dai generosi finanziamenti delle “solite” fondazioni
e multinazionali, che avevano bisogno di attivisti per la propria battaglia.
Tutte le multinazionali sono
unite nel “complotto”? Ovviamente
no.
Ci sono i gruppi economici più consapevoli e attivi in
quest’azione, tramite le fondazioni ad essi collegate: Rockfeller, Gamble,
Vanderbilt, Ted Turner, Bill e Melinda Gates, Packard, Hewlett, Open Society
Institute di Soros, Google, ecc.
Poi ci sono quelli che
preferiscono agire sottotraccia; quelli che aderiscono solo per seguire la
scia; quelli che lo fanno per timore di essere vittime di campagne denigratorie
o azioni di boicottaggio (come è già successo)…
La strategia per l’indebolimento delle autonomie sociali
Il secondo obiettivo – più sottile e meno confessabile – che si
pongono le principali multinazionali USA con la destrutturazione della famiglia
(anche mediante l’ideologia gender)
è quello di isolare gli individui e indebolirne l’autonomia. Il sistema
economico basato sull’incentivazione esponenziale dei consumi e l’induzione dei
bisogni ha bisogno di persone che siano “consumatori” e “mano d’opera” prima
che persone e cittadini.
Una famiglia fornisce un
sostegno psicologico profondo, importante anche per
resistere agli acquisti e agli stili di vita compulsivi: la moglie/marito che
ti ricorda di contenere le tue “fissazioni”, i figli che ti richiamano al senso
di responsabilità, ecc.
Una famiglia fornisce sostegno economico: ti puoi permettere di
resistere ai ricatti del “capo”, se hai alle spalle una rete di sostegno.
Una famiglia ti educa alla comunità e ti predispone a forme di
solidarietà sociale salde e non effimere.
Questo non significa che chi
non cresce in una famiglia solida sia destinato necessariamente ad
essere più fragile e manipolabile. Gli individui hanno grandi capacità di
adattamento. La famiglia, però, offre un indubitabile – e documentato –
sostegno alla persona. E, nella proiezione statistica generale, un tessuto
sociale basato su famiglie forti è un tessuto sociale più solido. Questo sanno
i sociologi, questo temono i “poteri forti”, politici ed economici.
Esemplare, in questo
senso, l’analisi del filosofo neomarxista Diego Fusaro: “Quella gender è
a tutti gli effetti ideologia di legittimazione di un ‘capitalismo
assoluto-totalitario’ che mira alla distruzione dell’identità umana, di modo
che possa imporsi, tramite una ‘mutazione antropologica’ (Pasolini), la nuova
figura del consumatore senza sesso e senza identità, integralmente plasmato dai
flussi desiderativi governati ad arte dal mercato”.
In questa prospettiva, l’ideologia gender è un tassello del mosaico politically correct, che vuole sopprimere le differenze e, con esse, l’idea di qualità.
fonte http://itresentieri.it/ce-qualcuno-dietro-la-ppromozione-dellideologia-gender-abbiamo-selezionato-alcune-riflessioni-interessanti/
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Posted by altaterradilavoro on Giu 5, 2019
(Mauro Faverzani) Delle pretese gender ora la gente non ne può proprio più ed alza la voce nel mondo, pretendendo per i propri figli un’educazione davvero attenta alle loro esigenze, priva di fronzoli ideologici e di “esperimenti” Lgbt. Lo dimostra quanto accaduto in Spagna, ad esempio, nelle cui scuole sono stati introdotti in sordina programmi di genere, in grado di produrre solo confusione indebita nei ragazzi, oltre tutto in una fase particolarmente delicata del loro sviluppo.
«Non permetteremo alla Giunta di fare esperimenti con i nostri figli»: è questo quanto ha dichiarato la presidentessa dell’organizzazione spagnola degli Avvocati Cristiani, Polonia Castellanos. Che, conseguentemente, ha denunciato all’Alta Corte di Giustizia l’assessore all’Educazione di Castiglia e León, Fernando Rey. L’accusa nei confronti di quest’ultimo è quella di aver applicato per mesi in modo illegittimo in tutte le scuole della Comunità autonoma il «Protocollo di attenzione educativa e di accompagnamento per gli alunni transessuali o con orientamento di genere irregolare». Il protocollo non è mai stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e della sua applicazione non sono mai stati preventivamente informati né gli alunni, né tanto meno le famiglie, del tutto all’oscuro dell’accaduto.
