Pino Aprile: Hanno paura della memoria L’autore di “Terroni” contro gli storici
Un gruppo di docenti aveva promosso una petizione per fermare l’iniziativa della Regione che vuole istituire la giornata in ricordo delle vittime meridionali dell’Unità
Altro che Lea Durante, roba da dilettanti, siamo all’uso «proprietario» e politico della storia, teorizzato da Alessandro Barbero, sull’onda degli storici «sabaudisti»: scegliere cosa narrare e farne miti fondanti, per formare patrioti. Quindi è pedagogia, politica; nessuna meraviglia, che la storia «non scelta», la raccontino altri. Il popolo vota (bene, male, come gli pare: è il difetto della democrazia, pur così malmessa); i rappresentanti eletti votano (bene, male, eccetera); sul Giorno della Memoria delle vittime dimenticate (e diffamate: guai ai vinti!) dell’unificazione d’Italia con saccheggi, stupri e genocidio, gli eletti dicono sì, all’unanimità o quasi, in Basilicata, Puglia, una mezza dozzina di Comuni, e la Campania stanzia 1,5 milioni di euro in manifestazioni, studi, approfondimenti.
Al che, altri eletti (nessuno li ha votati, forse si ritengono tali) ordinano al presidente della Puglia di ignorare il voto a loro sgradito; non «finanziare alcun momento pubblico» (clandestino, invece sì?) dell’iniziativa voluta dal parlamento regionale; non consentire che di storia si parli nelle scuole (da «non coinvolgere in alcun modo»), se non come deliberato da lorsignori.
Scusate, le orecchiette con le cime di rape: l’alice sì o no? Metti che uno si sbagli e parta una petizione… «Diremo agli studenti che il Mezzogiorno è arretrato per colpa dell’unificazione italiana?», scrivono i firmatari della petizione. No, perché, scusate, voi ancora raccontate che il Regno delle Due Sicilie era arretrato e sono arrivati i civilizzatori a dirozzarli, distruggendo le fabbriche o mandandole in rovina dirottando gli appalti al Nord, rubando l’oro delle banche e sterminando centinaia di migliaia di «arretrati», quindi poco male…? Leggete cosa scrive il ministro Giovanni Manna al re, rapporto sul censimento 1861, sul fatto che mancano 458mila persone, per la «guerra», rispetto al totale atteso; leggete, archivio Istat, con tabelle, i padri della demografia unitaria, Pietro Maestri e Cesare Correnti, sul fatto che, appena arrivati i piemontesi, al Sud, la popolazione, che cresceva più che nel resto d’Italia, smette di farlo e diminuisce di 120mila unità in un anno; o Luigi Bodio, capo della statistica, archivio Istat, sui 110mila giovani, quasi tutti terroni, renitenti alla leva, tutti morti, o «clandestinamente» emigrati (peccato che non si trovino…); o dei 105mila terroni, tutti maschi, scomparsi («emigrati» pure loro?).
Leggete dei 600mila incarcerati nel ‘61, dei 400mila ancora nel ‘71, riferisce il di Rudinì, in Parlamento, della mortalità nelle carceri che arrivò al 20 per cento; dei deportati, almeno 100mila, di cui 20mila, denunciò il Maddaloni, nel solo 1861. E dopo aver tacciato quali «fantasiose ricostruzioni», «leggende», «fole» le ricostruzioni degli eccidi sabaudi al Sud, ora che non si riesce più a negarli, ci è offerta come «onestà intellettuale» l’ammissione che «gli storici devono fare di più per portare alla luce e spiegare e stigmatizzare i numerosi episodi di violenza a carico delle popolazioni meridionali».
E già, in 156 anni è mancato il tempo… Han dovuto dircelo gli storici stranieri, come Denis Mac Smith, che ci furono più mort’ammazzati (per il loro bene, si capisce) per annettere l’ex Regno borbonico che in 11 anni di guerre di indipendenza contro l’Austria. Ed è ancora uno straniero (temibile neoborbonico?), il professor John Anthony Davis («Napoli e Napoleone»), università del Connecticut, fra i maggiori studiosi della nostra storia di quegli anni, a dirci che la favola dell’arretratezza del Regno delle Due Sicilie fu «inventata» da Bendetto Croce, per giustificare le condizioni sempre peggiori in cui precipitò l’ex Regno divenuto «Sud», dopo le amorevoli cure unitarie. Lo dimostrano gli studi dei prof Paolo Malanima e Vittorio Daniele, del Consiglio nazionale delle ricerche, di Stephanie Collet dell’università di Bruxelles, dell’Ufficio studi della Banca d’Italia (Carlo Ciccarell e Stefano Fenoaltea), di Vito Tanzi (Fondo monetario internazionale). Ma bastavano Francesco Saverio Nitti, Giustino Fortunato, unitarista deluso, quando scoprì che «questi sono più porci dei peggiori porci nostri», Gramsci che parla del Sud «colonia». Inutile l’ottimo ciclo di studi ricordati, su queste pagine, dal professor Saverio Russo (che ne fu un protagonista), sull’inconsistenza della vulgata «miseri e arretrati», o del professor Luigi De Matteo («Noi della meridionale Italia»), dell’Orientale di Napoli; eccetera.
Il Regno delle Due Sicilie non era più povero del Nord (più o meno stesso reddito) né arretrato (il doppio degli studenti universitari del resto d’Italia messo insieme; le fabbriche più grandi della Penisola; addetti all’industria più numerosi di oggi). Ma fosse stato economicamente indietro del 15-20 per cento, come arditamente sostenuto di recente (con riaggiustamenti successivi, però…) da un poi fortunato titolare di cattedra in «Tutta colpa del Sud»: quale affare avremmo fatto, se in 156 anni siamo precipitati al 56 per cento del reddito medio del Nord, 3-4 volte peggio?
Ci vuole coraggio a spacciare questo per unità (ma non prendono treni lorsignori, non hanno figli in partenza per altrove, mentre Milano forse si fotte l’ennesima mammella, un’Authority europea, dopo l’Expo-mafia, Human Technopole eccetera sempre con soldi pubblici?); a pensare di liquidare tutto come «propaggini estreme di un meridionalismo “piagnone” e rivendicazionista» (e ci trovate pure qualcosa da ridere?) o nominando tutti «neoborbonici» sul campo, «sanfedisti», faccia buia della luminosa medaglia di quei giacobini che presero a cannonate i loro concittadini, per consegnare il Paese a un esercito straniero, che lo spogliò di tutto, massacrando (il solo generale Thiebault) 60mila persone. Discutiamo delle idee, ma pure del prezzo di vite altrui che si è disposti a pagare per imporle a chi non si riesce a convincere.
Ma che paura fa il Giorno della Memoria? Saranno convegni, dibattiti, manifestazioni… E cosa impedisce a chiunque, in civile confronto (sempre che non sia proprio questo che inquieta), di esporre dati e opinioni cui si attribuisce maggior fondatezza? Dovreste esser lieti di una possibilità così succulenta di sbugiardare il branco di…? di…? «Neoborbonici»! Evvai (ma che palle!). Invece di virare sulla paura che si alimenti «l’inconsapevole sentimento antiunitario contro il leghismo del Nord». Mentre non fa paura il consapevole (dimostrato e gridato) sentimento antiunitario della Lega Nord contro il Sud. Se no una petizione l’avreste fatta. Mi sbaglio?
Lea Durante ha mai promosso petizioni per adeguare la rete ferroviaria (tutto a Nord, nulla a Sud) con o senza alta velocità (o è revanscismo neoborbonico?). O contro l’esclusione, da parte del ministero dell’Istruzione, di poeti e scrittori meridionali, pur se premi Nobel, dai programmi di Letteratura del Novecento per i nostri licei? No? Eppure son 7 anni che si fanno raccolte firme, proteste di istituti scolastici, interrogazioni parlamentari. O contro la normativa che «premia il merito» degli atenei che sorgono nelle regioni più ricche e condanna a morte prossima quelli meridionali?
O contro i criteri in base ai quali la salute di un terrone vale meno di quella di un settentrionale? (A meno che i firmatari, non abbiano taciuto per non parer «piagnoni» e «revanscisti»). La cultura faccia ponti non fossati, professoressa. Il Giorno della Memoria serve a discutere. Chi ne ha paura, teme di non aver da dire o quel che può esser da altri detto.
Ma quanne ‘na cose niscune te la vo’ di’, allore la terre se crepe, se apre, e parla.
Pino Aprile
fonte
corrieredelmezzogiorno.corriere.it