Tale programma ha, ad esempio, incoraggiato un uso promiscuo dei bagni e dell’abbigliamento, favorendo artatamente non solo l’incertezza di genere, anche in chi magari nemmeno vi pensasse, bensì aumentando esponenzialmente anche il rischio di molestie ed abusi.
Così facendo, secondo la denuncia, sarebbero stati violati i diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione. Un comportamento gravissimo, insomma, da parte di organi dello Stato, che hanno consapevolmente agito senza coinvolgere le famiglie in un percorso tanto problematico ed in scelte così azzardate: «I bambini affetti da disforia di genere meritano lo stesso rispetto di tutti gli altri, tuttavia da casi particolari non si possono trarre linee di condotta generale», ha dichiarato Castellanos. Ovvero, tanto per chiarire ulteriormente il discorso, «per cercare di aiutare questi ragazzi, non possiamo mettere a rischio tutti gli altri».
Non solo: il protocollo in questione ha comportato l’assunzione di «misure ancora più rischiose». Ad esempio, ha limitato la patria potestà e la primaria responsabilità educativa dei genitori, specie quando «dissentano dal modo di procedere della pubblica Amministrazione». Inoltre, i colloqui con gli alunni sono stati affidati ad associazioni come Dialogsexe Chrysallis(organizzazione delle famiglie di minori transessuali) ed impostati secondo discutibilissimi criteri di «totale indottrinamento con marcato pregiudizio ideologico», anziché – come dovrebbe essere per legge – essere gestiti semmai da professionisti accreditati ed in grado di garantire un punto di vista «imparziale».
Con l’assessore all’Educazione è stata denunciata anche la direttrice generale per l’Innovazione e per l’Eguaglianza Educativa, María del Pilar González, in quanto responsabile dell’applicazione di questo protocollo: incontrata dagli Avvocati Cristiani, non appena si è saputo dell’accaduto, ha cercato di giustificarsi, sostenendo che l’applicazione del protocollo fosse ancora in una «fase sperimentale», benché abbia dovuto ammettere che, in realtà, esso era già stato implementato in alcune scuole di Castiglia e León e di Valladolid.
Che, del resto, l’opinione pubblica non ne possa davvero più delle prepotenze, con cui la galassia Lgbt cerca di inculcare le proprie pretese nei soggetti minorenni, lo dimostra anche quanto accaduto in Perù: un’autentica rivolta popolare ha scatenato la decisione del Programma Nazionale d’Istruzione di Base di integrare in tutte le scuole le parole d’ordine dell’ideologia e dell’approccio gender, infischiandosene totalmente del rifiuto opposto dai genitori, dalle famiglie e da numerose organizzazioni di categoria.
Di fronte a tale prevaricazione è stata immediatamente organizzata una «Grande Marcia Nazionale» contro l’ideologia gender nelle scuole, promossa dai movimenti civici «Genitori in Azione» e «Dei miei figli non ti impicciare», cui hanno aderito anche numerose altre sigle e soprattutto moltissime famiglie.
Imponente è stata la partecipazione: dopo oltre due anni di “sperimentazioni”, del resto, la gente, ormai esasperata, intima il ritiro immediato di tutti i programmi di educazione di genere dalle aule del Paese sudamericano ed un rimpasto nei membri e nei piani del Consiglio Nazionale dell’Educazione.
Rodolfo Cortina, portavoce di «Genitori in Azione», ha dichiarato alla stampa che questa intende essere «la madre di tutte le Marce» contro qualsiasi dittatura ideologica: «Uniti più che mai, tutti i gruppi pro-family marciano in tutto il Paese per difendere l’innocenza dei figli e per chiedere un’educazione dignitosa per tutti i peruviani». Sarebbe ora. Ovunque. (Mauro Faverzani)
fonte https://www.corrispondenzaromana.it/basta-gender-in-aula-famiglie-in-rivolta-nel-mondo/
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Posted by altaterradilavoro on Mar 7, 2019
Sulla Gazzetta Ufficiale la notizia che la triptorelina sarà a totale carico del Servizio sanitario nazionale «in casi selezionati in cui la pubertà sia incongruente con l’identità di genere». L’ennesimo ossequio all’ideologia Lgbt, che non tiene conto dei rischi per la salute e contribuirà a ignorare ancora di più il dato morale, avallando qualunque percezione del minore.
La triptorelina è un farmaco che, tra i vari usi, viene impiegato per ritardare lo sviluppo puberale nei ragazzi tra i 12 e i 16 anni. In Italia, già dal 2013, l’ospedale Careggi di Firenze lo adopera per quei casi cosiddetti di disforia di genere che interessano minori. In buona sostanza si blocca lo sviluppo puberale del bambino che dice di non riconoscersi nel suo sesso biologico o che nutre alcuni dubbi sulla sua identità psicologica sessuale e lo si parcheggia in un limbo sessuale affinché, passato un po’ di tempo, si chiarisca le idee e decida a che sesso “appartenere” oppure si proceda alla “rettificazione sessuale” chirurgica nell’assunto che risulti più agevole, dato che i suoi attributi sessuali non si sono ancora sviluppati appieno.
L’anno scorso l’Agenzia italiana per il farmaco (Aifa) aveva dato il proprio parere favorevole affinché la triptorelina fosse inserita nell’elenco dei medicinali a carico del Servizio sanitario nazionale. Il 13 luglio del 2018 il Comitato nazionale di bioetica, con un solo voto contrario, aveva anch’esso benedetto l’uso di questo preparato. Lo scorso 2 marzo, infine, sulla Gazzetta Ufficiale si poteva leggere che tale farmaco sarà pagato da noi contribuenti solo per «casi selezionati in cui la pubertà sia incongruente con l’identità di genere (disforia di genere), con diagnosi confermata da una equipe multidisciplinare e specialistica in cui l’assistenza psicologica, psicoterapeutica e psichiatrica non sia risolutiva». In breve, si potrà in teoria usare questo farmaco solo come extrema ratio, quando tutte le altre soluzioni si saranno rese vane: ma sappiamo bene che, praticata una crepa nella diga, a breve tutta la diga crollerà e quindi l’uso di questo preparato sarà sempre più diffuso, senza dimenticare che, già di per sé, il blocco della pubertà è un problema.
I possibili effetti collaterali della triptorelina sono ictus, patologie cardiache, aumento degli zuccheri nel sangue, costipazione, problematiche in ambito sessuale, diarrea, capogiri, mal di testa, vampate, perdita dell’appetito, nausea, insonnia, fastidi allo stomaco, stanchezza o debolezza, vomito. E stiamo parlando di effetti nocivi sugli adulti. Ma questo non è il punto, dato che ogni farmaco presenta in genere degli effetti indesiderati. I problemi sono altri.
Scienza & Vita e il Centro studi Livatino avevano prodotto un analitico documento (clicca qui) sull’uso di tale farmaco in relazione alla problematica della disforia di genere riguardante i minori. Nel documento si rilevava che mancano sufficienti studi clinici soprattutto in merito ai possibili effetti negativi a lunga scadenza (follow-up). Inoltre si sottolineava un particolare rischio concreto, cioè che «la pratica clinica quotidiana degeneri, finendo per ridurre la soluzione di un problema così complesso e decisivo per la persona alla banale somministrazione di una molecola». In altri termini, il farmaco sarà pure efficace nel bloccare la pubertà, ma non per risolvere i problemi psicologici del minore. Lo studio, in aggiunta, appuntava un dato importante: lo sviluppo sessuale di un minore confuso può aiutare a superare questa confusione. Cristallizzarlo invece nella sua condizione fisica pre-puberale può parimenti cristallizzare la sua stessa confusione. Così il documento: «Il blocco della pubertà e – quindi – anche degli ormoni sessuali potrebbe compromettere la definizione morfologica e funzionale di quelle parti del cervello che contribuiscono alla strutturazione dell’identità sessuale insieme con i fattori ambientali ed educativi. […] Si induce quindi farmacologicamente un disallineamento fra lo sviluppo fisico e quello cognitivo».
Inoltre c’è il problema del consenso, come fanno presente Scienza & Vita e il Centro studi Livatino: «un minore in età prepuberale che si trovi in “condizione frequentemente accompagnata da patologie psichiatriche, disturbi dell’emotività e del comportamento”» può esprimere un consenso valido? «Come possono i professionisti del settore garantire che il consenso di un preadolescente affetto da disforia di genere sia “libero e volontario”?». Infine, dato più rilevante degli altri, tra i minori che soffrono di questo disturbo – uno su 9.000 – moltissimi superano il problema in modo naturale senza l’intervento di farmaci.
Il Collegio americano dei Pediatri, con un documento aggiornato nel settembre 2017 (Gender ideology harms children, “L’ideologia gender fa male ai bambini”), si espresse proprio sulla tematica del blocco puberale per i minori affetti da disforia di genere indotto con farmaci. Riproduciamo ampi stralci di questo parere assai incisivo: «La sessualità umana è un carattere oggettivo, biologicamente binario: “XY” e “XX” sono indicatori genetici del maschio e della femmina, rispettivamente – non marcatori genetici di un disordine. […] Nessuno nasce con la consapevolezza di essere maschio o femmina: questa consapevolezza si sviluppa nel tempo e come tutti i processi di sviluppo può essere distorto dalle percezioni soggettive del bambino, dalle sue relazioni ed esperienze negative, dall’infanzia in avanti. […] La convinzione di una persona di essere qualcosa che in realtà non è costituisce, nella migliore delle ipotesi, il segno di un pensiero confuso. Quando un ragazzo altrimenti sano crede di essere una ragazza esiste un problema oggettivo che sta nella testa, non nel corpo, e dovrebbe essere trattato come tale. Questi bambini soffrono di disforia di genere. La disforia di genere (GD), in passato annoverata quale disordine dell’identità di genere (GID), è un disordine mentale riconosciuto nella più recente edizione del Diagnostic and statistical manual dell’American Psychiatric Association (DSM-V). […] La pubertà non è una malattia e gli ormoni che bloccano la pubertà possono essere pericolosi. Reversibili o meno, gli ormoni che bloccano la pubertà inducono uno stato di malattia – l’assenza della pubertà – e inibiscono la crescita e la fertilità in un bambino precedentemente sano. Secondo il DSM-V, fino al 98% dei bambini con confusione di genere e fino all’88% delle bambine con confusione di genere accettano il proprio sesso biologico dopo che attraversano naturalmente la pubertà. I bambini che assumono ormoni blocca-pubertà per impersonare l’altro sesso richiederanno ormoni cross-sex nella tarda adolescenza. Questa combinazione porta alla sterilità permanente. Questi bambini non saranno mai capaci di concepire un bambino neppure attraverso le tecnologie riproduttive. Inoltre, gli ormoni cross-sex (testosterone ed estrogeni) sono associati a gravi rischi per la salute, compresi (ma non solo) malattie cardiache, alta pressione, trombi, infarto, diabete e cancro. I tassi di suicidio sono quasi venti volte più alti negli adulti che usano ormoni cross-sex e si sottopongono alla chirurgia per il cambio di sesso, persino in Svezia che è tra i paesi più tolleranti con le persone LGBTQ. Quale persona compassionevole e ragionevole condannerebbe i bambini a questo destino sapendo che dopo la pubertà fino all’88% della bambine e fino al 98% dei bambini accetteranno alla fine la realtà e raggiungeranno uno stato di benessere mentale e fisico? Condizionare i bambini a credere che una vita intera di impersonificazione chimica o chirurgica dell’altro sesso sia una cosa normale è violenza sui bambini. Supportare la discordanza di genere come normale attraverso la scuola o le politiche legislative confonderà bambini e genitori, portando più bambini a presentarsi alle “cliniche del genere” ove gli daranno farmaci blocca-pubertà. Questo, in cambio, praticamente garantisce che essi “sceglieranno” una vita di ormoni cross-sex cancerogeni e comunque tossici, e molto probabilmente penseranno a mutilazioni non necessarie delle parti sane del loro corpo quando saranno adulti».
Dal punto di vista morale, e qui facciamo eco alle considerazioni di carattere psicologico del Collegio americano dei Pediatri, è bene ricordare che la psiche si deve conformare al corpo sessuato. Vi sono casi in cui gli attributi sessuali non si conformano perfettamente al dato genetico e in queste ipotesi la chirurgia e la farmacologia devono fare la loro parte perché ci sia armonia tra caratteri sessuali primari e secondari e profilo genetico che è maschile o femminile. Ma anche in questi casi la percezione di sé deve uniformarsi al sesso genetico. Purtroppo l’orientamento della pratica medica non asseconda questa prospettiva, bensì tende ad avallare in definitiva qualsiasi percezione del minore.
fonte http://lanuovabq.it/it/omaggio-al-gender-via-libera-al-farmaco-blocca-puberta
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